Dal Burnout alla Retention Aziendale

Quando ti sei sentito soddisfatto, l’ultima volta?

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Herbert J. Freudenberger nel 1981 ha pubblicato il libro che per la prima volta ha dato un nome al Burnout: Burn-out: the high cost of high achievement. In italiano lo possiamo tradurre con “scoppiato, bruciato, esaurito”.

Poi, Cherniss con “burn-out syndrome” ossia la risposta individuale ad una situazione lavorativa percepita come stressante, in cui l’individuo non sente di possedere le risorse e le strategie comportamentali o cognitive adeguate.

Infine Christina Maslach, che ha definito il burnout “una sindrome di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale”. L’“esaurimento emotivo” si caratterizza per la mancanza dell’energia necessaria per affrontare la quotidianità e per la prevalenza di sentimenti di apatia e distacco emotivo nei confronti del lavoro.

Il soggetto si sente svuotato, sfinito, le sue risorse emozionali sono “esaurite”.

Marta Colombo, psicologa del Policlinico San Marco, in un’intervista per il gruppo San Donato risalente a Febbraio 2021 afferma che “L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce il burnout come un fenomeno occupazionale dovuto a stress cronico mal gestito e nel 2019 l’ha riconosciuta come “sindrome”. Il burnout quindi è legato a una condizione di stress prolungato.”

Il Burnout e il lavoro da remoto

Ci sono due fattori che legano con un doppio filo il burnout e il lavoro da remoto: l’incapacità o impossibilità di disconnettersi dal lavoro e l’incapacità o impossibilità di avere orari precisi di attività lavorativa: ecco perché 2 lavoratori su 3, ovvero il 69%, soffrono di burnout, 20% in più rispetto ai mesi che hanno preceduto il lockdown.

Il punto non è forse tanto (o comunque non solo) lavorare tanto, per tante ore, in modo prolungato, il problema è che non riusciamo a staccare, che potrebbe significare anche solo cambiare luogo, respirare un’aria diversa, essere liberi di scegliere.

La situazione in cui si è aperto il 2021 è molto diversa da come tanti si erano aspettati. Un saluto ad un 2020 terribile, un nuovo anno, una nuova realtà. Ma così non è stato. La realtà non è cambiata allo scoccare della mezzanotte il 31 Dicembre, non era cambiata neanche il 27 Dicembre, il famoso Vaccine Day, giorno in cui simbolicamente (e mai parola fu più azzeccata) si è dato avvio in tutta Europa alla campagna vaccinale.

Cosa ci manca? Ci manca l’esperienza (perché stiamo vivendo una situazione straordinaria, per la prima volta, tutti insieme) quindi nessuno sa veramente cosa fare e in un mondo, anche e soprattutto lavorativo, dove ci si aspetta sempre che qualcuno ti dia la risposta giusta, la soluzione, la formula magica, questo fa arrabbiare perché è frustrante. Non possiamo controllare quasi nulla, possiamo cavalcare qualche onda, cadere in mare, bere parecchia acqua e risalire sulla tavola.

Siamo costretti alla pazienza, all’incertezza e all’incostanza. Vediamo i nostri cari (o noi stessi) piegati dalla malattia o dalla crisi economica e non sappiamo cosa scegliere, non sappiamo a chi dare ragione, hanno ragione tutti e non puoi scegliere tra la disperazione di un piatto vuoto e una terapia intensiva piena.

Cosa ci manca?

Ci mancano gli strumenti, non sappiamo (o non riusciamo) a immaginare un modello lavorativo che superi quello delle 8 ore, che superi l’essere in ufficio perché si deve e non per produrre un risultato, entrare in sinergia con i colleghi. Un modello in cui un dipendente può essere anche imprenditore, diventare freelance e poi tornare dipendente, dove non esiste un percorso univoco e prestabilito ma tanti percorsi, tutti a loro modo unici e ricchi di conoscenza, esperienza ma soprattutto valore.

Lavoriamo tanto ma lavoriamo quasi sempre male, corriamo dietro ai task e ci sembra di non afferrare mai nulla, di non arrivare mai da nessuna parte concretamente.

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Uno stato di emergenza permanente, amplificato

Il Covid-19 ha introdotto uno “stato di emergenza permanente”, come ha ben sintetizzato Giuseppe Palma nel suo “Democrazia in quarantena”.

Lo “stato di burnout permanente” non è una novità di questi mesi. Da almeno un decennio la “schizofrenia organizzativa” è diventata il sistema operativo alla base della vita di molte aziende e di moltissime, troppe persone. Tutto si gioca intorno all’attenzione: catturarla, mantenerla, tenerla alta. Essa ci consente di selezionare una parte dell’immenso carico di informazioni provenienti dall’ambiente circostante. Siamo continuamente stimolati, facciamo fatica a prioritizzare cosa ci serve e in quale momento della nostra giornata, della nostra settimana o del nostro mese.

Ci sembra di non avere il tempo per fare le cose belle, per leggere quella newsletter che tanto ci piace, per riprendere in mano quel libro che mi ero ripromessa di finire, per guardare quella serie di cui tutti parlano. Un’offerta sconfinata, una FOMO sempre più preponderante e una tremenda paura di essere costantemente in ritardo, indietro, in una gara in cui quasi sempre gli unici con i quali siamo in competizione siamo noi stessi.

Non ci sentiamo mai produttivi a sufficienza, ma chi ha detto che dobbiamo esserlo? O meglio, chi dice che dobbiamo essere sempre al meglio, performanti, mai crollare, mai mostrare il dolore, la debolezza, la fragilità.

Eppure, paradossalmente, questa condizione in cui il lavoro non è un aspetto della vita ma è la vita, siamo tutti uguali. I dipendenti, i responsabili, tutti calati nella medesima realtà.

Quali sono le metriche importanti?

Quando impareremo a vederci? Quando la diversity di cui tanto si parla uscirà dagli eventi e dalle business school e diventerà quello per cui è nata: il riconoscimento del valore de diverso, l’unicità del lavoratore con i suoi valori, i suoi pregi, la sua storia e il suo percorso. Quando cambieremo le nostre metriche?

Un’azienda ha successo solo se guadagna di più? O se ha una retention maggiore sui suoi dipendenti, un turnover minore e un senso di soddisfazione e di appartenenza elevati? Cosa significa cultura aziendale e quanti dipendenti si sentono davvero parte di qualcosa all’interno dei loro uffici? Quando è stata l’ultima volta che portando a termine un progetto non hai pensato “che fatica, per fortuna è finito” ma “che figata”?

Quali metriche contano nella tua vita? Come misuri la felicità? Quando sei soddisfatto di te stesso?

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