AI Feel You: Brand Vulnerability

Brand e persone sono ancora in grado di mostrarsi vulnerabili? Reimparare a farlo sarà la nostra arma di sopravvivenza di massa

Stefano Panini
celomanca
9 min readMay 28, 2023

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Parlare di futuro da qui è pura speculazione. Non è anticipazione, significa piuttosto proiettare in avanti le speranze e le inquietudini del presente. È l’eterna sfida tra Utopia e Distopia. Chi vince?

L’incertezza, ecco chi vince. Oppure le infinite possibilità.

Permacrisis è la parola dell’anno per l’Oxford Dictionary, ma Decade of Possibilities è lo scenario che i designer scelgono speranzosi per i propri brand. A vincere è la crisi infinita o le infinite possibilità?

Nessuna delle due.

Non vince il fine, ma il mezzo. Cioè la tecnologia, che se ne frega di tutto e va oltre l’Homo Sapiens. Intelligenza Artificiale, Biotecnologia e Ingegneria Genetica spalancano le porte al post-umanesimo: non è la scomparsa dell’uomo dalla Terra, piuttosto il suo potenziamento.

Harari chiama questa nuova forma di umanità Homo Deus: l’uomo che si eleva a Dio dotandosi di capacità soprannaturali. L’umanità che tende alla vita eterna ed elimina ogni forma di imperfezione, dal corpo alla mente.

La vita è performance.
La performance è eccellenza.

Se l’uomo è Dio, la nuova democrazia è l’algocrazia

Il modo più efficace che ha l’Homo per tendere al → Deus è preferire che una sequenza di istruzioni matematiche gli suggerisca dove porre attenzione, partecipazione e scelta. L’uomo ha scelto l’algocrazia — dittatura degli algoritmie ha efficientato ogni cosa: dal lavoro, ai comportamenti d’acquisto, al consumo di prodotti e informazioni.

Éric Sadin (2019) ha definito l’Intelligenza Artificiale una metodologia della razionalità fondata sulla destinazione utilitarista e lucrativa di ogni momento della vita.

La strada è spianata. L’algoritmo che regola il nostro feed Instagram o la home page di Netflix offrendoci la cosa giusta al momento giusto non è che un leggero assaggio del dove ci porterà il rapporto uomo-macchina.

Abbiamo strumenti statistici così potenti che queste tecnologie puramente sintattiche possono aggirare problemi di significato e continuare a fornire ciò di cui abbiamo bisogno: un biglietto a prezzo più conveniente, una canzone che si adatta alle nostre preferenze musicali, una soluzione più economica, una strategia più efficace, una diagnosi migliore, un’opzione di cui non sapevamo nemmeno di aver bisogno.

Il prospetto è incredibile: avremo una umanità più performativa, migliore e superiore, finalmente libera e liberata dei suoi limiti: nanotecnologie, rallentamento dell’invecchiamento cellulare, potenziamento dei circuiti emotivi, mind uploading… il nostro sistema operativo è in aggiornamento.

Kintsugi Opera D’arte

Pubblicità = Performance

Tecnologia e algoritmi nelle mani degli advertiser hanno trasformato persone in → utenti. Per il settore pubblicitario, efficientato fino all’osso, l’uomo è così una semplice interfaccia tra il prodotto o servizio e un conto corrente bancario. Più fluida e senza attrito è la relazione tra i due, meglio è. Quindi l’interfaccia umana deve essere manipolata.

Per manipolarla, l’industria pubblicitaria ha bisogno di avere quante più informazioni possibili sull’interfaccia-cliente-utente. In questo l’Al gioca un ruolo cruciale, adattando, ottimizzando, decidendo molti processi, attraverso sistemi di automazione, profiling, raccomandazione, e così via.

Il direttore marketing ha migliorato i suoi numeri e li mostra fiero ad ogni trimestrale incurante del fatto che, così facendo, stia contribuendo a rendere branding e pubblicità sempre più performative. Un bene per il ROI; ma può, il suo amato funnel, essere schiacciato così tanto verso la conversion? E poi, fino a quale trimestrale si possono migliorare le performance?

L’attenzione si compra, ma perde di valore.

Anche per questo percorrere il sentiero accidentato tra tecno-entusiasti e tecno-scettici significa porsi il problema di come governare la trasformazione tecnologica, ovvero di come far sì uomo e brand restino al centro della rivoluzione digitale: protagonisti e non comparse, né tantomeno antagonisti.

C’è bisogno di un nuovo modo di fare branding, l’ultimo baluardo della pubblicità capace di tenere assieme storie + pubblici (non solo utenti) + profitto.

Vulnerabilità come atto di Forza

Postumanesimo e pubblicità performativa hanno in comune un aspetto: il disagio con cui guardano ai nostri elementi di vulnerabilità e fragilità, non cogliendo in essi nulla di positivo. È il rigetto della condizione umana, che rende fragile anche l’identità dei vecchi amati brand, specchio di quella umana.

Possiamo emanciparci davvero dai limiti del nostro corpo? Possiamo fare a meno della schiavitù del mondo emotivo? Possiamo tendere al perfezionismo?

Possiamo.
Ma forse non dovremmo.

Tutto questo è manifesto di un disagio che dovrebbe suscitare interrogativi, almeno tre. Ed è a partire proprio da questi che possiamo definire un nuovo modo di fare branding. Prendete in mano carta e penna, ci tocca disegnare un nuovo piano cartesiano.

3 Axis Brand Vulnerability

Asse X: future-proof risking

Non c’è azione più vulnerabile di quella che tende all’ignoto. Eppure con l’AI rischiamo di perdere il senso del tempo: il presente perde di consistenza a totale beneficio di un futuro che però è guidato da scelte che si basano sul passato.

C’è pochissimo spazio per il rischio.

La qualità del rischio dato dall’intelligenza artificiale è pari a quella del database da cui trae informazioni, figlie di ieri e modellate per costruire un domani a sua immagine somiglianza, seppur in una condizione migliorativa.

Questo non significa che l’AI non riesca a guardare al futuro, tutt’altro. I modelli matematici mancano però rottura. Se il branding è la capacità di costruire storie interessanti, ciò che rende una storia interessante è soprattutto la quantità di imprevisti negli eventi narrati e le tensioni che risolve o che incrina volontariamente.

Una storia — come quella su cui si fondano brand come Apple, Nike, Patagonia — ha valore solo nel momento in cui viola qualche convenzione. Non si tratta solo di infrangere una regola qualsiasi, ma quella più giusta.

Le macchine non sanno quando infrangere una regola sia vantaggioso e quando invece sarebbe dannoso. Un’intelligenza artificiale deve padroneggiare ciò che conosce prima di addentrarsi in ciò che non conosce.

Andare oltre i sistemi computazionali dell’AI significa andare oltre gli schemi.

Farlo significa rischiare davvero e muoversi con azioni decise — magari imperfette — verso il futuro.

Asse X → vulnerabilità = rottura.
Conserveremo il coraggio di rischiare?

Asse Y: tackling the taboo

Il postumanesimo rende l’uomo in conflitto con il proprio corpo — che vorremmo sempre più performante e potenziato — e con le proprie emozioni — che molti vorrebbero controllare e manipolare.

Ma se si mira alla perfezione si finisce ad avere occhi solo per i difetti e questo rifiuto del limite comporta l’incapacità di riconoscersi per ciò che si è.

Fino a che punto è giusto sognare una versione di noi stessi che non ci appartiene?

As AI outmarts us & blockchain confuses transparency with trust, a primal desire for human authenticity is resurgent.
- Matt Kissane, Landor & Fitch’s Global Executive Director

I brand non sono entità perfette, esattamente come gli uomini. Allora, se il brand è prima di tutto fiducia oggi la fiducia si costruisce mostrando il fianco. Aprendosi alle vulnerabilità e, prima ancora, aprendosi e basta. Palesare i limiti, costruire su quelli. Mostrarsi umani.

In “Oralità e scrittura” Walter Ong (1982) scrive: “Le tecnologie sono artificiali, ma l’artificialità è naturale per gli esseri umani”. La vera disruption oggi è mostrarsi naturali.

È finito il tempo delle stronzate.
Vulnerabilità = verità.

Abituamoci ad essere autentici.
I brand possono farlo prima di tutto se saranno in grado di parlare la stessa lingua delle persone.

“Vulnerability is the first thing I look for in you, but the last thing I want you to see in me”
- Brené Brown, Vulnerability Resercher

Asse Y: vulnerabilità = autenticità.
Avremo il coraggio di mostrare le nostre imperfezioni?

Manca un asse, l’asse Z, quello della profondità. Il più importante, perché ci permette di costruire brand tridimensionali e non solo etichette colorate.

Asse Z: building (around) a community

La retorica sulla tecnologia di ultima generazione culmina spesso con la distopia in cui la singolarità dei tecno-futuristi — una macchina capace di prevalere sull’intelletto umano — diventerà reale.

Ma non è questa singolarità che spaventa, piuttosto il singolarismo. L’individualismo.

Sono gli anni del singolo. Anni in cui un numero sempre maggiore di persone non si aspetta più il generale ma sempre lo speciale; non ci interessa ciò che è standardizzato e regolato ma a ciò che è originale e particolare; non siamo interessati a ciò che è prodotto per la massa, ma a ciò che è specifico e individuale.

Tutto è mio: abbiamo esasperato la rivoluzione copernicana.

La società dei singoli è frutto della modernità. L’algoritmo ci vizia. La tecnologia alza continuamente l’asticella delle nostre aspettative.

Ci comportiamo, senza rendercene conto, come fossimo tanti Robinson Crusoe su isole solitarie che di tanto in tanto salgono sulla canoa per pagaiare fino all’isola vicina e scambiare banane con noci di cocco.

Pensiamo per prima cosa a noi stessi. Alle nostre comodità e alla nostra realizzazione personale. L’unica religione che sembriamo conoscere da Facebook in avanti è l’idolatria dell’io, per cui tutto deve essere fatto in relazione a sé stessi.

“Viviamo un rapporto problematico con il valore dell’autonomia personale, assolutizzata e posta a baluardo di una libertà svincolata da ogni legame sociale. Ma una libertà senza vincoli non è solo pericolosa; è, almeno ai miei occhi, profondamente inumana, poiché il senso del nostro stare al mondo non è emanciparci dai legami, ma apprendere, spesso per prove ed errori, l’importanza di legarci bene e di saperci mettere in mani affidabili, capaci di prendersi cura di noi.”
- Luca Grion, professore associato di filosofia morale presso l’Università degli Studi di Udine

Non c’è azione più vulnerabile del mettersi nelle mani degli altri.
Fidarsi e affidarsi.

Il senso dell’uomo è la comunità. Lo è dai tempi dell’Homo Sapiens che, a differenza dei Neanderthal, raccontava storie attorno a un fuoco dando forma a comunità basate appunto su quei racconti. Ed è proprio questa capacità che ha permesso loro di avere la meglio sui Neanderthal, pur essendo quest’ultimi fisicamente più forti.

Chiamiamole comunità, community o DAO…
Chiamiamole come ci pare, ma i brand a prova di futuro saranno quelli che riusciranno a costruire storie e significati per tessere relazioni forti con le persone.

Asse Z: vulnerabilità = comunità.
Saremo in grado di costruire legami?

That’s all folks: l’androritmo

Lo schema è compiuto: asse X, Y e Z danno forma a un brand vulnerabile ma così forte da affrontare le sfide del futuro.

E noi?

I sistemi algoritmici e la spinta della tecnologia non sono da fermare né censurare. Piuttosto, come uomini, dovremo camminare al loro fianco. Rafforzare una serie di caratteristiche che ci rendono umani, per le quali possiamo adottare un termine proposto da Gerd Leonhard (2019): “androritmo”.

Androritmo indica tutto quello che possiamo considerare irriducibile agli algoritmi. Rythmós, infatti, non è solo misura (del moto e del tempo, da cui il nostro “ritmo” come successione ordinata e cadenzata); è anche la parola con cui gli antichi greci denotavano qualsiasi stato, condizione, disposizione o modo di essere, perfino forma in cui possa apparire qualcosa: androritmo è in essenza come si manifesta l’essere umano.

Facciamo un salto indietro nel tempo.

È il 680 a.C. e nel frammento “Apostrofe al cuore” Archiloco ci ammoniva a riconoscere “quale flusso governa gli uomini”, cioè cosa caratterizzi gli esseri umani, riconoscendo qualità e vulnerabilità essenziali per comprendere l’essere umano, fra cui:

  • il desiderio dell’anonimato e della privatezza;
  • il piacere per la serendipità e l’imprevisto, a volte al limite dell’imprudenza;
  • il rifugio nell’ansia e nel dubbio, e a volte perfino nel rifiuto ostinato;
  • il diritto all’incoerenza, all’ambiguità e all’imprecisione;
  • il bisogno, a volte insopprimibile, della dimensione dell’ineffabile, dell’inesprimibile e del silenzio.

Questo elenco è prezioso, perché ci aiuta a riconoscere la natura delle nostre esistenze. Così facendo, palesiamo la differenza incolmabile tra androritmi e algoritmi, ma solo così costruiremo storie più vere gettando le fondamenta per i brand del futuro.

Forse non perfetti,
ma migliori.

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