“Hey Google, che cos’è l’inclusività?”

Puoi donare la tua voce a Google Assistant, ma solo se hai un DNA particolare

Lorenzo Colnaghi
Catobi
4 min readAug 24, 2020

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“Perché mai dovrei parlare al mio cellulare quando posso digitare direttamente quello che mi serve?”

Questo ero io nel 2011, quando Siri fece la sua prima comparsa. Oggi mi dichiaro colpevole di averci visto male. Il voice computing non è solo il futuro, è già il presente. La domotica, i dispositivi indossabili e tutto ciò che comprende l’IoT sono impensabili senza un’intelligenza artificiale capace di capire quello che le diciamo. Tra soli 3 anni si calcola che ci saranno più voice assistant che persone nel nostro pianeta. Immaginatevi di tornare a casa dal lavoro e la vostra auto che vi chiede “come è andata oggi caro?”. Un paradiso!

Non sono ancora un appassionato della tecnologia vocale, ma non sono più miope (o sordo) circa la loro utilità. Ecco perché dedico il mio primo articolo proprio a loro. Quando i voice assistant incontrano l’Advertising. Sì. Quella parola che tradotta in italiano ci fa subito venire voglia di cambiare canale. Per fortuna l’advertising degli ultimi due decenni ci ha ricordato che un brand non è ciò che dice, è ciò che fa. Il compito del creativo pubblicitario è quindi quello di entrare nella cultura pop, nei trend della tecnologia, nelle tensioni che animano la società per poter dimostrare che il brand possa fare qualcosa di utile e, dove possibile, sia in grado di cambiare le vite delle persone.

Il case study che vi porto è di Google — che non ha bisogno di dire che è un’azienda inclusiva, lo dimostra con qualcosa mai fatto prima e usando il suo voice assistant. Prima di spiegare cosa si è inventata Google in Canada, lancio una provocazione. Quando pensiamo all’innovazione digitale riflettiamo sul tipo di società in cui vogliamo vivere?

Il voice computing sarà in grado di farci allontanare dagli schermi che guardiamo ogni ora. Una cosa non da poco. Abbiamo quindi ideato le più strabilianti applicazioni: un frigorifero che ordina la spesa con un tuo comando, un device che si rivolge come se fosse un dottore alle giovani coppie che aspettano un bambino, uno speaker-maggiordomo che accende le luci del tuo salott… ok, forse questa non è poi così brillante.

Con un tale strumento è così facile pensare a servizi futuristici implementabili nel campo del business che ci dimentichiamo di una cosa: l’inclusività. Questo neologismo preso in prestito dalla lingua inglese viene usato spesso di facciata, ma ha un significato molto chiaro. “Siamo sicuri che il nostro voice assistant sia accessibile a tutti?”

È quello che si è chiesta Google con i creativi di FCB Canada. Il risultato è che 1 canadese su 700 non riesce a parlare correttamente con Google Assistant a causa di una condizione genetica. Sono le persone affette dalla sindrome di Down. Come conseguenza del loro modo di parlare, una parola su tre non viene riconosciuta dall’intelligenza artificiale.

Le persone che più beneficerebbero di un voice assistant che possa aiutarli a ordinare la pizza o attivare una chiamata di soccorso sono in realtà quelle che incontrano più barriere. Con la tecnologia che abbiamo oggi questo fatto è paradossale.

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Dalla collaborazione della Canadian Down Syndrome Society e Google nasce quindi Project Understood. L’iniziativa mira a raccogliere campioni vocali dalla comunità di persone affette dalla sindrome di Down per garantire loro una migliore comprensione da parte dei voice assistant del futuro. Quello che serve è un database di registrazioni da cui Google Assistant possa imparare. Più ampio questo database, meglio l’AI comprenderà gli utenti. Per questo motivo la campagna invita chi possiede quella speciale terza copia del cromosoma 21 a donare la sua voce.

È un’idea semplice in grado però di dare a queste persone una maggiore indipendenza e, in modo più ampio, cambiare la loro vita. Oltre 700 associazioni per la sindrome di Down partecipano all’iniziativa, con donatori da 30 paesi nel mondo. L’algoritmo di Google sta accogliendo 1 milione di nuove voci, prima non comprese.

Ma cosa c’entra questo con l’Advertising?” ci si può domandare.
L’advertising oggi non è più un semplice spot pubblicitario, ma è la direzione che l’azienda intraprende. Prima di vendere un prodotto si vende il concetto, una visione. Quella di Google è che non si può essere proiettati al futuro senza essere inclusivi. I prossimi decenni saranno influenzati dalla tecnologia vocale, tutti devono essere rappresentati indipendentemente dal suono della loro voce.

Oltre 800.000 organic reach su Facebook con solo 1.000$ di media budget, più un video che potrebbe farvi commuovere. Questi sono i numeri di un modo di fare advertising dove lo scopo non è trovare idee pubblicitarie, ma trovare idee che valga la pena pubblicizzare.

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In 10 anni i voice assistant sono diventati un prodotto di consumo di massa. Nonostante qualche limite, si tratta di una tecnologia in grado di cambiare la vita delle persone, soprattutto quelle più svantaggiate. Esercitiamoci a trovare soluzioni prima per chi ne ha bisogno, poi per chi vuole cambiare il colore delle luci del salotto.

L’innovazione spinge per essere applicata al mercato mainstream, l’advertising ci aiuta a vedere le cose da prospettive insolite, meno battute, ma non per questo meno importanti. La prossima volta che lavoriamo su una grande tecnologia proviamo a renderla accessibile a tutti. Diventerà anche una grande notizia.

E se ci sono dubbi sulla direzione da prendere possiamo sempre chiedere: “Hey Google, che cos’è l’inclusività?”

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Lorenzo Colnaghi
Catobi
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Copywriter Creativo @Scholz&Friends Berlino | Precedentemente Strategist @R3UNITE, Head of Comm. @Dalfilo, Digital Marketer @ReplySpa