Umani

Ada Zegna
Casa di Ringhiera
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3 min readNov 22, 2016

Storie di uomini comuni sotto un cielo blu scuro.

Photo credit: Patrick Joust

Il tramonto dubbioso delle sere autunnali porta con sé una manciata di nebbia sottile, che si arrampica su per la cima dei palazzi. E in mezzo a uno di loro, in una delle numerosissime finestre, si trova un qualsiasi essere umano, che insoddisfatto guarda lo spettacolo attraverso il vetro da lavare. La sua scrivania è piena di scartoffie che attendono, di documenti ancora da leggere, di briciole di biscotti.

Sulla strada bagnata di pioggia si specchiano i languidi fari delle auto, sembrano fiori di Monet. I lavoratori corrono nelle loro abitazioni, con le proprie pesanti ventiquattrore, guidano distratti, ripensano a qualche persona del passato. Nello stesso momento, un altro qualunque essere umano vaga in cerca di un dormitorio, per non passare la notte su un marciapiede. Accanto gli sfila una donna in tailleur che alta sui tacchi tiene in braccio un minuscolo cane con un cappottino rosa.

I bambini vengono coperti con la sciarpa quasi fino agli occhi, spediti dritti al chiuso ancor prima di poter sentire le gocce di pioggia sul viso. Le piccole mani nelle mani di un genitore frettoloso che li trascinano lontano da quei musicisti di strada un po’ alticci e gioiosi. Nessuno guarda più la solita signora che ogni giorno siede per terra nel medesimo posto, tutti si chiedono la sua storia, nemmeno uno glielo domanda.

Dai ristoranti escono fiammate di profumi etiopi e distanti, da far venire l’acquolina in bocca, si mischiano all’odore dell’asfalto umido e freddo, su cui anziani stretti nei loro abiti di lana trasportano ondeggiando la spesa verso casa. Le serrande vengono tirate giù, le luci dei supermercati rimangono accese e le calde insegne colorate fanno il loro solito lavoro.

L’aria dentro al bus è calda e pesante. Un uomo proprio di fronte a me, che si sorregge a malapena, tiene fra le mani un sacchetto trasparente con una strana e misteriosa poltiglia, non mi domando altro. Eleganti signore dietro di lui lo fissano con occhi torvi e stringono a sé le loro borsette. Un ragazzino passa in mezzo alla via con il suo skateboard come una rapida saetta rumorosa, è concentrato nello schivare i passanti, i voti ingiusti, le urla di suo padre.

Ora il cielo è blu scuro e sa di mani fredde, di labbra screpolate, di rientri nelle case, che a loro volta sanno di buccia di mandarino, di parole calde. Accolgo nelle orecchie gelate pezzi brevissimi di dialoghi, sfrecciando qua e là in mezzo alla città, di persone normali che dicono cose normali.
Dai citofoni passa la solita frase: “sono io”. Mentre un gruppo di uomini ingoia birra e alza la voce contro la televisione, una donna spiega all’amica come cucinare il branzino al forno. Dalle bocche di due ragazze escono discorsi su come circolano gli ormoni e sui calzini nuovi. Certe donne silenziose, con il passo svelto, si guardano alle spalle come per cercare qualcuno, e gli amanti ciechi intrecciano gli occhi e si parlano in una lingua che non sappiamo più.

Nella malinconia di una stagione profonda le persone sopravvivono, a modo loro, e si guardano a vicenda: si riconoscono, ma non se lo dicono.

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