Vignanotica rulez
L’estate è ormai alle spalle. Abbiamo dato il massimo, chi più chi meno, per riuscire a sopportare le alte temperature di cui siamo stati prigionieri. Ogni volta che il termometro superava abbondantemente i 35 gradi, puntualmente compariva davanti ai miei occhi un uomo che indossava un qualsiasi vestito da cerimonia, completo di giacca e cravatta annodata come se non ci fosse un domani. Il collo teso, ormai umido per via della stretta e del sudore che iniziava a cospargere il corpo ricoperto dalla stoffa più pregiata. Non potevo far altro che guardarli e ritenermi fortunato. L’estate è fatta per la spiaggia e per i condizionatori accessi 24 ore su 24 in case con le persiane rigorosamente chiuse.
Il ferragosto l’ho trascorso sulla spiaggia di Vignanotica, in una di quelle cale che il moto ondoso è riuscito a formare nel corso degli anni. Tutta la gente era ammassata nella prima spiaggia disponibile, mentre io e M. abbiamo scelto di sfidare la sorte e cercare un posto più tranquillo, lontano dalle braci e dalle tende da campeggio che si aprono in volo mentre le lanci.
Per raggiungere la baia abbiamo preso una di quelle navette che dal parcheggio auto ti portano direttamente sui ciottoli. Vecchi furgoni Iveco da nove posti dismessi, con targhe tedesche e i sedili gettati chissà dove. Al loro posto c’erano delle panche di legno sistemate su entrambi i lati. Le borse termiche e gli ombrelloni andavano invece lasciati in un grosso cesto in ferro montato sul retro, una specie di bagagliaio rattoppato con le prime cose che ti capitano davanti. In quei furgoni, rigorosamente a diesel, si stava in più di 15 passeggeri. La discesa era così ripida che se non avevi un appiglio a cui aggrapparti finivi dritto sul passeggero di fianco e così via. La particolarità di questo tragitto la conoscevo già, al contrario di M. e della sua espressione di pura sorpresa. Ero stato da quelle parti otto anni prima con due amici. Quando ero piccolo mi ci portavano i miei genitori, ma in quegli anni non c’era nessuna navetta e per raggiungere la spiaggia dovevi scendere a piedi creando una specie di catena umana con il resto dei presenti. Quel giorno con i miei amici la navetta era piena di turisti tedeschi — sul Gargano incontri sempre e solo loro. Portavo con me un ombrellone avvolto da una sacca a tracolla di colore marrone. Al sole luccicava per via della sua inutile lucidità. Quando mi videro arrivare con quell’affare sgranarono gli occhi. Avranno pensato che portavo con me un fucile. Per tutta la discesa furono decisamente schivi. Parlavano tra di loro e ogni tanto mi lanciavano qualche sguardo. «Il nostro ombrellone li sta facendo impazzire». «Che sfortuna, la lingua tedesca non l’ho mai capita».
Durante la nostra discesa, io e M. parlavamo del mare, di quanto questa era stata l’estate più strana di sempre, l’estate in cui non avevamo nuotato nemmeno per qualche metro. Per tutto il percorso, prima di arrivare alla baia di Vignanotica, abbiamo ammirato il mare infrangersi sotto di noi. Non vedevamo l’ora di lasciare l’auto e immergerci nell’acqua. Tra le curve e i tornanti che in inverno si trasformano in tracciati per gare di rally, ci sembrava di essere in una di quelle località sperdute che riempiono le pagine dei romanzi più belli che siano mai stati scritti. Mi sono tornate alla mente le descrizioni che fa Truman Capote delle località di villeggiatura in Preghiere Esaudite. Per la strada c’era qualche venditore ambulante che vendeva prodotti tipici a ridosso della scogliera. I nostri occhi cadevano a strapiombo giù per la roccia fino ad incontrare il mare azzurro intenso. M. soffriva di vertigini, ma sfidava ugualmente le sue paure. Guardava fisso oltre il finestrino del lato passeggero senza mai perdersi una cala. La strada che da Manfredonia porta a Vieste è ricca di questi panorami che ti tolgono il fiato, anestetizzando il tuo corpo fino a tenerlo lontano dalle preoccupazioni che il quotidiano tiene in riserbo. Oltre le gallerie che spaccano le montagne c’è l’immenso.
Una volta in spiaggia ci siamo incamminati alla ricerca della nostra cala lontano dal caos. Nella confusione delle 9:30 del mattino si alzavano perlopiù dialetti provenienti dal barese. Ogni postazione presentava i tratti della loro fissa per la pesca subacquea: pinne, maschere, mute e sfere galleggianti. Tutto era riverso sotto i loro piedi. Abbiamo camminato per cinque minuti e ci siamo ritrovati a oltrepassare grovigli di bambini urlanti, uomini scalzi che camminavano sulla ghiaia come se stessero affrontando i carboni ardenti e signore lasciate sulla riva sotto il sole cocente alla ricerca dell’abbronzatura perfetta da mantenere per gli ultimi giorni estivi.
Ci siamo ritrovati soli in una baia sotto la scogliera immensa che ci sovrastava. Sembrava potesse staccarsi da un momento all’altro, ma la realtà ha avuto la meglio sull’ipotesi di rimanere schiacciati sotto quell’ammasso di roccia calcarea bianca. Giusto il tempo di piantare l’ombrellone che ero già in acqua a godermi il momento, quell’istante che cercavo da mesi e che sono riuscito a beccare a quindici giorni dalla fine di agosto. Io e M. abbiamo nuotato per un po’. Sotto di noi diversi pesci si aggiravano indisturbati. Quello che guardavamo dalla nostra auto finalmente ci bagnava. L’effetto cristallino del mare rifletteva prepotentemente i raggi del sole. Sono rimasto per qualche minuto nella posizione del morto. Galleggiavo con gli occhi chiusi sotto quella scogliera che più guardavo e più catturava la mia attenzione. Inutile, la immaginavo staccarsi da un momento all’altro.
Dopo venti minuti dal nostro arrivo, la baia che avevamo occupato ospitava già altre persone. Alcune di loro erano scese con la navetta, altre dalla barca che attraccava poco distante. Tutti cercavano serenità, lontano dalla confusione che aveva preso di mira la spiaggia principale. Davanti a noi c’erano due coppie di Milano, lo si capiva perché non facevano altro che parlare del loro lavoro, delle loro case e della loro amata città. Mentre parlavano mi sembrava di assistere ad una di quelle scene presenti nei racconti di Carver, una di quelle situazioni che si creano tra coppie di amici e che si dilungano verso il finale lasciato lì a macerare dallo scrittore. I rapporti umani e le loro storie, una delle poche cose che ci tiene ancora svegli nel pieno della noia dilagante. Verso le 11 hanno iniziato a discutere su cosa mangiare, su quali piatti preferivano prendere all’unico bar presente sulla spiaggia. Hanno fatto un elenco e le due ragazze sono partite alla volta di quella giungla fatta di corpi scuri per via dell’abbronzatura e rosacei per le scottature sempre sottovalutate. I due ragazzi invece sono rimasti a prendere il sole in riva al mare. Uno dei due era sdraiato sopra un materassino giallo un po’ sgonfio, ma ugualmente utile nel farsi cullare dalle prime onde che sopraggiungevano.
Poco prima di mezzogiorno io e M. abbiamo fatto un secondo bagno. L’acqua era ancora gelida ma la cosa non riusciva a tenerci lontani da quella meraviglia trasparente. «Questo si che vuol dire nuotare» ripetevamo. Pur non essendo pienamente consapevoli, ci siamo ritrovati completamente immersi nella bellezza di un luogo che strega l’anima fino a legarti definitivamente a quei ciottoli bianchi e marroni come le pietre focaie. «La prossima estate dovremmo venirci ogni due settimane». «Io ci verrei tutti i giorni». «Beh, sono all’incirca trenta chilometri di curve». «Non fa niente». «Insomma, io ci rimetterei l’anima a suon di conati di vomito». M. passerebbe il resto della sua vita al mare, io invece no. Mi bastano quei due tre giorni per odiarlo definitivamente per tutta l’estate.
Alle dodici precise è arrivata la banda di uno dei paesi limitrofi, forse era quella di Mattinata. Era ben sistemata all’interno di una barca lunga oltre venti metri. C’erano tutti gli strumenti. Hanno intonato le solite melodie da festa di paese, ma non riuscivo a distinguere perfettamente cosa eseguivano per via della distanza. Alla fine la gente ha applaudito, e il luccichio del trombone disposto come al solito dietro a tutti gli altri strumenti è diventato sempre più piccolo, fino a scomparire definitivamente nelle onde.
Era arrivata l’ora di pranzo, ma noi l’avevamo già anticipata da un pezzo ormai. Quello che rimaneva di una focaccia al pomodoro erano solo gli ultimi due pezzi. «Anche oggi, come al solito, abbiamo fatto schifo». «Non preoccuparti, è ferragosto». La piccola cala era diventata la nostra. Tutti quelli che ci passavano davanti si fermavano a guardare come la scogliera staccava sopra le nostre teste. Qualcuno scattava delle fotografie — me compreso –, incredulo per quello che si presentava ai suoi occhi. Io e M. eravamo più che soddisfatti per come procedevano le cose in un giorno in cui alle otto del mattino non sapevamo ancora dove andare. «Tutto sommato ci sappiamo organizzare». «Mica male».
Sul resto della spiaggia si era posato un certo silenzio. Il sole pian piano scompariva dietro la scogliera alle nostre spalle. Il mare continuava a stupirci per via della sua trasparenza. Ci siamo seduti sulla riva con i piedi immersi nell’acqua. All’improvviso sentii una una musica provenire dal largo. Non riuscivo a chiedermi come fosse possibile una cosa del genere, fino a quando non è spuntato in lontananza uno scafo vestito da veliero, completamente composto da assi di legno color marrone scuro. Non credevo ai miei occhi, eppure questa usanza tipica delle più note località balneari era arrivata dalle nostre parti. A poppa c’era un dj che selezionava le hit del momento, le stesse che si mischiavano alle urla da giungla degli occupanti. Si riusciva a vedere anche un comodissimo tavolo dove erano sistemati i drink. Quello scafo era un’accozzaglia di testosterone ed estrogeni. Inizialmente ripensai a Capote e alle sue vacanze in Grecia, gli yacht su cui saltava su, ma tempo di calare l’ancora in mare che la situazione si era trasformata in una delle più banali che si possa mai aspettare. Tutti emulavano Gianluca Vacchi e i suoi balli latini. Io, M. e il resto della spiaggia ci siamo dovuti subire quel pacchetto distribuito dalle migliori agenzie turistiche come Caos su barca. Qualcuno scattava ancora fotografie, altri guardavano interessati chi di quei matti sfegatati riuscisse a fare il tuffo migliore. Dopo un’ora e ben tre Balla Ballerino di seguito, il veliero ha preso il largo, ripercorrendo la stessa direzione della barca della banda.
La scogliera ormai ci proteggeva dal sole. Era inutile mantenere l’ombrellone aperto. Il resto della gente iniziava ad appisolarsi, qualcun altro optò per una pomiciata post pranzo. «Facciamo l’ultimo bagno». «Difficilmente riusciremo ad asciugare i costumi». «Fa nulla, dai». L’ultimo bagno fu la cosa più gelata della giornata. Si immersero anche due turisti tedeschi che, a quanto pareva, non percepivano affatto la temperatura bassa del mare. M. è corsa subito ad asciugarsi, cercando invano l’ultimo spiraglio di sole poco prima delle tre del pomeriggio. «Sentiamo freddo per via della scogliera. Quando saremo lì dove si prende la navetta torneremo a sudare». E così fu. Mentre aspettavamo l’Iveco bianco smembrato in ogni suo componente interno, ammiravamo estasiati quel pezzo di spiaggia bianca come il sale, dove il sole ti abbronzava la pelle per il semplice riflesso.
Il furgone percorse tutta la salita con la prima marcia inserita. Il motore andava su di giri, ma l’autista non si scomponeva minimamente. Era prassi comune percorrere quel sentiero che ti riportava al parcheggio attraverso tutta quella forza motrice. Si stava abbastanza stretti in quelle panchine, ma tempo dieci minuti ed eravamo tutti di nuovo liberi. «Fa caldo, vero?». «Decisamente».
Immagine di copertina: Michele Nenna