La formazione non serve a nulla

Perché non voglio tornare alla “formazione di prima”

Stefania Padoa
Catobi
10 min readSep 28, 2021

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Settembre 2021. Pandemia, un anno e mezzo dopo.

Lo Smart Working è finito: finito ancor prima di cominciare. Nelle Pubbliche Amministrazioni, così come negli uffici privati, si torna a lavorare in presenza. Tutti insieme appassionatamente. Più siamo meglio è. E soprattutto più riusciamo a controllarci a vicenda meglio è.

Chiarisco subito un punto: non sono a favore di una remotizzazione forzata per tutti, sempre e comunque. Ma trovo deprimente buttare al vento un enorme esperimento sociale — sì, perché di questo si è trattato — liquidandolo come lavoro emergenziale. Finita l’emergenza, bisogna tornare alla “vita di prima”.

Il punto è che l’emergenza non è affatto finita e che la “vita di prima” non è particolarmente desiderabile. Trovo assurda la mancanza di lungimiranza e di prospettiva di un’intera generazione di imprenditori, leader (ma davvero li possiamo chiamare leader? Io mi sono davvero stufata) ed esponenti politici che premono per omologare — di nuovo — metodi e contenuti del lavoro. Un lavoro che, oggi, soprattutto per i “knowledge workers” — ma in linea di principio per chiunque svolga un lavoro ad una scrivania — dovrebbe essere più che mai fluido e autoregolato.

Questo non significa che io possa lavorare — o dire che sto lavorando — di notte, fra l’una e le tre del mattino. Ci sono attività che faccio in completa autonomia — e quelle le posso fare anche alle tre del mattino, se per me è un momento adeguato — ma la maggior parte delle attività che ciascuno di noi fa è legata ad altre persone: colleghi, clienti, stakeholders in senso lato. Quindi leviamoci dalla testa che lo “Smart Worker” possa lavorare felice e indisturbato dalla spiaggia come e quando vuole: non è così. Ma da un certo punto di vista rinuncio a portare avanti questa partita: credo che debba passare almeno una generazione. Forse due.

C’è un’altra partita a cui però non voglio rinunciare, perché mi sta troppo a cuore. Il capitolo della formazione all’interno delle organizzazioni.

Dopo l’ubriacatura da digitale quest’estate sono impazzati i team building: non ho mai visto tanti equipaggi in barca a vela come quest’anno. Mentre l’Escape Room è un po’ sottotono: del resto dopo mesi di clausura forzata rinchiudere le persone in una stanza potrebbe scatenare nella migliore delle ipotesi attacchi di panico multipli.

Invece quel tripudio di attività più o meno adrenaliniche all’aria aperta da maggio ad oggi, complice la bella stagione, hanno fatto vivere una “stagione d’oro” ai vari formatori e alle varie società di intrattenimento. Una stagione d’oro, seppur brevissima e concentratissima (ricordiamoci che da metà luglio a fine agosto l’Italia si ferma).

Intrattenimento? Sì, intrattenimento. Non ditemi che andare in barca a vela è formazione, per cortesia.

A meno che non si stia prendendo la patente nautica non riesco a trovare la connessione fra la barca a vela e la formazione. Non insultiamo l’intelligenza delle persone. La barca a vela, così come le attività di team building in generale, è una parentesi esperienziale, condita di sorrisi, selfie e buoni sentimenti, per spezzare la routine.

Quando spezzi la routine e distrai le persone non puoi che produrre risultati positivi: diventa la “giornata da raccontare”, una volta per diversi mesi a venire, adesso che non ci stupiamo più di nulla per un paio di giorni. Ma va bene, attenzione, voglio anche qui chiarire un punto: i team building possono essere esperienze utilissime e piacevoli. Sono esperienze, appunto. Esperienze di condivisione, esperienze di apertura. É innegabile che “cambiare aria” (letteralmente) aiuti un gruppo, magari in forte pressione (ma dai? Chi oggi non lavora sotto pressione?) a distendersi, a parlarsi, a farsi promesse di cambiamento. Certo. Un po’ come quelle promesse che una coppia stressata (ma dai? Esistono oggi coppie non stressate?) si fa dopo una bella vacanza rigenerante (“non litigheremo più per motivi futili, dedicheremo più tempo a noi, parleremo di più, ci iscriveremo insieme al corso di cucina thailandese, di tango, di punto croce, di kickboxing, di cinese mandarino, di improvvisazione teatrale, di fotografia acrobatica, passeremo più tempo insieme, dobbiamo condividere, condividere, condividere”).

Esperienze, dicevo. Esperienze dalle quali si ricavano apprendimenti. Che poi quegli apprendimenti siano trasferibili nella quotidianità per produrre un cambiamento, mi dispiace ma non ci credo.

Io mi auguro che i formatori e le società che propongono questi eventi li propongano per quelli che sono: intrattenimento. Smettiamo di chiamarli, in una sorta di “words-washing”, formazione esperienziale. La formazione esperienziale è ben altra cosa. Queste sono esperienze di intrattenimento, come ho detto anche molto utili e piacevoli. Fine della questione.

E ADESSO PARLIAMO DI FORMAZIONE…

La damnatio memoriae dello Smart Working porterà a breve ad un altro grande ritorno: quella della formazione in aula, tutti insieme appassionatamente, otto ore al giorno di fila. Tralascio il tema della progettazione di questa formazione, lo affronterò ulteriormente in un altro articolo: oggi voglio parlare di tempistiche e modalità di erogazione.

Insomma, adesso che abbiamo la (falsa) certezza che l’emergenza sia cosa lontana da noi cosa c’è di meglio che recuperare i corsi di formazione non fatti con delle belle full immersion in aula?

Questo modello di formazione è morto. Finish. Kaputt. Era già inutile prima dei vari lockdown, tenuto artificialmente in vita dalla burocrazia e da un modello di vendita estremamente funzionale alle società di formazione, molto meno funzionale per i formatori (soprattutto se, come avviene per la maggior parte dei casi in questo settore, liberi professionisti) e — udite, udite — per i partecipanti stessi.

Ma andiamo con ordine. Lasciate che vi racconti il backstage di quella tipologia di formazione live (non parlo di e-learning o di altre modalità) che, pre-lockdown, prevedeva un determinato modello di vendita: tipicamente una vendita a giornate o mezze giornate da parte del trainer o di una società. E tipicamente chi sceglieva di svolgere questa professione metteva in conto giornate molto intense, mediamente di quindici ore. Otto di lavoro effettivo (perché le giornate si vendevano così, otto ore di formazione, perché le persone lavorano in ufficio otto ore e quindi la formazione deve essere di otto ore, lapalissiano), più trasferte. Il tempo di quindici ore è calcolato su una trasferta medio-lunga; tuttavia, anche nei casi più fortunati (che so, l’azienda che chiede l’erogazione della formazione è nella stessa città o provincia del trainer) il tempo medio di queste giornate di aggirava sulle dodici/tredici ore. Non tanto meno, dunque. Questo solo nella giornata effettiva: non parliamo di tutto il tempo impiegato a studiare, a formarsi, a definire i contenuti e le attività, a interagire con il cliente.

Ogni giornata di formazione, per un formatore degno di questo nome, richiede almeno trenta ore di lavoro, se si vuole erogare qualcosa di utile e sensato per le persone in formazione.

Un costo abnorme, sia per i professionisti del settore sia per le aziende: aziende che, infatti, pagano solo ciò che vedono, cioè le “ore” erogate. Ecco che allora, da decenni, il settore è stato contaminato da un paradigma sbagliato e i formatori sono stati pagati “a giornate” o “mezze giornate”. E quindi si sono attrezzati di conseguenza, cercando di vendere “più giornate possibile” e di infarcire le giornate di contenuti e attività tendenzialmente anche interessanti, ma non per forza utili in quel preciso momento ai partecipanti. Una stortura del modello di vendita che si riflette nella qualità dei contenuti erogati (penso di non essere l’unica ad aver visto girare slide riciclate o esercizi del 1987).

RIDERS, SCANSATEVI

I formatori, anche se rifiutano di ammetterlo, lavorano a cottimo. Sono riders forniti di computer, slide, adattatori per il proiettore. Sono pagati per le ore che vede il cliente. Più giornate vendono, più vengono pagati. La giornata dei formatori non è di 24 ore: ragionano a slot di otto ore o di quattro ore. Questa è la loro vita.

Il modello di vendita nel settore li massacra, perché otto ore o quattro ore vanno preparate, vanno progettate, c’è un “prima” importante nel processo formativo e c’è un “dopo” altrettanto significativo, ma non se ne curano. Devono vendere giornate. Chi se ne cura stramazza prima o poi al suolo dalla fatica o ha un colpo di sonno dopo l’ennesima trasferta. Credetemi, è così.

Quello che penso su questo modello l’ho già espresso in più occasioni e ora lo ribadisco.

La FORMAZIONE LIVE, così come è organizzata oggi, è strutturata in modo contrario alla fisiologia dell’apprendimento.

Le “giornate di formazione” da otto ore non servono a niente, se non a rendere facile il lavoro di vendita delle società e a strozzare i formatori.

Il paradigma è profondamente sbagliato: tutta la letteratura concorda nel sostenere che la “full immersion” consenta poi di “trattenere” e trasferire on the job una parte infinitesimale di quanto ascoltato, osservato, fatto nelle giornate di training.

Occorre riportare il “Learning in the flow of work”, non viceversa. Non staccare le persone dal lavoro, con la scusa che saranno più “concentrate” in un’aula. In un’aula (soprattutto se in azienda) le persone sono interrotte da telefonate, ingressi di colleghi, invii di notifiche e email mediamente due/tre volte all’ora (e vi assicuro che sono clemente). Significa, in media, più di una ventina di interruzioni al giorno per partecipante.

Ogni interruzione interrompe un flusso, magari al momento clou dell’attenzione, creando una dispersione di focus che poi va recuperata (occorrono fino a 23 minuti per riportare l’attenzione in maniera focalizzata, tuttavia in media dopo 2/3 minuti l’attenzione si è già ripristinata — dipende molto dalla persona, dalle sue abitudini, dal trainer, ma non sottilizziamo).

La giornata da otto ore non considera i cali fisiologici che avvengono nell’arco di quelle otto ore: se è improduttiva una giornata di lavoro da otto ore in ufficio (non ditelo a Brunetta, mi raccomando) figuriamoci una di formazione.

In alcune aziende ci sono fasce orarie in cui le persone sono continuamente interrotte e bersagliate di informazioni e input (dipende infatti molto dal lavoro che svolgono, dal settore, dall’organizzazione aziendale): come possiamo pensare di “staccarle” dal lavoro e “formarle”, se sono continuamente distratte e ansiose per “il lavoro che si accumula”?

Qualcuno a questo punto obietta dicendo che le aule devono essere esterne (quindi ad esempio in hotel, centri congressi etc). Quello che posso dire è che le persone arrivano con mediamente tre dispositivi a testa (un pc e un paio di telefoni), si connettono alla wi-fi dell’hotel e traslano quello che farebbero in azienda in un’aula esterna. Fine dei giochi. E no, non c’entra essere bravi trainer o proporre attività interattive e interessanti: le persone vengono interrotte. Si distraggono. Si ricordano, magari nel bel mezzo di una simulazione, che si sono scordati di inviare un’email. Non è questione di luogo, non è questione di trainer, non è questione di attività. È che il lavoro fagocita tempo e attenzione: siamo subissati di telefonate, messaggi, email, notifiche. Moriremo di notifiche, moriremo di input, moriremo di sovraccarico cognitivo. Ma questo è un altro problema.
Puoi anche portare le persone in alta montagna, ma ti assicuro che dove arriva il wi-fi arriva l’interruzione.

Tutto ciò solo come struttura, poi prendiamo i formatori. Nel settore opera una quantità incredibile di soggetti: tutti si dichiarano “capaci di formare”. In realtà il formatore vero è o prima di tutto un designer: deve avere competenze altissime in numerosi ambiti, dalle scienze cognitive alla scienza dei dati, per potersi dichiarare tale.
Abbiamo pochi designer.
Abbiamo pochi formatori degni di questo nome. Lo dimostra il fatto che moltissime società e moltissimi formatori, dall’inizio del lockdown, hanno continuato la vendita di giornate senza tener conto che in distance Learning i tempi sono totalmente stravolti e devono essere brevissimi.

Così non funziona. Il formatore che ci serve, il formatore del 2030, dovrà essere un facilitatore di un “accelerated learning”.

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Persone e aziende non hanno più tempo. Occorre tagliare i tempi morti e usare il tempo e l’attenzione, uniche vere risorse delle persone, in maniera piena e focalizzata.

Ma so che ancora non ho convinto i più scettici. Allora voglio farvi ridere con la cronaca di una tipica giornata di formazione di otto ore, 9–18:

Ore 9 inizio ufficiale

Ore 9.15 inizio reale (“scusa, ho trovato traffico, scusa sono sbarcati gli alieni nel mio salotto”)

Dalle 9.15 alle 10 presentazioni dei partecipanti perché tanto la giornata è lunga e abbiamo tempo. Se il trainer è bravo fa la raccolta delle aspettative per verificarle a fine giornata, ma non chiediamo troppo…

Ore 10: finalmente si inizia. Il trainer è felicissimo e comincia a esporre il primo contenuto ma…

Ore 10.05 di norma almeno uno dei partecipanti esce perché lo cercano o gli squilla il cellulare (è passata un’ora, la giornata è ancora lunga);

Ore 10.06 anche ad un altro partecipante suona il cellulare, ma non esce neanche e resta al suo posto, bisbigliando al telefono e distraendo tutti;

Ore 10.10 si ripristina il livello di attenzione e si va avanti;

Ore 10.30 uno dei partecipanti chiede se si può andare in pausa;

Ore 11.00 il trainer indice la tanto sospirata pausa promettendo che dopo si faranno attività pratiche e che ha finito lo spiegone (anche perché si tiene le attività pratiche per quando è più stanco, vecchia volpe);

Ore 11.15 fine pausa ufficiale;

Ore 11.30 fine pausa reale (“scusa, mi sto coordinando con la NASA per il prossimo lancio su Marte”);

OK, POTREI CONTINUARE A LUNGO. SPERO DI AVERE RESO L’IDEA.

In due ore e mezza dall’inizio della giornata abbiamo questa stima:

— sprechi di tempo, distrazioni e pause non previste: 60/70 minuti circa;
— conversazioni funzionali a conoscere i partecipanti e ad avere una buona relazione con loro: 30/45 minuti circa;
— tempo effettivamente dedicato al contenuto (e ancora non abbiamo fatto nulla di pratico): 45/60 minuti se va bene.

E se noi prendessimo allora questi 60 minuti in cui, effettivamente, c’è stato vero valore e li isolassimo dal resto? Che non significa far attaccare le persone ad un monitor per un’ora, ma significa reingegnerizzare totalmente il processo.

Noi lo abbiamo fatto. Abbiamo elaborato un framework, 30min, che in sessioni di 30 minuti vuole allenare l’apprendimento e soprattutto accelerare l’execution, proponendo una formazione davvero in linea alle esigenze pratiche delle persone.

Perché siamo stufi di vedere un modello di vendita “a tempo”, che non porta valore né ai trainer né ai partecipanti.

Perché siamo stufi di vedere sprechi di tempo e attenzione, le vere uniche risorse scarse che dovremmo preservare con cura.

Perché vogliamo diffondere un modello di apprendimento rispettoso del fisiologico funzionamento della nostra mente: la formazione deve servire ad evolvere e a cambiare, altrimenti è inutile. Non fatela. Risparmiate tempo, soldi, attenzione. Fatevi una bella passeggiata in campagna: la vostra mente ne beneficerà maggiormente.

Perché vogliamo rompere le regole di un settore viziato da troppi paradigmi sbagliati e da troppa burocrazia: ecco perché il nostro motto è Break The Learning Rules.

Cosa ne diresti di parlarne a voce? Di prenderci 30min?

Sarà felice di farlo e di avere la tua opinione.

Grazie intanto di aver letto fin qui e di avere investito il tuo tempo e la tua attenzione. Sono le uniche vere risorse di cui disponi: abbine cura e dedicale solo a chi se le merita davvero.

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Stefania Padoa
Catobi
Writer for

Change Management & Organizational Designer | Learning Designer | HR Tech & Ed Tech Explorer | Founder @ Grow Executive |