Le città dell’esilio dantesco
“L’esilio rallargò l’orizzonte di Dante e di fiorentino lo fece cittadino d’Italia”
“Tu proverai sí come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.”
Canto XVII del Paradiso
Dante apprese di essere stato condannato all’esilio con l’accusa di
<<baratteria, lucri illeciti ed estorsioni inique>>
nel 1302.
In quel momento non si trovava a Firenze essendo stato inviato a Roma come ambasciatore. Iniziò così il suo girovagare per varie regioni d’Italia dove ricoprì il ruolo di uomo di corte presso signori magnanimi (i Malaspina di Lunigiana, gli Scaligeri di Verona, i Da Camino di Treviso, i Da Polenta di Ravenna) che ospitavano personalità di cultura sia per funzioni ambasciatoriali sia per ricevere in cambio prestigio e lustro.
Da fiero intellettuale cittadino del suo libero Comune, dopo la condanna, il poeta si ritrovò a dover assoggettare ad altri la sua volontà e la sua attività creativa. Dopo un tentativo fallimentare di rientro a Firenze, si allontanò definitivamente dalla Toscana rifugiandosi alla corte degli Scaligeri di Verona.
Scriverà Dante nel XVII Canto del Paradiso:
“Lo primo tuo refugio, il primo ostello/sarà la cortesia del gran Lombardo/che’n su la scala porta il santo uccello.”
Il gran Lombardo è Bartolomeo della Scala, l’uccello è l’aquila simbolo degli Scaligeri.
A Verona l’esule trovò ospitalità presso la dimora dei signori della città ovvero il palazzo del Podestà (conosciuto anche come palazzo degli Scaligeri, della Prefettura o di Cangrande). L’edificio presenta una facciata su piazza dei Signori e un’altra rivolta verso le Arche Scaligere. Il soggiorno dantesco è ricordato da una statua del poeta al centro della piazza che è chiamata dai veronesi anche Piazza Dante.
Tra il 1304 e il 1307 Dante scrisse il Convivio, che negli intenti dell’autore doveva essere una vasta enciclopedia (in cui far confluire tutto lo scibile umano) con la quale poter dimostrare la propria dottrina e contemporaneamente difendersi dalle ingiuste accuse che lo avevano condannato all’esilio.
Il progetto originario prevedeva quindici trattati (il primo introduttivo e gli altri a commento di altrettante canzoni) ma solo quattro furono realmente composti. Il destinatario dell’opera è un pubblico più vasto di quello della Vita Nova ovvero tutti coloro che non hanno potuto dedicarsi agli studi pur essendo dotati di spirito gentile, elevato e virtuoso.
Contemporaneo al Convivio è il De vulgari eloquentia in cui il poeta riprende, amplificandolo, il discorso sulla dignità della lingua volgare. L’opera fu concepita con lo scopo di fornire un trattato di retorica che potesse fissare le norme per l’uso del volgare. Il lungo processo di affermazione di quest’ultimo come lingua della cultura e strumento di affermazione letteraria venne dunque a concludersi con la stesura di quest’opera. Scritta in latino ed indirizzata dunque ai dotti, non aveva intenti divugativi. Il progetto originario doveva comprendere quattro libri ma venne interrotto a metà del secondo. Il primo libro tratta il problema della formazione del “volgare illustre” (un linguaggio adatto ad uno stile sublime e ad argomenti elevati). Il secondo libro enuncia invece gli argomenti per i quali bisogna ricorrere a uno stile tragico: amori, armi e virtù.
In seguito alla morte di Bartolomeo della Scala Dante si allontanò da Verona per tornare probabilmente in Toscana, ad Arezzo.
Dopo l’ennesima disfatta politica decise di lasciare la sua regione alla volta dell’Italia settentrionale. Non più Verona, dove signoreggiava oramai l’avverso Alboino, ma molto probabilmente Treviso, alla corte di Gherardo da Camino ricordato da Dante nel XVI Canto del Purgatorio come il “buon Gherardo”. Il palazzo signorile dell’epoca con la sua struttura originaria non è oggi visibile essendo stato distrutto nel 1312.
Sull’area dell’edificio nel 1346 fu costruita la chiesa di Santa Caterina dei Servi di Maria, oggi sconsacrata, che si trova accanto all’ex convento di Santa Maria; insieme fanno parte del complesso di Santa Caterina, una delle sedi dei Musei civici di Treviso.
Nonostante sia difficile seguire le vicende dantesche, probabilmente attorno al 1306 (anno di morte di Gherardo Da Camino), Dante fu in Lunigiana, tra Toscana e Liguria. Sicuro è il suo soggiorno presso i Malaspina, casata elogiata perchè:
“sola va dritta e ‘l mal cammin dispregia” (Purgatorio, VIII)
Dante fu procuratore per conto di tutti e tre i rami dei Malaspina per dirimere la controversia tra questi e i vescovi-conti di Luni che effettuavano pressioni sulle terre sotto il diretto dominio vescovile.
I rapporti con questa famiglia (che deteneva il controllo su castelli e altri possedimenti posti sui due versanti appenninici) è testimoniato anche da una corrispondenza poetica e epistolare con alcuni di questi marchesi.
Sentendo riconfermato il suo livello poetico e il suo valore intellettuale Dante inizia forse qui a scrivere la Divina Commedia.
Con un atto notarile rogato il 27 agosto 1306 in cui compare un “Dantinus quondam Alligerii de Florentia et nunc stat Padue” si ritenne, invece, di poter confermare la presenza del sommo poeta a Padova in quegli anni. Tuttavia, in alcune pergamene trovate all’archivio comunale di Verona da G. Da Re, si legge che un “Dantinus” omonimo e contemporaneo del padovano (verosimilmente lo stesso) viveva a Verona dopo la morte di Dante, per cui il documento del 1306 perde valore.
A conferma della tesi del soggiorno nella città padovana ci sarebbe però sia una conoscenza descrittiva della città e dei suoi dintorni da parte di Dante che spingerebbe a favore dell’ipotesi di una presenza visiva, non solo indiretta dei luoghi, sia l’asserzione di Benvenuto da Imola che presenta Dante e Giotto in un dialogo localizzato nel tempo e nello spazio, convincendo della compresenza dei due grandi fiorentini in Padova. Essi furono di sicuro coetanei e concittadini e forse amici. Se si vuole accettare l’ipotesi della presenza del poeta nella città veneta bisogna comunque individuarla tra il 1304 e il 1306.
Giotto si trattenne lì tra il 1303 e il 1305 per intraprendere la decorazione della Cappella Scrovegni con un ciclo di affreschi considerato oggi uno dei capolavori dell’arte occidentale. In questo piccolo edificio nel centro storico, che misura poco meno di tredici metri di altezza, nove di larghezza e trenta di lunghezza, è possibile vedere la narrazione delle storie della Madonna e di Cristo distribuita in tre fasce sovrapposte incorniciate in basso da una balza decorata con le allegorie delle Virtù e dei Vizi. Su tutto domina, nella contro facciata il Giudizio Universale. In questo piccolo vano rettangolare coperto a botte, il pathos è contenuto, dominato e rappresentato per mezzo del colore e dei contorni netti delle figure.
Dante è però prima di tutto, anche se non solo, il poeta della Divina Commedia: le ipotesi più verosimili fanno risalire l’inizio della stesura dell’Inferno agli anni 1304–1307 quando vennero lasciati incompiuti il Convivio e il De vulgari eloquentia. Si suppone che la prima delle tre cantiche sia stata conclusa attorno al 1309 anche se Boccaccio afferma che i primi sette canti furono composti prima dell’esilio.
Nell’Inferno in cui si mescola tradizione biblica e mitologia, la presenza del poeta vivo trasporta le anime perdute nei ricordi e nelle passioni della loro esistenza terrena. Nelle terzine infernali non sempre ci si sofferma sul peccato che ha condotto qui i dannati. Spesso si rievoca ciò che non ha a che fare con la loro dannazione. Non tutti gli spiriti poi si presentano impenitenti e in molti resta la varietà di sentimenti propria dei peccatori viventi.
Dante deve compiere il viaggio nei tre regni oltremondani, esplorare tutto il male del mondo, trovare la via della purificazione nel Purgatorio e ascendere fino alla visio Dei. Tutto quello che avrà appreso al termine del viaggio, tornato sulla terra, dovrà ripeterlo, mediante il suo poema, all’umanità, per condurla alla rigenerazione e alla salvezza.
Da una stessa riflessione politica sulla sregolatezza in cui si trova a naufragare l’umanità derivata dalla duplice decadenza di Chiesa e Impero nasce il De Monarchia. Sicuramente posteriore al Convivio, per alcuni sarebbe stato scritto attorno al 1308, per altri tra il 1311 e il 1313.
Nel trattato, scritto in latino e suddiviso in tre libri, vi si legge il disegno e la speranza di ristabilire una monarchia universale e l’affermazione dell’autonomia del potere temporale e di quello spirituale che derivano direttamente da Dio. Agli occhi del sommo poeta, la restaurazione dell’autorità imperiale, doveva tradursi in realtà con la discesa dell’imperatore di Lussemburgo Enrico VII. Questo evento spinse alla stesura di tre epistole politiche in latino destinate a Enrico VII, ai reggitori d’Italia e agli scellerati fiorentini.
Tra il 1312 e il 1313 Dante concluse la seconda cantica della Commedia in cui la “ morta poesia” della prima cantica sembra rassenerarsi come l’anima di Dante all’uscir fuori dall’oscurità al “dolce color d’oriental zaffiro” che rischiara l’orizzonte sereno del Purgatorio.
Questa è la cantica della tenerezza, della malinconia raccolta, dell’affetto, della non-fretta. Non ci sono invettive, piuttosto rimpianto moderato, dolorosa meraviglia da parte degli spiriti purganti che non affrettanno il loro ricongiungimento con Dio, non sono perpetuamente assorbiti nella loro espiazione ma rimangono anzi legati ai loro affetti terreni.
Di particolare importanza è poi l’epistola indirizzata a Cangrande della Scala, tra il 1316 e il 1320, che contiene la dedica del Paradiso al signore di Verona e presenta le indicazioni di lettura del poema:
il soggetto (anime dopo la morte), i quattro sensi (letterale, allegorico, morale, anagogico), il titolo Commedia (per l’inizio luttuoso e la fine lieta e per lo stile dimesso e umile), il fine (salvare gli esseri umani dallo stato di miseria e condurli alla felicità).
Svaniscono le ultime speranze di un ritorno in patria nel 1315 quando il poeta rifiutò sdegnato un’amnistia che avrebbe avuto come prezzo il riconoscimento della propria colpevolezza.
Nell’ultimo periodo della sua vita, probabilmente dal 1318, Dante fu ospite a Ravenna di Guido Novello da Polenta.
«È senz’altro ammissibile che i rapporti fra Dante e Guido siano stati molto cordiali: all’amore per lo studio e per la poesia, alla venerazione e ammirazione per il sommo poeta si aggiungeva in Guido l’aiuto che gli veniva da Dante nelle trattative con Venezia»
Il soggiorno ravennate gli offrì quell’oasi di pace necessaria per la stesura dell’ultima delle tre cantiche: il Paradiso.
Nella “cantica di Beatrice” è reso il senso di un’ardua esperienza, l’acquisizione di una conoscenza della verità sempre più profonda. Dante viene qui a contatto con quegli spiriti che amava e ammirava, con i quali desiderava parlare. Tuttavia anche qui, nel gradino più vicino a Dio, c’è umanità:
“i beati furono già uomini, e pur essendo la loro beatitudine ferma in Dio, e ferma in Dio la loro volontà, niente impedisce che amino e ricordino quello che fu già il loro mondo”.
Dante è qui un privilegiato, ammesso a godere della salvezza eterna.
Il maggior poeta della letteratura italiana si spense, a causa di una febbre malarica, nel settembre del 1321 durante un viaggio verso Venezia in qualità di ambasciatore.
Fortemente scosso dall’improvvisa morte dell’illustre ospite, Guido Novello che già da tempo aveva in animo di cingere il capo di Dante dell’alloro poetico, gli rese omaggio con solenni funerali nella basilica di San Francesco e lì all’esterno del chiostro venne seppellito.
La tomba di Dante è un monumento funebre eretto presso la suddetta basilica. Fu costruito tra il 1780 e il 1781 ed è a forma di tempietto neoclassico coronato da una piccola cupola.
Sull’architrave sovrasta in latino la scritta:
Dantis poetae sepulcrum.
La tomba vera e propria consiste in un sarcofago di età romana con sopra scolpito in latino l’epitaffio dettato da Bernardo Canaccio nel 1366.
Sopra il sepolcro un bassorilievo della fine del 1400 rappresenta Dante pensoso davanti a un leggio. Le spoglie del sommo poeta furono oggetto nei secoli di rivendicazioni e spostamenti. Vennero nascoste e ritrovate solo nel 1865 per poi essere ricollocate definitivamente nel tempietto.
Il testo di questa seconda puntata di Cent’anni di Dante è stato redatto da Domitilla D’Amico e editato ed impaginato da Carmine Aceto.