Tu, quoque, Ungheria, fili mi!
Oggi devo farvi una confessione: in tutta la mia vita ho sempre provato un po’ di noia ogni volta in cui si trattavano argomenti di tipo storico. È una mia pecca, lo so. Sono consapevole del fatto che la storia sia importante, perché è la base del nostro presente e di conseguenza inevitabile per costruire il nostro futuro. Ma è anche vero che non sono una di quelle persone che impazziscono per il canale Rai Storia. Detto questo, parto col parlarvi di un argomento che tra una decina d’anni sarà annoverato di sicuro nella cronologia della storia contemporanea.
Ribadisco che non avrei le competenze adatte per trattare questo genere di tematica, ma ci sono degli avvenimenti che hanno risvegliato in me una perplessità tale da spingermi a scrivere qualcosa. Mi riferisco ai massicci flussi migratori che si stanno verificando in questo periodo, e più precisamente al frangente in cui l’Ungheria ha chiuso le frontiere e impedito ai profughi di passare sul suo suolo. Ma come? Se torniamo indietro nel tempo, fino al 1956, ci rendiamo conto dell’enorme ipocrisia di cui l’Ungheria è protagonista.
Stavolta la storia la conosco bene. Perciò ve la racconto. L’Ungheria, prima di diventare uno stato indipendente, era parte degli stati satelliti dell’Unione Sovietica. Dopo la morte di Stalin, avvenuta nel 1953, gli stati che facevano parte dell’Unione Sovietica cominciarono a mettere da parte i modi di fare politica tipici della dittatura sovietica. Tra questi, l’Ungheria fu un esempio molto importante. Il primo ministro Rákosi venne sostituito da Nagy, un candidato spinto direttamente dal Cremlino. Dopo tre anni, lo stesso Nagy verrà sostituito di nuovo dal precedente Premier. Ve la faccio breve, perché come in un valzer si succedono diversi ministri alla guida dell’Ungheria. Il tutto viene abilmente orchestrato dal Cremlino, e ai danni di Nagy si protrae una congiura che lo riporterà avanti e indietro dal suo posto nel Partito dei Lavoratori Ungheresi più e più volte.
Siamo nel 1956, il circolo Petőfi si unisce al popolo ungherese nella lotta per la destalinizzazione del paese. Sono gli ultimi giorni del mese di Ottobre e gli ungheresi danno prova di estrema compattezza popolare e fedeltà a ideali ferventi. Nel frattempo, a causa di un trattato di pace della Seconda Guerra Mondiale, le truppe sovietiche sono piazzate sul suolo ungherese. Fino ai primi giorni di Novembre la protesta si estende a diverse zone dell’Ungheria, ma i risultati sperati non vengono ottenuti. La rivolta viene soppressa dai sovietici con ben duecentomila uomini e quattromila carri armati. Oltre ai morti provocati da questi scontri, più di duecentomila ungheresi dovettero fuggire dalla loro patria devastata dalla guerra e rifugiarsi altrove in Occidente.
Riparto dalle ultime frasi che ho scritto perché vi arrivi il mio totale disappunto nel leggere che proprio l’Ungheria — Tu, quoque, Brute, fili mi! — ha sbarrato le porte del suo paese a profughi vittime di guerra, proprio come loro esattamente 59 anni fa. La mia scrittrice preferita, Agota Kristof, aveva speso diverse parole riguardo la sua fuga dall’Ungheria nel 1956. Quello che comunicava era il dolore provato nel lasciare il suo paese nonostante la fame, nonostante la dittatura sovietica, nonostante la guerra da poco terminata. Mi sono chiesta cosa avrebbe pensato Agota degli emigrati, soprattutto della chiusura delle frontiere da parte dell’Ungheria. Non potrei mai rispondere per lei, ma immagino che il mal d’Ungheria espresso in ogni suo scritto fosse quanto di più palese possiate trovare per rispondere al mio quesito.
I morti suicidi di Ieri, gli attraversamenti della frontiera della Trilogia della città di K. e non ultimi i vari riferimenti alla distruzione della cultura ungherese, la difficoltà nell’adattarsi in un nuovo paese, con una nuova lingua e con nuove persone ne L’Analfabeta, sono i primi segni che mi portano a pensare che Agota avrebbe certamente puntato il dito contro l’attuale governo ungherese. Altrimenti sarebbe stata ipocrita anche lei. Dalla sua letteratura invece ho imparato che la verità le appartiene come qualcosa di naturale e inevitabile. Non mi spiegherei tutta la sua produzione in altro modo. E scusatemi, ma proprio non mi va di dare dell’ipocrita alla mia scrittrice preferita.