Seccature al telefono

Michele Nenna
Casa di Ringhiera
Published in
8 min readNov 16, 2016

Quando i Call Center decidono di insistere, a noi comuni mortali non resta far altro che assecondare le loro nobili intenzioni.

Photo credit: Pavan Trikutam

Il telefono squilla ininterrottamente. Lampeggia in sovrimpressione un numero che non ho salvato tra i contatti della rubrica. Il prefisso è quello di Milano; lo conosco bene perché, diamine, è il prefisso di Milano. Non è mica uno di quei comuni da poco più di mille abitanti che si appoggiano su quello del centro abitato più vicino che ha una popolazione ad alta densità. Decido di non rispondere, ho cose più importanti da fare — una delle classiche motivazioni che si utilizzano per l’auto-convincimento. Clicco sul tastino del volume; la suoneria svanisce ed io posso tornare alla tranquillità delle mie cose.

Sin da piccolo mi hanno insegnato che devo sempre rispondere alle chiamate che ricevo sul telefono. Che sia fisso o meno, la cornetta va alzata. Fino a qualche anno fa in casa c’era uno di quei telefoni che ti dava in dotazione la Telecom all’attivazione di un nuovo abbonamento, dove non c’era alcun monitor su cui comparivano i numeri dei chiamanti. In quel caso eri costretto a rispondere, visto che non potevi sapere in alcun modo chi fosse dall’altro lato. Poteva essere successo qualcosa di brutto ai tuoi genitori. Insomma, qualcuno doveva pur rispondere a quelle chiamate, fino a che l’arrivo dei cordless col monitor ha rivoluzionato le cose. Scegli di non rispondere ad una chiamata perché conosci a memoria il numero in sovrimpressione. Eviti i discorsi inutili come la peste e alla fine della lunga serie di squilli tiri un profondo sospiro di sollievo.

Queste sono seccature che incontri ovunque tu vada. Ho conosciuto persone che lanciavano via i telefoni quando questi non ricevevano chiamate interessanti, per non parlare delle deviazioni impostate sui numeri degli ex il cui comportamento sfociava in uno stato maniacale. Adesso, quando una persona ti tartassa l’esistenza la si blocca in automatico. Tutti gli Iphone hanno la funzione in rubrica Blocca contatto, per gli Android invece c’è una procedura ben diversa da seguire. Per tutto il resto Facebook & Co. hanno reso disponibile questa funzione salva rotture che alla fine tanto salva rotture non è.

È metà mattina quando arriva la seconda chiamata. Lancio un’occhiata al display, è sempre il solito numero. Ma cosa vuole, mi chiedo. Farei prima a rispondere ma oggi mi sono alzato dal letto con la luna storta. Lo lascio squillare ancora un po’, poi decido di abbassare la suoneria. Dovrei inserire il silenzioso, ma potrei non sentire i messaggi importanti e le notifiche strombazzanti dei vari social network. Chi diavolo può chiamarmi da Milano con tanta insistenza? Eppure non ho nessuno tipo di contatto da quelle parti che mi possa chiamare sul cellulare. Per di più si tratta di un numero fisso. Magari si tratta di qualcuno che ha letto il mio curriculum ed è rimasto di stucco quando è arrivato alla voce Lavori svolti in precedenza. Forse si tratta di qualcosa di molto più importante, tipo la redazione di una casa editrice che mi chiama per fissare un colloquio. Mamma mia, quanto sono patetico.

La scorsa settimana ho finito di leggere la raccolta Innovazioni Americane di Rivka Galchen, edita da Einaudi e tradotta da Anna Rusconi. Racconti molto interessanti per lo stile e le tematiche che l’autrice ha scelto di sviluppare. Per la maggior parte si tratta di protagoniste che si ritrovano a fare i conti con la loro condizione esistenziale ormai smarrita, una condizione che cerca risposte che non siano vere e proprie soluzioni. Il mio telefono squillante che evito come la peste mi riporta alla mente il racconto di apertura L’ordine smarrito, un racconto dove la chiamata di uno sprovveduto seduto dietro la sua comoda scrivania in uno degli uffici di New York ordina il pranzo. Naturalmente il numero che compone il povero uomo è sbagliato, ma la protagonista sceglie di prendere in carico l’ordine. Nel frattempo prende vita una riflessione che si sofferma dapprima sul suo essere donna, per poi proseguire dritto per la strada che conduce alla relazione con suo marito. Il telefono continua a squillare, l’uomo cambia l’ordine e si lamenta per il ritardo. La donna, dal canto suo, cerca in tutti i modi di assicurare il pranzo del suo cliente. Resta legata ad una chiamata che non era affatto indirizzata a lei, eppure vuole a tutti i costi provvedere all’evasione dell’ordine e a misurare fin dove sia capace di sporgersi con la sua vita.

Un’altra chiamata importante nella letteratura — anche se in questo caso si tratta di un telefono che squilla ininterrottamente nel momento meno opportuno — è quella di Una cosa piccola ma buona, racconto celeberrimo di Raymond Carver, tradotto da Riccardo Duranti e inserito nelle diverse raccolte pubblicate da Einaudi — vi cito quella di Cattedrale perché è la prima che mi viene in mente. Questa è la storia di Ann, Howard, Scotty e di un pasticcere che ha il suo negozio in un centro commerciale della zona. A breve sarà il compleanno di Scotty, per questo Ann si rivolge al pasticcere per ordinare una torta. Le lascia il suo numero, in modo da essere avvisata quando sarà tutto pronto per il ritiro. È una storia che conosciamo tutti, Scotty viene investito e, nonostante si sia subito rialzato dall’asfalto, muore poco dopo nell’ospedale della città. Nell’arco dell’intera giornata il telefono della loro casa squilla con la stessa insistenza di una pioggia che cade a dirotto nel pieno della notte. Il racconto si conclude con un laboratorio sul retro di una pasticceria colmo di dolore, amarezza e quintali di zucchero utili per la preparazione dei dolci.

Sono due tipologie di chiamate a cui si poteva tranquillamente evitare di rispondere. È vero, le vicende sarebbero andate in tutt’altro modo, ma resta evidente il ruolo impersonato da un apparecchio che ormai è la nostra massima estensione fisica. Nelle nostre mani ci sono gli smartphone, non perdiamo tempo nell’interagire con i nostri contatti e perdiamo la pazienza quando siamo assillati da squilli che non vorremo mai sentire. Nei due racconti il telefono è il fattore che mette in moto la narrazione, la indirizza sulla strada giusta e ne fa la propria ragione d’essere attraverso cui tutto si realizza. Carver sceglie di racchiudere tutto il dolore della morte di un figlio in un pezzo di torta, mentre Galchen trasferisce le ansie e gli ipotetici isterismi di una donna che vive nella città di New York — soggetta al viavai della metropoli per antonomasia –, in un pranzo che non preparerà mai. Sono due realtà immerse nel disagio, dove sullo sfondo c’è un telefono che squilla fino alla nausea e che, con la sua entrata in scena, libera entrambe le storie dal peso enorme che si nasconde dietro la volontà di cercare a tutti i costi una risposta.

Il mio telefono continua a squillare. Questa è la terza volta. Il suo suono è diventato un lamento, sopratutto perché so bene che si tratterà dell’ennesima seccatura di qualche call center che vuole rifilarti un’offerta da non perdere. Ma come fanno a beccarmi sempre nei momenti meno opportuni? Oltre ad avere elenchi interminabili di utenti avranno anche una sfera di cristallo che li porta dritti sulle mie spalle a mo’ di scimmia. Che mondo sarebbe senza operatori dei call center che cercano di rifilarti ogni genere di cosa proprio come fanno ormai allo sportello delle Poste Italiane? — l’ultima volta mi hanno proposto l’acquisto di una batterie di pentole, ma ho garbatamente rifiutato l’offerta. Se mai deciderò di rispondere a questa chiamata sarà perché avrò perso definitivamente l’uso dell’udito insieme a quella piccolissima percentuale di pazienza di cui sono provvisto in certi momenti.

Da un lato, nel racconto di Carver, c’è l’esasperazione rappresentata dalla voglia di riconoscere la voce di chi chiama e usa affermazioni fuori luogo in un momento delicato come lo è la morte di Scotty, dall’altro invece c’è quell’impossibilità di saper negare un servizio e la volontà di impiegare il tempo in una cosa mai fatta prima. Tutto si muove dietro le pareti della stanza che le due storie descrivono indirettamente, in un contesto che non sembra affatto banale nonostante le soluzioni siano sotto gli occhi di tutti i lettori. In Una cosa piccola ma buona e in L’ordine smarrito c’è qualcosa che ti cattura completamente proprio perché i protagonisti hanno scelto di alzare la cornetta. Hanno rivolto le loro attenzioni all’ignoto, lo stesso che — insieme al telefono — ha dato la scintilla all’accadere del tempo.

È l’ora di pranzo quando ricevo la quarta chiamata. È inutile sottolineare che si tratta dello stesso numero che dalle nove mi sta smembrando ogni parte del corpo peggio di come farebbe una tigre affamata in uno di quelli zoo dimenticati da tutti. Dovrei continuare a mantenere la mia posizione e premere il tasto del volume per zittire lo squillo. Certo, rispetto in pieno tutti gli operatori dei call center, indipendentemente dal fatto che siano stati delocalizzati nell’est dell’Europa o meno. Sono lavoratori come tutti, sono persone. In vita mia non ho mai mandato nessuno di loro a quel paese. In fondo fa parte della loro mansione eseguire gli ordini delle compagnie. Magari qualche volta sono rimasto deluso dall’inconcludenza di alcuni operatori davanti ai numerosi problemi col collegamento internet, ma niente di più. Anche se oggi non voglio starli a sentire, devo rispondergli. Meritano un no alle loro avance, altrimenti da questa storia non ne uscirò mai. Immagino che il telefono continuerà a squillare fino a quando non avranno spuntato il mio numero dai loro archivi. Ore interminabili passate ad ascoltare il suono ridondante di un Iphone condotto all’esasperazione che ha un’origine talmente assurda da far ridere chiunque. Non mi resta altro che premere il tasto verde e rispondere alla chiamata. Potrebbe davvero trattarsi di qualcuno interessato a me per qualche lavoretto da fare. Ma chi è che chiama ancora al telefono per offrirti qualcosa del genere? Tutto funziona tramite email, insomma. Ecco, solo i call center chiamano a tutte le ore per conto delle compagnie telefoniche. Saranno sicuramente loro, mi ci gioco un rene. Lo vedo già Raymond Carver a sghignazzare alle mie spalle mentre pronuncio i miei «No, non sono interessato» al telefono. Ci ricaverebbe sopra un’infinità di dettagli da nascondere poi nelle sue parole. Alla Galchen invece non interesserebbe nulla; fosse nei miei panni accetterebbe qualsiasi offerta da attivare poi su un numero che non è nemmeno il suo.

Erano loro, i famigerati operatori del Call Center. Mi hanno proposto l’attivazione di un nuovo piano tariffario combinato con un abbonamento satellitare. Ho guardato verso l’alto ed ho tirato un respiro profondo. Per rifiutare ho usato la solita formula, la stessa che prevede il copione.

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