Quando gli schermi bombardano le nostre vite
Una brevissima non classifica delle serie tv più belle che hanno esordito in questo scalmanato 2016.
Su questo ponte non so proprio cosa dirvi. Anzi, se proprio devo dirla tutta, non è nemmeno un ponte, dato che capita in pieno giovedì, uno di quei giorni sempre tra i piedi. Al massimo potrebbe trattarsi di weekend lungo, ma non è che la cosa cambi più del dovuto. Ho lo smartphone all’1% e delle vampate di calore che non riesco a controllare. Sfilo il maglione in modo da poter respirare meglio. Qui quasi si muore asfissiati.
Ho pensato intensamente ad una classifica composta dai migliori libri pubblicati in questo 2016, ma ormai ce ne sono già troppe in giro. Non vorrei mica apparire come uno di quelli che scrive cose scontate — cosa mai penserebbero gli altri?
Anche se, a dire il vero, una classifica scontata la vorrei proprio stilare. Se quella letteraria non sono riuscito a proporla agli amici dell’Indiependente allora opterò per quella delle migliori serie tv che hanno esordito in questo anno fatto di morti scontate e referendum persi per via dei millennials. Cazzo, è morto Leonard Cohen e io devo ancora imparare a memoria il suo ultimo album.
Più che migliori serie tv, elencherò quelle che più mi hanno colpito. Metterò nero su bianco una lista costruita secondo dei criteri cronologici e delle sensazioni che ho provato durante la visione. Certo, non ci saranno mica tutte, ma quelle che mi hanno investito completamente saranno totalmente disponibili.
Inizierò dalla prima, quella che ho visto in soli due giorni prima che la calura estiva colpisse tutti senza esclusioni di colpi.
Caro aprile, del tuo pesce non so che farmene.
Sono un perenne sfigato. Per la gioia di tutti voi ho ormai oltrepassato quella fase in cui mi piango addosso; adesso sono completamente conscio delle mie incapacità, o almeno mi illudo di esserlo. Sono una delle persone più indecise di questo pianeta, ecco perché non potrei mai gestire Casa di Ringhiera completamente da solo. Detto questo, io a Netflix gli voglio un sacco di bene, pur non avendo più alcun abbonamento — la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata House of Cards. È stato solamente grazie a lui che ho conosciuto Gus e Mickey, i due protagonisti di Love (2016) diretto da Judd Apatow. Non ve lo nascondo, sin dal primo episodio io mi sono visto in Gus (Paul Rust). A dire il vero siamo tutti — o quasi — dentro la serie di Apatow. Love narra l’amore e le sue sfumature intricate in un vortice di emozioni che vanno dall’alto verso il basso. Tutto ruota introno a Los Angeles e le vite di Mickey e Gus. I lavori precari, i set cinematografici e il tormento della passione che riduce l’amore in brandelli. Tutto ricoperto di ironia amplificata all’ennesimo livello. Questa serie ha significato tanto per me, più della pubblicazione di Eccomi.
Luglio, quanto diamine sei bello.
Faceva un caldo terribile e odiavo tutti. Avevo da poco rivisto la seconda ed ultima stagione — almeno stando ad oggi — di True Detective. Uscivo da quell’immersione tutta californiana quando ho scelto di vedere il pilot di Billions con Paul Giamatti e Daniel Lewis. È la storia di un procuratore che insegue un abile miliardario che sa bene come muoversi in quella giungla che è il mercato finanziario. Denaro che corre da un lato all’altro del pianeta, un matrimonio fissato su un vincolo che va oltre i limiti e un nemico da abbattere a tutti i costi. Ho visto una puntata dopo un’altra, stregato da quello che ogni volta accadeva. La finanza americana messa a soqquadro da un conflitto che non si era mai attenuato. Paul Giamatti è un maestro quando viene scelto per dei ruoli del genere. Ho ancora impressa nella mente la sua interpretazione in Lady in the Water (2006) di M. Night Shyamalan. Tutta la narrazione di Billions è incentrata sul duello tra i due protagonisti, ma nessuno di loro sarà in grado di avere la meglio — almeno fino a questo finale di stagione.
Agosto, pur odiandoti, mi hai sorpreso.
Questa è una serie che ha esordito nel mese di luglio, ma ad agosto non sapevo cosa cavolo scegliere, per questo ho cliccato play su quella che prometteva di essere la migliore serie tv del 2016. Sono sempre rimasto lontano da tutte quelle cose che vengono puntualmente annunciate a furor di popolo, ma nel caso di Stranger Things ho fatto un’eccezione — e non me ne sono affatto pentito. Pur odiando il genere, quella dei fratelli Duffer (Matt e Ross, entrambi ideatori della serie) ha dato vita ad un hype talmente alto da diffondersi ad una velocità pazzesca all’interno di tutti i social network. Questa è la storia di quattro ragazzini e di Undici, la ragazzina dai super poteri che metterà tutti in salvo. Stranger Things è un omaggio spudorato agli anni ottanta, ai film horror di John Carpenter e alla letteratura di Stephen King. Intorno all’intera vicenda gravitano vite che sono ai margini della società. Da Joyce — la mamma di Will interpretata da Wynona Rider — fino a Jim — il poliziotto interpretato da David Harbour — è una giostra in continuo movimento assediata dal disagio e dalla disperazione. Undici, interpretata da quel talento di Millie Bobby Brown, è una ragazzina che nella sua lotta contro il male impersonato dal direttore del laboratorio scientifico trova la forza per mettere fine al terrore vissuto da tutti dopo la scomparsa di Will. Due mondi paralleli giacciono in assoluta tranquillità nelle rispettive dimensioni fino a quando non interagiscono tra loro. È solo a quel punto che accade l’irreparabile.
Novembre selvaggio.
Joe Swanberg è una delle figure più importanti del cinema indipendente americano, per questo la sua Easy prometteva grandi cose — e così è stato. Serie antologica composta da otto episodi, la narrazione raccoglie le dinamiche e le vicende interpersonali di giovani coppie alle prese con i loro scogli insormontabili. Il comune denominatore? I trenta anni. Tutti i tentativi di concepire un figlio, la voglia di cambiare definitivamente vita e quella di uscire dalla routine che attanaglia il matrimonio. In tutte le situazioni narrate c’è una buona percentuale di volontà di evadere dall’ordinario che porta i protagonisti ad essere simili ai personaggi usciti da un racconto di Carver o di Ford. Così mi sono ritrovato coinvolto in una serie che cerca di aprire gli argini di una generazione bloccata da un ammasso di sciocchezze che impediscono la sua stessa realizzazione. Swanberg cala la sua arte in uno scenario sociologico che non sa mentire in alcun modo. Nelle otto storie c’è abbastanza fedeltà alla realtà da far quasi accapponare la pelle. Come in Love, anche in Easy siamo ritratti alla massima perfezione. Di questo dobbiamo rendercene conto, prima o poi.
Novembre selvaggio parte II.
Arriviamo così alla serie che ho visto nell’ultima settimana del mese scorso. A novembre alcuni sono tristi per l’arrivo del freddo, altri — me compreso — gioiscono per quella cosa chiamata flanella. Sotto le coperte, per poche sere, ho visto tutti gli episodi di Animal Kingdom. Un esordio passato in sordina per la serie targata TNT. Al contrario di quanto letto in giro, per me è una serie tv che promette bene. Certo, è anche vero che sono un orfano di Jax Teller e dei Son’s of Anarchy, ma sin dal primo episodio mi è sorto spontaneo creare un parallelo tra le due serie. Al centro di Animal Kingdom bollono le dinamiche di una famiglia completamente fuori dal comune. Il teatro in cui si svolge la vicenda è Los Angeles. Una nonna, quattro figli ed un nipote danno vita ad un’atmosfera scintillante, la stessa che capovolge l’attuale antropologia occidentale a cui siamo abituati. Più che una classica famiglia americana, i Cody sono una banda di rapinatori. Soldi a palate e droga a fiumi, tutto è gestito dalle abili mani di nonna Smurf, interpretata da Ellen Barkin. Sono dieci episodi duri da digerire — finalmente! –, episodi che ti mettono davanti ad una realtà poco navigata, ma che persiste dietro le quinte della casa al mare e dell’apparenza sempre distratta.
Da questa lista ho lasciato fuori i vari Narcos e Black Mirror. Mi sono detto fin dall’inizio di non andare oltre gli schemi, altrimenti avrei fatto notte — e voi mi avreste mandato tranquillamente a quel paese. Per il prossimo anno ci sono un sacco di cose da aspettarsi, più di tutte i vari sequel di queste prime stagioni. Le ho viste tutte in momenti diversi dell’anno, quasi ad incasellare ognuna di esse in un mese ben preciso. Qualcuno porterà di certo rancore per come evolveranno le storie, qualcun altro al contrario apprezzerà, qualcun altro ancora le amerà alla follia.
Sto scrivendo questa non classifica da qualche ora. Mentre lo faccio rifletto su quella che potrebbe essere la migliore serie tv di quest’anno, ma non riesco proprio a sbilanciarmi. L’impatto di Stranger Things è stato notevole, nessuno può negarlo, eppure resto ancora fermo sulle mie. Mi sento più vicino a Love e Easy che ai dannati supereroi. Una delle grandi assenti è The Night of, serie che ho deciso di guardare durante le feste — sempre se ne avrò la possibilità. Ma allora, cosa mai potrò nominare come miglior produzione in assoluto?
Ecco, alla fine non ci sarà nessun vincitore. Questa mia non classifica resterà una non classifica. Nessun lieto fine riuscirà ad avere la meglio sulle conclusioni di questa lista. Stessa cosa vale per il ripristino dell’abbonamento a Netflix. Attualmente il mio rapporto con le finestre pubblicitarie che spuntano all’improvviso va a gonfie vele.