Piazza della Repubblica
Un racconto di una Torino all’alba, prima che riprenda vita la routine quotidiana.
Gennaio soffia freddo sui volti della gente. Quelli che si alzano alle quattro e mezza tutti i giorni, lo conoscono bene. Conoscono il martellio della sveglia, il pavimento gelato, lo stomaco chiuso. Sanno che la città al mattino presto, quando è ancora buia e sonnolenta, ha grandi occhi curiosi che non risparmiano nessuno. Tra i primi rumori dell’alba, piano piano, si montano i banchi del mercato, viene tirata fuori la merce, frutta e verdura nelle cassette di legno vengono trasportate di mano in mano come figli appena nati, ancora sporchi di terra. In inverno il lavoro è più duro, per quelli che lavorano in piazza. Il freddo ormai è un vecchio compagno, un rassicurante amico severo, ma non tutti si sono abituati. Per esempio Rahid, ogni volta che si sveglia, guarda Torino fuori dalla finestra, inspira e chiude gli occhi, pensando alla Nigeria: la casa di sua mamma in cui è cresciuto, il calore della terra secca, il profumo degli alberi davanti all’ingresso. Poi si infila il cappello blu ed esce nel flusso dell’asfalto dirigendosi a Porta Palazzo. Si specchia nelle pozzanghere ingannevoli, osserva il cielo da lì, senza neanche più alzare gli occhi.
I primi tram, le prime ruote che sfilano sulla strada e il rumore dei bancali ammassati l’uno sull’altro sono l’unico sottofondo che accompagna questa antica routine, così vecchia e pura che quando non ci sarà più, la città avrà perso un organo.
Per esempio Rahid, ogni volta che si sveglia, guarda Torino fuori dalla finestra, inspira e chiude gli occhi, pensando alla Nigeria
Alla fermata numero 102 c’è Selma che attende, con la sciarpa fin sopra la bocca, ci respira dentro per creare un po’ di calore. Ha labbra bellissime, che nessuno può vedere, e gli occhi, quelli sì, sono occhi di chi è stanco ma sogna lo stesso. Le cose che più le mancano della sua vecchia vita sono, rispettivamente in ordine di intensità: il profumo forte del caffè turco, i bicchieri di raki durante i pranzi di sua nonna e il cielo di Istanbul. Ora tiene per mano sua figlia, che saltella nelle sue scarpe luminose, la accompagna a scuola domandandosi se le farà mai vedere il posto in cui è nata. Selma ritorna al mercato, non le piace ritrovarsi a chiacchierare con le altre signore, ‹‹parlano troppo›› e preferisce di gran lunga osservare, fare il suo lavoro silenziosamente. Lei e Rahid, ogni tanto, si lanciano certe occhiate, certi sguardi chiassosi, da far indignare Allah e tuti gli altri dèi. Lui maneggia i cavoli e le arance con cura e delicatezza, con le sue mani rosse e screpolate, le dita bellissime, e si finge concentrato. Lei guarda ogni cosa attorno a sé, tra i frettolosi clienti sgarbati e quelli eterni e indecisi che si alternano tra le grida, gli umori storti, e la mattinata che cammina.
Ora tiene per mano sua figlia, che saltella nelle sue scarpe luminose, la accompagna a scuola domandandosi se le farà mai vedere il posto in cui è nata.
Quando arriva il momento, senza che nessuno lo decida precisamente, si ritira tutto quanto, un po’ come bambini che ritirano i giochi sparsi sul pavimento. Si raccolgono i saluti, la merce invenduta, le fatiche infinite, i sentimenti indomabili. Restano soltanto scarti marci, bucce calpestate e un paio di buste di plastica che gonfie di aria svolazzano sole.