Raccontare la fuga

Michele Nenna
Casa di Ringhiera
Published in
7 min readDec 22, 2016

Dentro La Vendetta, raccolta di racconti scritti da Agota Kristof.

Photo credit: Martin Kníže / Unsplash

Un uomo lascia la propria casa di città per andare a vivere in campagna, lontano dal caos che impazza giorno dopo giorno. Inerme assiste al boom industriale, all’aumento delle auto che circolano nella piazzetta sotto la sua finestra e alla sparizione lenta della calma intesa come condizione idonea per ritrovare sé stessi. Corre in campagna, prende una cascina e ci abita per qualche anno. A 150 metri dalla sua nuova casa alzeranno un’autostrada, riportando l’uomo ancora una volta nel bel mezzo del turbine metropolitano. Le auto viaggiano su e giù per le corsie, in pieno giorno e in piena notte. Tutto sembra comunque sopportabile, almeno fino a quando non costruiscono un inceneritore per i rifiuti urbani a 80 metri dalla sua abitazione.

Questa è la trama sviscerata de La campagna, racconto di Agosta Kristof contenuto in La vendetta (Einaudi, traduzione di Maurizia Balmelli). Il protagonista è un uomo che cerca di fuggire da un grosso nemico difficile da abbattere. Invade tutti gli spazi della sua infanzia, gli stessi dov’è cresciuto con la sua famiglia, e lo insegue anche in aperta campagna, lontano dal trambusto e dallo smog asfissiante. Asfissiante è anche la sua voglia di liberarsi dalla morsa del progresso, la stessa che l’ha costretto a migrare altrove per cercare una certa stabilità ormai smarrita. È una corsa che si veste di grinta e — se vogliamo — da nuvola di Fantozzi. Il protagonista si allontana con la convinzione di averla fatta franca una volta per tutte, ignaro della potenza che il suo acerrimo nemico nasconde bene sotto un mantello cucito da una spregiudicatezza espressa attraverso alti livelli.

L’impronta generale dei protagonisti di questi racconti di Agota Kristof è molto simile — se non identica — a quella dei gemelli che abitano le pagine de La Trilogia della Città di K. Uomini dimenticati, sconfitti dalla propria vita, cercano a tutti i costi una motivazione alla loro condizione di vinti. Pur accettandola in ogni sua espressione, combattono per una resa dei conti che tanto resa non è. Constatano la loro stessa impossibilità nel giungere al traguardo e ci riflettono su per il resto della loro misera esistenza.

In Numeri sbagliati il protagonista, immerso nel pieno vuoto di giornate che scorrono senza alcun motivo apparente, aspetta che il telefono squilli. Che si tratti di numeri sbagliati è chiaro come il sole, ma quello che l’uomo cerca è una voce che gli resti accanto anche quando la cornetta viene rimessa al suo posto. Ed è questa la spinta che mette in moto l’appuntamento che egli stesso manderà all’aria. Nel bar entra come se fosse di passaggio, non indossa gli abiti concordati e l’appuntamento al buio svanisce in una nuvola composta da una scarsissima autostima. L’uomo osserva la donna uscire dalla porta principale con un altro uomo. Quello che al telefono si era prefissato come uno di quegli incontri tanto attesi, crolla definitivamente.

Frame: Il Grande Quaderno (János Szász, 2013)

Le vite che disegna Agota Kristof in questa raccolta, al di là dello stampo attraverso cui prendono vita i personaggi, sono le stesse che entrano in contatto con il mondo descritto da Raymond Carver. Tra loro persiste una certa continuità che va oltre i confini geografici di appartenenza. I vissuti di entrambi, completamente diversi, creano le basi per una storia della condizione umana molto simile fra loro. I confini geografici si sciolgono al calore che la letteratura — questa letteratura — infonde attraverso pagine che diventano di tutti. La stretta al collo del lavoro, l’alcol e le sigarette — per citarne alcuni — sono segni che ritroviamo in entrambi gli autori. In questo modo i loro protagonisti riesco ad incontrarsi in quel filone maledetto che identifichiamo come realismo sporco. Seppur bagnata di grottesco, la scrittura di Agota Kristof raccoglie i bassifondi europei e li mette in contatto con quelli statunitensi narrati da Raymond Carver.

La vendetta è una raccolta che si sviluppa in 75 pagine. Alcuni racconti sono talmente brevi da riuscire a chiudersi nel giro di dieci/quindici righe. Ha il tipico sapore di quei cicchetti che vanno mandati giù in un colpo solo. Non stordiscono ma riescono ugualmente a lasciarti in sospeso tra una pagina e l’altra. La narrazione è veloce, ci si ammazza e ama nel giro di poche battute. La componente grottesca sfonda una porta completamente aperta. Quello che sembra realizzarsi è un’immersione totale del vissuto della scrittrice all’interno dei suoi racconti. Una donna che ha sempre lottato per ricercare la sua identità, sceglie di raccontare persone che non ne hanno affatto. È in questa declinazione narrativa che si nasconde la vera caratteristica di questi personaggi. Tutto è costruito in modo da alimentare le tracce della propria identità smarrita nel passato. Sono personaggi che sembrano non avere forma alcuna se non quella fisica. Il vissuto si è staccato dal loro corpo per continuare a vagare nel tempo. Intercettare i suoi movimenti non è semplice, stando a quanto emerge dalle loro storie intrise di dolore e sconfitta. Battere in ritirata non serve, ed è per questo che tutto assume un retrogusto amaro: la battaglia con i propri demoni continua anche se ci si mantiene a debita distanza. La loro presenza fluttua nel passato ma non intacca visibilmente nessuno dei personaggi. Questi ultimi sanno di avere dei conti in sospeso, ma non si preoccupano affatto di risolverli.

Agota Kristof

In Faber (NN, traduzione di Sarah De Sanctis), romanzo di Tristan Garcia (ne abbiamo parlato qui), compare una disperazione molto simile a quella catturata da Agota Kristof. Tra le tante cose, il protagonista Faber lotta per ritrovare la forma dei suoi ricordi, e il rapporto con i suoi due amici diviene un modo per risalire le appendici della sua vita. Anche lui, come i protagonisti dei racconti de La vendetta, ha qualcosa che fluttua nel proprio passato. Per quanto possa scappare da esso non riuscirà mai a fare i conti con quello che è stato. Maddie lo raggiunge nella sua casa in montagna e da essa lo trascina via. È da quel preciso istante che Faber inizia il suo viaggio a ritroso per i meandri del suo passato. Il concetto di identità insorge davanti alla propria vanificazione. La polvere cerca di disperdersi nell’aria, ma subito viene attratta dalle grinfie di Faber, un uomo segnato dalla disperazione e assetato di conoscenza.

Nel racconto che da il nome all’intera raccolta della Kristof si creano i presupposti per lasciar emergere anche una dimensione onirica. A dire il vero con lei emerge una narrativa che nel suo atto diviene amorfa, lasciando trasparire tutta l’inconsistenza di un mondo che resta vigile durante la notte, ma che ugualmente riesce ad esprimersi durante il pieno giorno. Si fa avanti l’indefinito, quello che sedimenta dubbi e mancanze di responsabilità da parte dei personaggi. Il grottesco si mescola con il sogno, il desiderio e l’assurdo creano un unico filo conduttore che porta dritto verso la rottura con una realtà dal peso insostenibile. In questo caso la forma breve scelta da Agota Kristof diventa la massima espressione di una condizione umana disagevole che esprime solamente il proprio stato delle cose senza mai provare a cambiarne la forma. La punteggiatura stabilisce pause che aumentano notevolmente la sospensione del tempo.

In questi racconti affilati come lo sono solo le migliori lame, la sfera del privato cade inesorabilmente sotto i piedi dei protagonisti. Viene forgiato — il privato — con un pregio tale che divide le storie dal ricordo e le inserisce in un filone narrativo attuale. La sua presenza persiste nello sfondo ma non gode di alcun ingresso trionfale. A questo punto diviene netta l’impronta lasciata da un’apolide che è in fuga dal suo tempo, dal suo paese — con la rivoluzione ungherese del 1956 — e da tutto quello che ne è stato in una terra lontana dai clamori della capitale. Agota Kristof non ha mai smesso di scappare, e la sua scrittura ne è una grandissima dimostrazione. Tra fiction e non-fiction la sua è una figura che difficilmente riesci a rintracciare nelle pagine che ha scritto, nelle sue pièce teatrali e in quel mastodontico lavoro che è La Trilogia della Città di K. Una scrittrice che è riuscita a conservare negli anni la genesi stessa del suo essere scrittrice. Una fuga che non si è realizzata solamente nello spazio, ma che ha visto realizzarsi in pieno sopratutto nella parola che si fa mezzo attraverso cui traghettare l’immenso malessere che ci abita. Una scrittrice che — come abbiamo già detto — non rispetta nessun confine esistente. Le sue storie possono avvolgere la realtà dell’Est Europa, quella di Parigi o quella della sua Svizzera. Nulla è fissato saldamente ad un punto, le dogane sono inesistenti.

Alla fine del racconto In campagna, la piazzetta presa d’assalto dal trambusto cittadino viene chiusa definitivamente al traffico. Il protagonista era fuggito proprio da quello stato di confusione perenne mettendo in moto una vera e propria fuga dal progresso che l’ha poi condotto ad una disperazione ben celata dalla narrazione. In questa fuga potremmo intravedere la stessa mossa che attuò Agota Kristof con la sua Ungheria alle prese col duro regime sovietico e i suoi conosciutissimi risvolti. Quella piazzetta è poi tornata alla sua quiete iniziale, lasciando che gli occhi dell’uomo si perdessero per quel luogo tanto amato. Forse quelli erano gli stessi occhi con cui la Kristof ammirava il suo amato paese da lontano, ma potremmo comunque sbagliarci di grosso. Agota era una donna che ha abbattuto ogni confine, per questo la sua battaglia — al contrario di quanto detto a più riprese negli anni — ci ha poi consegnato una scrittrice apolide lontana dal suo tempo.

--

--