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this is a LIE

Lulù_Withheld
Casa di Ringhiera
Published in
6 min readOct 5, 2017

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But this isn’t truth this isn’t right

This isn’t love this isn’t life this isn’t real

This is a lie

Qualche anno fa un carissimo amico mi ha regalato, durante una delle nostre notti, un libro di fotografie di Dave McKean (illustratore e artista geniale, nonché collaboratore storico di Neil Gaiman). Il titolo del librino è Black and White Lies. Io e il mio carissimo amico ce ne siamo detti di bugie. Senza motivo alcuno, a ripensarci oggi. Ma nelle storie a due non si può mai sapere dove finiscono le verità e dove cominciano le menzogne. Il confine labile delle cose, sempre. A definire.
L’ho riaperto oggi quel libro a proposito di LIES. E di botto mi sono venute in mente un po’ di cose. Tipo che dopo avere mentito occorre buona memoria. Oppure che da ragazzina ho mentito circa un tipo bellissimo che avrei limonato seduta stante e invece mi sono ritrovata a essere oggetto di desiderio di buona parte della frangia gaia del liceo. Che ho raccontato a mia madre che ero a dormire da un’amica e invece ero a vedermi la reunion dei Sex Pistols a Roma, che poi alla fine mi sono innamorata di Iggy Pop a quel megaconcertone. Che ho detto di avere diciotto anni quando ne avevo quindici, che ho detto di averne venticinque quando ne avevo trenta. Che ho detto ti amo a un uomo che non amavo. Che ho detto ti odio a mio padre, ed era una bugia.
E mi è venuta in mente questa.

Anni ’90, una città qualsiasi.
C’è che siamo in una stanza d’albergo. Di sicuro siamo in gita, ma in un anno imprecisato (senza fotografie a sancire il tempo, la mia memoria fa cilecca). Siamo un po’ di gente in una stanza, di notte. Come sempre durante le gite. Non credo sia la mia stanza, la mia non ha il balcone questa invece sì. Le tende che chiudono la vista sono pesanti e di colore ocra e rosso e blu. E i due lettini hanno copriletto color ocra e rosso e blu. Quei coordinati da alberghi cheap anni ’80. La mia stanza invece è un piano sotto, troppo vicina al corridoio degli insegnanti. C’è che siamo tanti. La mia compagna di classe (nonché di stanza) si defila con un tizio di terza e mi lascia da sola in compagnia di questi ragazzi e ragazze più grandi. Amici del suo fidanzatino. Io frequento la prima C. Ho quattordici anni. E fumo paglie come se non ci fosse un domani. Gli altri sono dell’ultimo anno o del terzo, vai a capire. Non ricordo. Troppo tempo è trascorso nel mezzo.

C’è che si decide di giocare a obbligo o verità, gioco del cazzo, movente per limonare o farsi i fatti degli altri. Ma decido di restare. Nonostante detesti questi giochi. Quello che ricordo è una versione di me giovane e arrabbiata seduta per terra vicino al balcone, con le spalle al muro. Sto fumando e butto fuori il fumo dalla portafinestra mezza aperta. Il rumore del traffico in strada, dai viali credo, e l’odore dell’acqua, un fiume immagino, occupano una parte dei miei pensieri. Immagini che mi permettono di divagare, in quel momento. Perché questo gioco mi mette ansia. Detesto trovarmi qui ma il tipo che mi piace, per il quale caspita non so farei qualunque cosa, è qui che mi sta di fianco, uno di quarta, un figo della madonna. Alessio. Camicia a quadri grunge tipica del periodo. Le cuffie poggiate sulle spalle. Le mani sporche di colore da writer. Le Lucky Strike morbide nella tasca dei jeans. Ma quanto caspita è figo. Le domande, gli obblighi e le verità, si ripetono simili -ancora lontane da me- e in mezzo alle domande le risate gli urletti le paglie e le lattine. Il fumo sopra le teste. Il rumore della bottiglia di plastica della Coca che gira imperterrita. La voce di Kurt Cobain da una qualche versione dell’unplugged su MTV in sottofondo canta My girl, my girl, don’t lie to me, tell me where did you sleep last night? Io intono sotto voce questo pezzo, che amo. E sento che comincia a non fregarmene più nulla del gioco della stanza della notte della gita dell’Ale. Quindi mi alzo e vado a prendere aria in balcone. Dal di fuori, da qui, sembra un frame della versione dei poveri di Kids di Larry Clark e Harmony Korine, giusto per dare l’idea. Anche le magliette corte sulla pancia. I sorrisi. I colori della pellicola.

«Obbligo o verità Lù?» mi chiede. Lui. L’Alessio.

«Verità» dico senza pensarci.

Quando invece obbligo sarebbe stata l’unica via d’uscita. E di botto in quel momento sento solo il cuore che tuona in quella stanzetta da albergo tre stelle di periferia di non ricordo quale città. Il cuore. Il mio. A briglie sciolte. E la maglietta troppo corta. Io che sono in piedi la paglia spenta tra le dita e tutti invece sono seduti sono sdraiati sono con gli occhi rivolti verso di me. Gli sguardi di tutti. Verso di me. Mioddio. La bottiglia per terra punta inesorabilmente alle mie Converse bordeaux.

«Con chi andresti a letto tra i presenti?» (Parafrasando le sue parole).

Un secondo interminabile in cui sorrido all’Ale e poi indico, con uno sguardo malizioso e triste e stupefacentemente lucido, la Samuela. Lì, in un attimo, ho saputo che mentire era un atto di ferocia. Non so per quale cazzo di motivo ho indicato la Samuela, la Kelly Taylor della terza B. Quando invece l’unica cosa che avrei voluto era dare un bacio o farmi baciare dal tipo di fianco a me. Da Alessio. In TV in quel momento esatto parte un pezzo dei Verve: Bitter sweet Symphony, che ancora oggi quando mi capita di riascoltarlo vengo catapultata in quella notte dei quattordici anni durante la quale per nessun motivo al mondo ho detto a tutti che avrei voluto farmi una storia con la Samuela. Con una faccia da culo disarmante. Ovviamente non mi è mai passato per l’anticamera del cervello di andare a letto con la Samuela, né con un’altra ragazza. (Non quella notte, almeno). Ma in quel momento mi è sembrata la bugia più eclatante (più eccitante) da dire. La cosa più lontana da me in assoluto. Perché sarei morta di vergogna a dire la verità.

A dire
«Con chi andresti a letto dei presenti?»

«Con te.

Stronzo».

Mi parte in testa This is a Lie dei Cure, ovviamente.

I’ve never understood

One special friend one true love

Why each of us must lose everyone else in the world

Tipo che la verità ha il suo prezzo da pagare. Le menzogne anche.

Ho raccontato un botto di bugie. Tante, tantissime. Come tutti. Diffido di quelli che dicono di non averne raccontate. Le ho raccontate senza sapere di ferire pensando di proteggere. Molte le ho raccontate con ingenuità. Le ho raccontate perché non mi importava delle conseguenze.
Molte di esse sono annegate nel tempo, altre le porto ancora qui con me. Cicatrici. Vessilli. Fotografie. Segni. Sono storie di case e di segreti.

La maggior parte di queste, infine, le ho raccontate a me stessa, pensando di proteggermi.

How each of us dreams to understand anything at all

Why each of us decides I’ve never been sure

The part we take

The way we are

*postilla:

Alessio aveva chiesto al fidanzatino della mia compagna di classe (nonché di stanza) di invitarci quella sera nella loro camera perché voleva provarci con me.
Lui, l’Ale, voleva provarci con me. Cioè, avete capito la storia?
Pazzesco.
Saperlo, giuro, mi ha devastato.
Perché un conto è un amore platonico adolescenziale a senso unico (come credevo fosse il mio per lui) un altro conto è avere cosparso di mine deliberatamente, con sadismo e vigliaccheria, un amore che invece sarebbe stato, oh… pensate un po’, corrisposto. Sospiro. Perché davvero avrei preso a craniate il muro. È che io so sempre come mandare tutto a puttane. Sempre. Difatti quella sera io ho acceso la miccia e io ho visto i miei sogni da primo amore prendere fuoco. Che fregatura.
Le mie inutili BUGIE.

Averci una foto di quel giorno, se fosse andata diversamente con Alessio o se la Samuela mi avesse sorriso in qualche modo, sarebbe questa.

photo © Carver77

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Lulù_Withheld
Casa di Ringhiera

“The truth is like poetry. And everyone fucking hates poetry”.