L’Italia e la complessità, un problema profondo

Federico Dolce
Centro Studi Argo
Published in
7 min readNov 11, 2017

Qualche anno fa uscì un report molto interessante dell’OECD intitolato “How Skills Are Used in the Workplace” e riportava i seguenti diagramma:

Questi due diagrammi riportavano due indicazioni importanti:

  • La correlazione fra lettura e la produttività nel lavoro
  • La carenza degli italiani in basic skills come lettura e scrittura.

Ma al di là di un punto di vista professionale e lavorativo questo tema è essenziale per lo sviluppo sociale e culturale del nostro paese: in Italia leggiamo (e scriviamo) poco e male. Le poche volte che lo facciamo ci rintaniamo in forme letteralmente riduttive: dall’uso scontato di Social network che prediligono forme ed espressioni brevi, d’impatto e ingannevoli, l’uso e abuso “Executive Summary” al posto di report approfonditi e completi composti da più di 10 pagine, l’uso continuo di slides nell’insegnamento che sempre più spesso finiscono con sostituire tout-court i testi di riferimento.

Abbiamo paura della complessità, adoriamo la semplicità e inseguiamo la semplificazione, rifiutiamo tutto ciò che ci richiede tempo, concentrazione, ragionamento. Questa è l’epoca della comunicazione istantanea, della messaggio semplificato, dei “key performance indicator”, dell’emozione in diretta e del “quick win”, della panacea di tutti i mali, del messaggio che conforta ed entusiasma. La complessità ci dà noia, quando invece essa è inesorabilmente presente in tutti gli aspetti della nostra vita.

Ma perché tutto questo?

Per ignoranza

Quanto più sono complessi i problemi, maggiore è il numero di cognizioni necessarie per capirli e risolverli. Quando non possediamo queste competenze la reazione è quella di banalizzare i problemi, ricondurli a stereotipi o anche negarli.

Qua purtroppo c’è molto da lavorare e poco tempo per farlo: gli indicatori sono abbastanza impietosi.

Ma spesso l’ignoranza non è solo deficit di skills cognitive, può manifestarsi anche come percezione dell’esistente e dei susseguenti pericoli, come hanno dimostrato le diverse ricerche della Ipsos sulla percezione dei rischi:

il pubblico fa continuo riferimento ai fatti ma spesso a guidarlo è la percezione di essi, che si basa su fondamenta di dati e nozioni molto traballanti.

O si può anche semplicemente parlare dell’istruzione in generale. I dati del rapporto Education at a Glance evidenziano tre principali sfide per il sistema d’istruzione italiano: invertire la
tendenza negativa nel finanziamento dell’istruzione, osservata negli ultimi anni; rinnovare il corpo docente attirando nuovi docenti più giovani e aumentare gli investimenti in programmi educativi che coinvolgano studenti con necessità didattiche diverse.

Le nozioni non sono lontanamente sufficienti da sole a cambiare la forma del pensiero ma i percorsi per apprenderle sono in genere una buona palestra, e una sufficiente specializzazione in un campo permette di approcciarvisi con un grado di confidenza tale da poterne evitare i clichè e gli stereotipi più abusati.
Le così dette soft skills invece sono qualcosa di vitale per potersi confrontare con successo in una realtà sfaccettata, ma il nostro sistema educativo non è ancora attrezzato per quello.

I numeri — a volte — mentono

La complessità richiede strumenti per gestirla e capirla. La quantificazione degli aspetti critici spesso permette di identificarne le dinamiche di evoluzione. Per questo abbiamo sviluppato i modelli matematici e statistici. Per questo stiamo lavorando moltissimo sui “big data”, sui modelli predittivi, sui cruscotti decisionali.

Ma i numeri sono solo numeri. Troppo spesso ci rifugiamo nella “oggettività dei numeri” per esorcizzare la complessità e semplificare il messaggio senza ricordare che i dati spesso necessitano di letture accurate. Inoltre “oggettivizzare” valutazioni che invece hanno moltissimi aspetti soggettivi e qualitativi permette di venderli come “dati di natura” per i quali non siamo responsabili mentre derivano quindi da un processo di cui qualcuno è autore e ne porta le responsabilità.

I numeri servono indubbiamente, ma sono numeri: non possono sostituire la capacità di lettura dei fenomeni e soprattutto degli scenari, il giudizio qualitativo.
L’analisi quantitativa senza un apporto iniziale e finale dell’approccio qualitativo semplicemente non porta da nessuna parte.
I computer possono funzionare tanto bene quanto le persone che li hanno programmati, allo stesso modo i dati possono essere tanto precisi quanto il metodo di raccolta e la loro umana ingegnerizzazione, e il loro uso può essere appropriato al supporto di una teso solo quanto coerente ed informato è lo scienziato che ha formulato la prima ipotesi.

La popolarità

Un altro motivo per rifuggire la complessità è quello di gestire la conversazione in base al consenso, che nel tempo dei social network e di Internet si quantifica con “likes” o coi sondaggi istantanei e banalizzati. Il media non aiuta in questo consenso.

Affrontare la complessità spesso richiede scontentare i propri interlocutori. Non tanto in termini di dibattito (dove piuttosto che convincere l’avversario si tenta di convincere chi eventualmente assiste) ma in termini di scarsa soddisfazione di chi si aspetta invece semplicità.

L’unicità non può esistere

Un limite alla capacità di astrazione di chi necessità semplicità si manifesta nella costante necessità di confronto trasposto alla propria condizione di qualsiasi problematica presentata:
Perché ciò che funziona in Giappone non può funzionare anche qua?”,
Se la Catalonia si dichiara indipendente cosa facciamo? La libera repubblica di Liguria?”,
L’omosessualità è oscena perché per me è insopportabile l’idea di baciare un altro uomo”.

La realtà complessa del mondo non può rientrare facilmente nelle categorie cognitive di chi prova ad affrontarla per stereotipi, men che meno le eccezioni e le singolarità di luoghi, costumi e persone che non rientrano in regole normalizzanti.
Un mondo semplice è un mondo simmetrico. Ed è anche un mondo che non esiste.

Il fallimento

Affrontare la complessità richiede la consapevolezza di poter sbagliare. Il fallimento nell’analisi è una cosa di cui non si dovrebbe aver paura, né di riconoscerlo o di assumersene la responsabilità. Purtroppo noi viviamo un tempo ed una società dove l’errore è una macchia indelebile, dove “l’aver ragione” è un elemento di qualificazione personale, dove siamo misurati e valutati su quante volte “vinciamo” in una discussione, dove la retorica spesso vuota e mistificatoria ha la meglio sul ragionamento.

Chiunque abbia famigliarità con le basi del processo di apprendimento e i principi dell’educazione e della crescita sa bene che è attraverso l’errore e il suo riconoscimento che maturano e si sviluppano personalità e competenze. Ma in Italia abbiamo costruito un ambiente ed un sistema che non ricompensa questo processo. E questo ha favorito una paura comune nel provare unita ad una totale diffidenza in chi ammette di aver sbagliato, risultando in un ambiente in cui tutti raccontano di fare tante cose, tutte bellissime e semplici e rivoluzionarie, ma in realtà nessuno fa granché.

Come accettare la complessità, come capirla, come sfruttarla

Il punto è quindi come vivere la complessità, come non averne paura, come affrontarla così da poterla gestire e dominare. Ovviamente non è semplice (sic!), soprattutto nel momento in cui dobbiamo intraprendere una via che paga pochissimo all’inizio e per gran parte del cammino, soprattutto in un Paese che ha fatto di tutto per mettere questo pensiero fuori dai giochi.

Riconoscere la differenza tra complicato e complesso: il primo consiste in un ostacolo, una difficoltà che può necessitare di essere affrontata e risolta come un problema, il secondo è un aspetto che va abbracciato e compreso nella sua interezza altrimenti diventa un problema.

La complessità va quindi studiata e compresa. Per farlo servono competenze, conoscenze ma soprattutto un’attitudine che spesso sottovalutiamo o ignoriamo: la capacità di leggere i segnali deboli e i trend di lungo periodo. La faticosa presa di coscienza della soggettività del proprio punto di osservazione e la capacità di fare un passo indietro e uno di lato. L’empatia necessaria per astrarsi dai propri panni e mettersi in quelli dell’avversario, o di un terzo punto di osservazione.

La consapevolezza che i problemi si affrontano sempre in modo organico e sistemico. Non bastano i pannicelli caldi o i placebo. Servono capacità di analisi e di strutturazione dei problemi. Servono approcci alla loro risoluzione in grado di modulare e combinare sia interventi evolutivi che altri più discontinui e radicali.

È certamente banale a questo punto dirlo, ma per gestire la complessità servono pazienza, pianificazione, coraggio, intelligenza, ancora pazienza, trasparenza e onestà intellettuale.
Se hai 60 secondi per risolvere un problema, spendi i primi 20 per capire il modo migliore per farlo.

It can scarcely be denied that the supreme goal of all theory is to make the irreducible basic elements as simple and as few as possible without having to surrender the adequate representation of a single datum of experience.
— Albert Einstein

Citazione spesso semplificata in:
Make things as simple as possible, but not simpler.

Originally published at Argo.

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