Le dichiarazioni dei redditi: da che parte andare.

Federico Dolce
Centro Studi Argo
Published in
15 min readDec 4, 2017

Lo scorso 27 dicembre Silvio Berlusconi, durante un’intervista a Radio 101, nel delineare le nuove promesse per la campagna elettorale imminente ha annunciato la misura chiamata “Reddito di dignità” affiancandosi così alle altre forze politiche che propongono una forma di reddito di base come contrasto alla povertà. Di fronte alle accuse di plagio mossegli dal candidato premier del Movimento 5 Stelle Luigi DiMaio, Berlusconi ha correttamente risposto che l’idea non è certo nuova e che l’argomento è dibattuto da anni da forze politiche di ogni schieramento.

Infatti il reddito di cittadinanza nasce parecchi anni fa ma sta vivendo in questi ultimi anni una nuova vita come possibile soluzione a due grandi problemi collegati fra loro: la disoccupazione creata — in parte — dall’innovazione tecnologica e la diseguaglianza sempre maggiore nelle società occidentali tra i super ricchi e il resto della popolazione.

La questione della diseguaglianza e della redistribuzione sta al cuore del conflitto politico contemporaneo. E’ oramai un indicatore misurato e sottolineato da tutte le analisi economiche del benessere occidentale dei vari organismi internazionali o agenzie di rating e sta assurgendo a valore fondamentale nelle letture programmatiche delle forze politiche più progressiste.

E’ piuttosto difficile contestarne l’effetto negativo sulla società ne la sua intrinseca immoralità: la forbice tra i più ricchi e i più poveri che si allarga sempre più, i pochissimi ricchi che comandano un mondo sempre più impoverito sono narrazioni davvero difficili da supportare, specie in tempo di crisi.
Ci sono però e ci sono state in passato letture che se proprio non si ritrovavano a favore di questo schema, lo derubricavano almeno all’ininfluenza o alla contingenza temporanea.

Si trattava in genere di posizioni di carattere strettamente neoliberista che vivevano l’obiettivo egualitario dell legislatore alla stregua del socialismo reale: “ci vogliono tutti uguali per esaltare la mediocrità e schiacciare lo spirito capitalista”.
In realtà lo “spirito” che animava la tigre capitalistica vive — viveva — ben foraggiato da un’uguaglianza ben precisa: quella delle opportunità.

Per tutto il “secolo americano” in cui gli Stati Uniti hanno guidato il mondo libero, questi venivano giustamente raccontati come la “terra delle opportunità”, proprio perché la mobilità sociale era talmente alta da giustificare qualsiasi ineguaglianza di risultato. Le pari (o quasi) opportunità date ad ogni individuo pesavano sul piatto della bilancia fino ad eguagliare le grandi disparità tra i primi e gli ultimi della società. Oggi le statistiche mostrano che orma il sogno americano è poco più di un mito; le prospettive di un giovane americano sono più dipendenti dal reddito e livello di istruzione dei suoi genitori che in ogni altro paese sviluppato. Questo risulta nello spreco della risorsa più importante nell’era dell’industria specializzata e delle informazioni: il capitale umano.

La sfida dovrebbe essere quindi quella di ridurre le diseguaglianze nella popolazione, per permettere un generale miglioramento delle condizioni di vita, ma si combatte principalmente sul ruolo dello Stato e su come questo possa fare per gestire questi gap.
La tesi “da destra” è infatti che la diseguaglianza di reddito è generata — o per lo meno fortemente aumentata — dalle innovazioni tecnologiche, fin dal XVIII secolo o anche prima.
Chi era in possesso della tecnologia che sarebbe andata a dominare l’era successiva inevitabilmente era proiettato il margine alto della distribuzione di ricchezza e destinato ad allargare la forbice, che poi si sarebbe lentamente ricomposta con il ricadere sul resto della popolazione degli effetti benefici dell’incremento di produttività e ricchezza.
Se questo era un ciclo che in passato arrivava ad occupare un secolo, o almeno una generazione, gli ultimi decenni sono stati talmente pieni di “technology driven innovation” da restringere temporalmente questo ciclo in maniera forse insostenibile per il resto della società per assorbirne lo shock e goderne i lati positivi.

Oggi abbiamo modo di verificare come i due indicatori (mobilità sociale e diseguaglianza) vivano una correlazione non così diretta e potente come si potrebbe immaginare, e che vanno entrambe rese oggetto di politiche correttive perché la situazione generale possa migliorare, ma non si può sperare di migliorare una agendo solamente sull’altra.

Il reddito di cittadinanza nel mondo

Con queste premesse in molti luoghi nel mondo si sta procedendo a diverse sperimentazioni del Universal Basic Income (UBI) in varie accezioni:

Dal primo gennaio, in Finlandia, l’agenzia governativa che si occupa del sistema previdenziale destinerà 560 euro al mese a 2.000 disoccupati scelti in modo casuale all’interno di un gruppo di persone di età compresa tra i 25 e i 58 anni. Rispetto ai sussidi di disoccupazione tradizionali, i beneficiari continueranno ad essere pagati anche se troveranno lavoro o se smetteranno di cercarlo.

In Olanda diverse municipalità, Utrecht tra esse, partecipano al programma pilota weten wat werkt (conoscere cosa funziona): assegni mensili fino a 1000 euro sono offerti, alcuni senza controparte, altri in sostituzione di tradizionali forme d’assistenza.

In Canada, l’esperimento degli Anni 90 nello Stato del Manitoba ha portato a risultati ambigui: i genitori passano più tempo con i figli (buon auspicio), ma aumentano anche il consumo di cannabis, l’ozio e la disoccupazione. Dopo un quarto di secolo, il Canada intenderebbe riprovarci con un progetto di 15 mila dollari/anno per ogni adulto. I fondi non esistono ma i sostenitori affermano che 2/3 di essi potrebbero essere generati ristrutturando e riducendo le altre spese federali. In Alaska da tempo lo stato distribuisce annualmente 2000 petrodollari a ogni cittadino.

Il reddito di cittadinanza nel passato recente

Saltando a piè pari le visioni filosofico utopistiche di Thomas Moore, Charles Fourier e Thomas Paine che vanno a collocare la nascita del concetto di reddito di base addirittura nel XV secolo, nella seconda metà del 1900 un interesse sempre più vivo a riguardo è stato mostrato da esponenti politici ed economisti afferenti ad una certa area politica: l’UBI è stato abbracciato e sponsorizzato da economisti neoliberali per parecchio tempo. Uno dei suoi primi campioni è stato il nientemeno che il santo patrono del neoliberismo, Milton Friedman. Nel suo libro Capitalism and Freedom, Friedman propone una “imposta negativa sul reddito” come mezzo distributivo di un UBI.
Per Friedman, la causa della povertà è il non avere abbastanza capitalismo. Di conseguenza la sua soluzione è di fornire un “reddito di base” come mezzo per eliminare lo stato sociale e rimpiazzarlo con organizzazioni private. Friedman indica specificatamente che “se messo in funzione [l’UBI ndr] come alternativa all’attuale accozzaglia di misure dirette per lo stesso fine, il carico amministrativo verrebbe senz’altro ridotto.”

Friedman prova poi ad elencare alcune di queste misure che vorrebbe vedere sostituite: qualsiasi sussidio e programmi assistenziali di tutti i tipi, pensioni di anzianità e sociali, previdenza sociale, assegni famigliari, edilizia pubblica, leggi per il reddito minimo, programmi per la sanità pubblica, ospedali e istituti di igiene mentale. Non a caso fu il repubblicano Richard Nixon uno dei primi politici a prospettare un piano, poi ritirato, per un reddito minimo che sostituisse le precedenti forme di welfare.

Un altro importante promotore del UBI, il politologo americano Charles Murray, condivide la visione di Friedman. In un’intervista alla PBS ha detto: “[…]La prima regola è che il reddito di base garantito deve rimpiazzare qualsiasi altra cosa — non è un’aggiunta. Niente più “food stamps”; niente più Medicaid; e avanti così per tutta la lista. Niente più di tutto questo. Il governo dà dei soldi di modo che i bisogni umani vengano gestiti dagli esseri umani nelle proprie comunità, nelle proprie organizzazioni. Credo che sia fantastico.”

Reddito universale incondizionato vs. Reddito minimo garantito

In questo senso va inquadrato il reddito universale incondizionato all’interno di una lettura di stampo politologico: è una soluzione messa in campo per creare un’alternativa al welfare state. Una soluzione tesa a ridurne gli sprechi e le inefficienze, la burocrazia, le truffe e la corruzione: invece di far spendere lo Stato nella costruzione di una rete di servizi per il cittadino, dargli direttamente i soldi perchè se li procuri nel mercato privato.

Il Welfare state americano in tutta la sua complessità. Fonte: House Ways and Means Committee.

In questa luce il reddito di cittadinanza viene venduto benissimo: una estensione dello Stato che si intromette nella vita dei cittadini elargendo soldi in cambio di nulla, mentre in realtà si tratta di una vera e propria ritirata dello Stato sotto forma di servizi e stato sociale che viene svenduto, e i cui proventi vengono distribuiti come mancetta a tutti i cittadini (anche i più ricchi).

Ogni proposta di reddito universale infatti vede decadere per fargli posto tutta una serie di servizi e trasferimenti di denaro/risorse verso determinate fasce di popolazione: le pensioni (almeno nei casi di quelle sociali) e sussidi di ogni sorta (disoccupazione, maternità, invalidità, reversibilità) vengono immediatamente messi nel calderone delle risorse a disposizione del RDC.
Ma anche esenzioni di vario titolo: sanitario, trasporti, scolastici e naturalmente i servizi abitativi vengono immediatamente meno.

Chiunque si sia soffermato nel giudicare come “inattuabile” dal punto di vista economico una qualsiasi soluzione UBI ha semplicemente fatto male i calcoli prendendo troppe poche variabili in considerazione.
Lo stesso test finlandese, promosso non a caso da un governo liberale e di centro-destra, indica nelle raccomandazioni che l’ammontare dell’eventuale assegno mensile all’intera popolazione sia deciso dall’ammontare di risparmi nelle politiche sociali e servizi di base che si potranno calcolare grazie appunto al test.

Per questi motivi i partiti più a sinistra sono affascinati si dalla portata rivoluzionaria (soprattutto comunicativa) dello strumento ma ne considerano una versione più soft in termini di rimodulazione della macchina statale: il Reddito Minimo Garantito (RMG).

Il RMG è un programma universale e selettivo al tempo stesso, nel senso che è basato su regole uguali per tutti (non limitato ad alcune categorie di lavoratori come nella tradizione italiana), che subordinano la concessione del sussidio ad accertamenti su reddito e patrimonio di chi lo domanda. E’ un sistema oggi esistente, pur in forme molto diverse, in quasi tutti i paesi dell’Unione Europea (quando sentite che il Reddito di cittadinanza è presente ovunque tranne Italia e Grecia è al RMG che si fa riferimento). Il reddito minimo garantito dovrebbe così sostituire e riordinare molti schemi preesistenti, riducendo sprechi ed evitando la compresenza di tanti strumenti attivi. Rispetto all’UBI ha un costo immediato (riducendone la platea) ovviamente inferiore, il che lo rende più appetibile elettoralmente ma ha un grosso problema in termini di incentivi al lavoro nero, che in Italia è ancora più presente che altrove.

Ad ogni modo anche nella sua versione più “ufficiale”, quella proposta da Scott Santens -consigliere per l’Universal Income Project e fondatore del Basic Income Action — al World Economic Forum di Davos, il RMG è sempre previsto in “rimodulazione” — quando non in “sostituzione” — del welfare state: il reddito andrebbe a sostituire tutta una serie di agevolazioni fiscali che non risulterebbero più necessarie, come:

  • Deduzioni sugli interessi per il mutuo sulla casa
  • Aiuti per l’acquisto di alimenti
  • Sussidi al salario
  • Agevolazioni fiscali per i bambini
  • Assistenza una tantum per famiglie in difficoltà

Tutte misure che andrebbero a confluire nel reddito universale, conclude Santens.
Anche il RMG quindi è uno strumento che va, anche nel migliore dei casi, a eradicare e rimodulare una grandissima fetta dell’intervento statale nell’assistenza alle fasce più deboli della popolazione, partendo sempre da un presupposto che non è sempre chiaramente dibattuto: la ricchezza che viene distribuita tramite il Reddito di cittadinanza o minimo garantito non arriva dal nulla ma viene creata distruggendo un’altra ricchezza che veniva già distribuita ai cittadini, quella dei servizi e delle agevolazioni e assistenze indirette.

Un modo per calcolare quest’altra ricchezza è verificarne gli effetti sulla effettiva povertà. L’OECD ha provato a fare delle stime sommarie e a quanto pare gli effetti non sono proprio idilliaci: se in Italia il livello di povertà resterebbe inalterato con l’introduzione del Reddito Di Cittadinanza — e quindi con l’eliminazione delle politiche relative del welfare state, questo crescerebbe negli altri paesi. Il perché è presto detto: altrove le misure di sostegno alla povertà sono più robuste che qui da noi.

La struttura economica che determina la distribuzione del reddito

Assodato che le diseguaglianze in termini di opportunità e reddito sono un male per la società che lo Stato dovrebbe combattere e rifuggire, e che l’attuale sistema di mercato sta fallendo nel trovare un ottimale allocamento delle risorse, il reddito di cittadinanza è da configurare come una misura di redistribuzione della ricchezza che potremmo definire “estrema”: entra in atto a valle di quella che potremmo chiamare una “filiera” di creazione della ricchezza e prepotentemente dispone in maniera tranchant di una parte di ricchezza raccolta attraverso diversi sistemi di tassazione allocandone le quote direttamente ai cittadini in quantità molto simile fra loro, senza cioè tenere conto di una quantità di variabili sistemiche e personali che potrebbero variarne l’utilità. Tutto questo senza neppure addentrarci nelle considerazioni su un’a effettiva migliore efficacia di queste risorse da parte di uno Stato rispetto al singolo cittadino o viceversa.

Il premio nobel per l’economia del 2001 Joseph Stiglitz nell’aprile del 2014 ha fatto un’audizione di fronte alla Commissione Bilancio del Senato americano sul tema “Opportunity, Mobility, and Inequality in Today’s Economy”, durante la quale ha fatto le seguenti osservazioni:

  1. L’ineguaglianza è frutto di politiche — di cosa facciamo e cosa non facciamo. Le leggi dell’economia sono universali: il fatto che in alcuni paesi ci sia più o meno diseguaglianza e mobilità sociale non dipende dal fatto che seguano leggi economiche differenti. Ogni aspetto del nostro contesto economico, giudiziario e sociale va a contribuire alle nostre ineguaglianze[…]. In ogni contesto abbiamo compiuto decisioni che hanno aiutato la forbice tra i più ricchi e i più poveri ad allargarsi.
  2. Molta parte di tanta diseguaglianza non può essere giustificata come “meritata” in funzione del contributo sociale del top 1%. Se osserviamo questa élite vedremo che non corrispondono con chi ha portato le maggiori innovazioni che hanno trasformato la nostra società ed economia; […] sono coloro che hanno eccelso nelle rendite immobiliari, nell’appropriazione di beni, nel capire come ottenere una fetta maggiore della torta piuttosto che aumentarne il valore totale. […]
  3. L’idea che non ci si dovrebbe preoccupare della disuguaglianza perché tutti beneficeranno del “trickles down”, è stata ampiamente discreditata. […]
  4. Questa recessione — benché causata in grande misura dal settore finanziario a sua volta responsabile di gran parte della diseguaglianza presente — l’ha a sua volta peggiorata. 95% dei profitti dalla cosiddetta ripresa sono andati al top 1%.
  5. Non è vero che la nostra economia abbia bisogno di questa disuguaglianza per continuare a crescere. Uno dei malintesi più popolari è che i membri di questa élite siano creatori di posti di lavoro; e dar loro soldi vorrà dire creare più posti di lavoro. L’America è piena di giovani imprenditori distribuiti lungo tutto lo spettro del livello di reddito. Cosa crea il lavoro è la domanda: quando c’è domanda, le aziende Americane […] creano il lavoro che soddisfa la domanda. E sfortunatamente il nostro sistema distorto di fatto incentiva la distruzione di posti di lavoro per delocalizzarli. […]
  6. Paghiamo un prezzo alto per questa disuguaglianza, in termini di democrazia e natura della nostra società. […] Una grande disuguaglianza porta a minor crescita, maggior disagio sociale e quindi maggiore instabilità. […]
  7. La debolezza della nostra economia ha implicazioni importanti sul budget: i deficit di spesa degli ultimi anni sono un risultato di un’economia debole, non viceversa. […]
  8. Il ruolo attivo delle politiche governative nella creazione della diseguaglianza indica che c’è un barlume di speranza. Se le politiche hanno creato il problema, politiche possono possono invertire la rotta. Ci sono politiche che possono ridurre gli estremi delle diseguaglianze e aumentare le opportunità — permettendo al nostro Paese di essere all’altezza dei valori a cui aspira. Non c’è nessuna bacchetta magica, ma ci possono essere una serie di politiche che possono fare la differenza.

Ciò che Stiglitz sottolinea è che la diseguaglianza, per essere efficacemente combattuta, va affrontata non solo a valle redistribuendo in maniera radicale ed indiscriminata somme di denaro nella speranza che questo possa significare un miglioramento sistemico delle condizioni dei più poveri. Va affrontata prima, nella maniera in cui si plasma la società attraverso le politiche di creazione di lavoro, attraverso le politiche sociali e disincentivi economici.

Sempre Thomas Piketty ci ricorda come la diseguaglianza intesa come divario tra la grande concentrazione di ricchezze e redditi da capitale rispetto al resto della popolazione, è sempre esistita fino a toccare vette ineguagliate nel periodo precedente la Prima Guerra mondiale, per essere fortemente attenuata durante il resto del XX secolo grazie alla rivoluzione fiscale che in tutto l’occidente ha portato politiche redistributive e welfare, diseguaglianza che è tornata a crescere a partire dagli anni ’80 con il coincidere dello smantellamento del welfare state e l’avvento della terza fase del capitalismo: quella della finanza.
Politiche hanno plasmato la società nel passato come questa in cui ci troviamo nel presente, politiche andranno attuate per migliorare la struttura della società in futuro.

Il reddito di cittadinanza va a smantellare prima di tutto le ultime politiche che restavano a far da argine a questa dilagante diseguaglianza, ne prende i frutti a valle e li redistiribuisce ma la macchina che li ha creati in primo luogo resta intatta ed è difficile immaginare che si aggiusti da sola.

Il reddito minimo garantito ammortizza il proprio impatto ma resta sullo stesso impianto ideologico: la rimodulazione dell’intervento statale passa da trasferimenti di denaro e servizi mirati e classificati ad un più generico trasferimento di denaro tout-court.
L’idea forte alla base resta che il singolo cittadino possa disporre con maggiore efficacia dello Stato di quei soldi e che quindi sia meglio li riceva direttamente.
Ogni possibile ipotesi di RMG che vada un aggiunta sic et simpliciter del welfare state esistente non è mai stata presentata in quanto il costo sarebbe certamente insostenibile per qualsiasi governo contemporaneo.

Resta quindi l’ipotesi di un intervento redistributivo radicale unito a politiche che vadano a correggere la stortura a monte del processo e plasmare una società più eguale a partire dalle sue fondamenta, ma basta osservare brevemente il dibattito politico e culturale in Italia, come all’estero, per capire che qualsiasi schieramento politico dovesse arrivare al governo avrebbe a malapena capitale politico per attuare il primo, di sicuro non il secondo — ammesso che sia voluto ed inserito in programma, visto che al momento nessuno lo prevede.

Conclusioni

Ci ritroviamo quindi con quasi tutti gli schieramenti politici che insistono su diverse formulazioni dello stesso strumento di lotta alla povertà e alla diseguaglianza, rendendo così difficile incasellarlo all’interno dello spettro politico come strumento di destra o di sinistra, ma nella sostanza siamo a dibattere di misure che ancora una volta si rifanno in maniera devota ad una visione dello Stato che era stata bandiera di quella che abbiamo chiamato nei decenni passati la terza via:

L’era dello Stato assistenzialista è finita, è giunta l’era di uno stato minimale che si ritira dalle politiche sociali interventiste per lasciare fare al libero mercato.
Al termine di quella che è stata la più grande crisi economica dalla Grande depressione (per alcuni aspetti anche peggiore) nessuno si sarebbe mai più sognato di riportare in auge un concetto che con tanta efficacia e tanto velocemente si era dimostrato tragicamente sbagliato, abbiamo dato per morto e sepolto il filone Clinton-Blairiano e invece ci ritroviamo dopo vent’anni a discutere nuovamente come indebolire il welfare state, questa volta forse in modo definitivo.

Per parte nostra, siamo dei romantici che ancora si affidano ad una visione della politica e dello Stato che quel genio di Aaron Sorkin nel lontano 2000 mise in bocca al personaggio di West Wing Toby Ziegler, consigliere del Presidente degli Stati Uniti alla vigilia di un Discorso sullo Stato dell’Unione:

  • Bartlet: What’s on your mind?
  • Toby: “The era of big government is over”.
  • Bartlet: You want to cut the line?
  • Toby: I want to change the sentiment. We’re running away from ourselves. And I know we can score points that way — I was a principle architect of that campaign strategy right along with you, Josh. But we’re here now. Tomorrow night we do an immense thing. We have to say what we feel: that government, no matter what its failures in the past and in times to come, for that matter, government can be a place where people come together and where no one gets left behind. No one gets left behind. An instrument of good.

Per parte nostra crediamo che serva una proposta politica che sia in grado di interpretare nuovamente il Governo ed il suo ruolo nella stessa maniera: a prescindere dai fallimenti del passato e quelli che verranno in futuro, interpretarlo come uno strumento per operare nella società in maniera sistematica e non lasciarsi nessuno alle spalle.
Uno strumento per fare del bene, ma non per fare semplice carità.

Di quali misure andrebbero intraprese invece di un reddito di cittadinanza si potrebbe dibattere per ore. Lo stesso Stiglitz ha lavorato a lungo per delineare 21 politiche che vanno ad agire sulla distribuzione dei redditi sia prima che dopo l’intervento statale di tasse e sussidi. Alcune di queste sono dei grandi classici, come il supporto all’educazione — incluso il ciclo prescolastico per poter portare più donne nella forza lavoro, irrobustire il credito di imposta, includere maggiormente i lavoratori nella guida delle aziende, migliori regolamentazioni per i settori finanziari e speculativi, migliori e più efficaci leggi anti trust.
All’interno della raccolta “Ripensare il capitalismo” Mazzucato e Jacobs hanno editato e raccolto 10 diverse tesi approfondite su diversi temi che possono dare organicità e spunto a nuove discussioni su come modellare la macchina industriale e statale in maniera più produttiva, funzionale ed equa.
Sono solo due esempi, ma sono sufficienti a dire che le alternative ci sono, sono alla nostra portata e nessuna di esse vuole più inseguire il mito dello “Stato leggero”. Basta avere coraggio e sapere cosa si vuole fare con la macchina che ci si candida a guidare.

Originally published at Argo.

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