Alfonso Costafreda: la morte, o l’incomprensibile

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9 min readOct 31, 2017

di Andrea Baglione

Mi sembra inutile e malvagia come sempre, mi sembra il male primordiale di tutto ciò che esiste, l’irrisolto e l’incomprensibile, il nodo in cui tutto da tempo immemorabile è stretto e preso e che nessuno ha osato recidere.

Elias Canetti, Il libro contro la morte

Alfonso Costafreda nasce nel 1926 a Tárrega, in provincia di Lérida, e muore suicida a Ginevra — città dove ricopriva un ruolo diplomatico — nel 1974. Spesso incluso nella cosiddetta “Generazione del ‘50” e considerato, a suo tempo, uno dei membri fondamentali di questo gruppo poetico, Costafreda, forse proprio a causa della lontananza dalla Spagna, è stato presto dimenticato e tutt’oggi è, a nostro avviso, uno dei più grandi poeti spagnoli del Novecento meno studiati.

Alfonso Costafreda

Nuestra elegía è il titolo del suo primo volume di poesie pubblicato nel 1949 all’età di ventitré anni, un testo che sarà separato dal successivo, la raccolta poetica Compañera de hoy (1966), da diciassette anni di silenzio, interrotti solo dalla pubblicazione — nel 1951 presso la rivista “Laye” — di 8 poemas, sette dei quali, in un secondo momento, saranno inclusi dall’autore nel testo del 1966. Il libro di esordio, concepito in principio come un unico poema di oltre 600 versi e in seguito suddiviso in sei canti, si differenzia radicalmente dai due che seguiranno. Sebbene, infatti, la poesia che apre la raccolta del 1949 faccia emergere fin da subito l’atmosfera cupa e plumbea che avvolge il testo, rivelando l’inquietante presenza di un’entità maligna non specificata che sembra tenere in scacco e minacciare l’esistenza dell’uomo sulla terra, nelle pagine di questo primo libro il poeta lascia altrettanto spazio alla speranza, a un profondo vitalismo che si manifesta innanzitutto nella fusione panteistica dell’uomo con gli elementi della natura e nella lotta — dolorosa, ma allo stesso tempo energica e palpitante — per la vita. Le pulsioni e gli istinti primitivi ed elementari sono così cantati ed esaltati accanto alla viva e incontrovertibile presenza della natura, spesso rappresentata e incarnata dalla figura dell’albero, immagine centrale e ricorrente che, non a caso, risalta nella copertina del volume delle opere complete dell’autore. Come ha sottolineato il poeta Jaime Ferrán nella sua monografia dedicata a Costafreda, la struttura di Nuestra elegía si gioca tutta sull’alternarsi di luce e oscurità, vita e morte (1981: 38–39). La morte, tuttavia, è una presenza costante e minacciosa che si affaccia alle pagine del testo fin dal titolo dell’opera: se per un verso, infatti, la scelta della prima persona plurale, “Nuestra”, rimanda a un sentimento collettivo e a un tentativo di condivisione, il termine “elegía” rinvia inequivocabilmente a uno dei grandi protagonisti — per non dire l’unico vero protagonista — dell’opera dello scrittore catalano, la morte appunto. Il titolo del primo canto, inoltre, sembra l’ironico invito a una festa macabra, una festa alla quale, in fondo, ogni uomo non potrà esimersi dal partecipare: “La muerte distribuye sus participaciones” [La morte distribuisce le sue partecipazioni]. Ciononostante, sebbene la morte non si dimentichi di invitare nessuno al banchetto finale, la speranza, come si affermava poche righe sopra, non solo trova il suo spazio all’interno dell’opera, ma sembra addirittura avere la meglio sulla grande nemica. Una speranza che Costafreda affida interamente alla parola, al canto — non è casuale la presenza assidua degli uccelli, evidente metafora del canto poetico — e, dunque, alla poesia: di fronte a tutti gli ostacoli e al dolore che contrassegnano l’esistenza, la parola del poeta si erge come un baluardo e una fortezza inespugnabili e, al contempo, come una traccia che mai potrà essere cancellata. Così, se il titolo del quinto canto si rivela da questa prospettiva paradigmatico, “El peligro existe. El canto quedará” [Il pericolo esiste. Il canto rimarrà], la fede nella poesia viene ribadita nei versi finali della seconda poesia del medesimo canto: di fronte al pericolo e alla minaccia della fine, infatti — “Huracán de dolor sobre el mundo” [Uragano di dolore sul mondo] (1990: 81) –, il canto e la poesia si ergono come la torre più solida e sicura: “Después de la tormenta sólo quedará mi canto. / Mi canto erguido como torre” [Dopo la tormenta rimarrà solo il mio canto. / Il mio canto alto come una torre]. Il canto seguente, ultimo del libro e dal titolo emblematico “Los trigos son ciertos. Alejemos la muerte” [Il grano è certo. Allontaniamo la morte], non fa altro che corroborare e affermare questa fede necessaria e incrollabile, più forte della stessa morte: “Negamos que la muerte haya triunfado / mientras pueda llegar nuestra palabra / al corazón esperanzado de algún hombre” [Neghiamo che la morte abbia trionfato / fino a che la nostra parola possa giungere / al cuore speranzoso di qualche uomo] (1990: 87). Poesia, condivisione ed esaltazione dei sensi e dell’esistente sembrano quasi ribaltare, in ultimo, ciò che il titolo poteva lasciare presagire: l’elegia finale è rivolta alla morte stessa che, paradossalmente, si ritrova in modo inatteso a essere un’ulteriore partecipante al suo stesso banchetto, un banchetto in onore della “morte della morte”. Tuttavia, giova ripetere, la speranza del poeta lascia trasparire dubbi e insicurezze. Da questo punto di vista, paradigmatica è la meravigliosa poesia scritta in ricordo del padre, dove la morte appare come l’emblema e la rappresentazione dell’incomprensibile, di ciò che supera qualsiasi tentativo di ingabbiamento e spiegazione da parte della ragione e della logica di chi vive. Di fronte all’assenza e al silenzio del padre, al vuoto lasciato dalla sua scomparsa, il poeta infatti si chiede: “¿Qué es la muerte?” (1990: 41). E, se altrove la morte era interpretata quevedianamente come “vida continuamente asesinada” [vita continuamente assassinata], come “gran catedral de fieles” [grande cattedrale di fedeli] (1990: 45) o ancora come “la amarga soledad que está desierta” [l’amara e deserta solitudine] (1990: 42), i versi dedicati al padre si concludono nella più totale incertezza, nell’assoluta incomprensione dell’ultima e finale forma dell’esistenza, aprendo così il cammino al silenzio, all’abisso e alla sofferenza più cruda e radicale che, a partire da Compañera de hoy, segneranno la traiettoria esistenziale e poetica dello scrittore: “Yo te pregunto, padre, si son algo / los muertos, o si la muerte es sólo / una inmensa palabra que comprende / todo lo que no existe” [Io ti chiedo, padre, se i morti / sono qualcosa, o se la morte è solo / un’immensa parola che comprende / tutto ciò che non esiste] (1990: 41).

Compañera de hoy e Suicidios y otras muertes — ultima opera del poeta pubblicata postuma da Carlos Barral l’anno stesso della morte di Costafreda (1974) romperanno questo alternarsi di vita e morte a favore della seconda: le due raccolte saranno testimoni di un cambio di rotta esistenziale che si riverserà nella pagina e nei versi a seguito di un’amara presa di coscienza che Pere Rovira, nella sua introduzione al volume delle opere complete, vede prendere forma nel tema centrale che vertebra i due testi: “la insuficiencia de la palabra para vencer la insuficiencia de la vida” [l’insufficienza della parola per fare fronte all’insufficienza della vita] (1990: 14). Di fronte all’assurdo e all’incomprensibile che governano l’esistenza, di fronte alla morte dunque, la parola sembra lasciare spazio, a poco a poco, al vuoto e al silenzio. La forma stessa della poesia risente di questo scacco inesorabile: la voce collettiva lascia il posto all’individualità e all’intimità di una prima persona singolare ripiegata su di sé, le strofe si abbreviano riducendosi quasi al minimo indispensabile, qualsiasi elemento retorico o ornamentale è negato dalla concisione e dalla brevità più assolute. Paradigmatica, da questo punto di vista, è la poesia “Como una casa” di Compañera de hoy: la struttura, tre semplici strofe composte da due endecasillabi ciascuna e separate da uno spazio, appare, in perfetta continuità con il contenuto, freddamente calcolata, essenziale e concisa, sintomo di una impossibilità dell’espressione sempre più vicina al silenzio assoluto:

Como una casa grande y despoblada [Come una casa grande e disabitata]
se me ha llenado el corazón de frío. [mi si è riempito di freddo il cuore.]
La alegría y los sueños, la esperanza, [L’allegria e i sogni, la speranza,]
con las primeras hojas ya se han ido. [con le prime foglie sono svaniti.]
Acaso ha de volver la primavera, [Forse tornerà la primavera,]
no llegará su tiempo para el mío. [non giungerà per me il suo tempo]

Redon, Les origines, VIII, 1893

La parola lascia spazio al silenzio — “no puedo hablar con alegría” [non posso parlare con allegria] si legge nella poesia intitolata appunto “El silencio” (1990: 129) –, l’assurdo e l’incomprensibile annegano ogni possibilità di espressione indicando un unico cammino percorribile, quello che conduce al nulla e all’oblio; la scrittura si perde quindi nella vertigine dell’abisso: “Este libro no existe. / Páginas que abitaran absurdas el vacío. / ¿Son vida las palabras o van contra la vida?” [Questo libro non esiste. / Pagine che abiterebbero, assurde, il vuoto. / Son vita le parole, o van contro di essa?] (1990: 249). I limiti, la perdita e l’assenza contrassegnano questa nuova esperienza (anti)poetica e autodistruttiva: “Límites del amor, palabras/insuficientemente valiosas / en un desierto inacabable” [Limiti dell’amore, parole / non abbastanza preziose / in uno sterminato deserto] (1990: 103). Della alegría che chiudeva la prima raccolta più nulla è rimasto e, in un arido deserto dove ogni possibilità di espressione sembra negata, il suicidio sembra l’unica scappatoia possibile: un suicidio che, tuttavia — come testimonia la citazione di Antonin Artaud posta in esergo al terzo capitolo che dà il titolo all’ultima raccolta, Suicidios y otras muertes appunto –, non rivelerebbe un attaccamento alla morte quanto, piuttosto, “el apetito del no ser” [l’anelo del non essere], la volontà di ritornare a uno stadio anteriore alla vita, “un suicidio que nos hiciera regresar, pero al otro lado de la existencia, y no del lado de la muerte” [un suicidio che ci facesse tornare indietro, ma verso l’altra parte dell’esistenza, non dalla parte della morte] (1990: 207). Ecco che allora Costafreda instaura un dialogo con alcuni celebri poeti suicidi — Hart Crane, Cesare Pavese, Sylvia Plath e, in primis, il compianto amico Gabriel Ferrater –, sottolineando come, di fronte all’incomprensibile, l’unica via percorribile è quella dello sradicamento, del progressivo abbandono della speranza e, di conseguenza, della vita stessa; ora, “el dolor pesa más que la alegría” [il dolore pesa più dell’allegria] (1990: 159).

Così, in risposta all’interrogativo che il giovane Costafreda si poneva in seguito alla morte del padre chiedendosi appunto “¿Qué es la muerte?”, Compañera de hoy e Suicidios y otras muertes rivelano l’impossibilità di replica a una simile domanda, l’impossibilità di reagire all’incontrovertibile presenza — e minaccia — dell’assurdo e dell’incomprensibile. Le parole risuonano allora incerte, come annullate e avvolte da una densa coltre di negatività, spaesamento e smarrimento. Prevalgono l’incertezza, il dubbio radicale, l’angoscia più profonda nei confronti di ciò che non può essere compreso: “Nacer… morir…, nada preguntes. / Son simplemente dos sucesos. / En medio un mar tempestuoso. / Y esto es lo que sabemos” [Nascere… morire…, non chiedere nulla. / Sono semplicemente due accadimenti. / In mezzo, un mare in tempesta. / Questo è tutto ciò che sappiamo], recita la poesia “El mar” (1990: 137). E, di fronte a un destino ineluttabile e alla conseguente impossibilità di trovare — o costruire — un senso all’esistenza, i sogni e le speranze crollano sotto il peso dell’angoscia più profonda: “Nada sabemos, nunca conoceremos, / en el dolor presente o en el futuro ciego / solo hay algo que es cierto, cierto, cierto: / los sueños han perdido la batalla” [Non sappiamo niente, mai conosceremo, / nel dolore presente o nel futuro cieco / solo una cosa è certa, certa, certa: / i sogni hanno perso la battaglia] (1990: 167). Neppure la memoria sembra poter aiutare chi si è ormai rassegnato, accettando un destino ineluttabile: “No, no sé lo que quiero y lo que no quiero, / y en qué cerca de mí apoyarme podré, cuando / es la memoria ahora como un siervo ocioso… / No siento, no conozco, no recuerdo” [No, non so ciò che voglio e ciò che non voglio, / e su cosa possa appoggiarmi qui vicino, quando / la memoria è, come adesso, un servo ozioso] (1990: 185). I due versi che chiudono Suicidios y otras muertes, autentico libro-testamento, rivelano con una spietata lucidità come il “salto” verso il non-essere sia già stato compiuto: “Salí, así lo espero, / de una vida grotesca” [Sono fuggito, almeno spero, / da una vita grottesca] (1990: 311).

In questo arido deserto abitato solo da un assordante vuoto esistenziale, dall’assenza e dal silenzio, l’assurdo e l’incomprensibile divengono le due uniche realtà tangibili e affermabili: “El monte se levanta, se derrumba. / Sin sentido la tierra gira, gira. / Sigue la sombra tan profunda” [La montagna si eleva, crolla. / Senza un senso la terra gira, gira. / Regna l’ombra più profonda] (169).

Bibliografia

AMÉRY, Jean, Hand an sich legen. Diskurs über den Freitod (1976), trad. it. Levar la mano su di sé. Discorso sulla libera morte, Torino, Bollati Boringhieri, 1990

CAMUS, Albert, Le mythe de Sisyphe (1942), trad. it. Il mito di Sisifo, Firenze-Milano, Bompiani, 2017

COSTAFREDA, Alfonso, Poesía completa, Barcelona, Tusquets editores, 1990

FERRÁN, Jaime, Alfonso Costafreda, Madrid, Ediciones Júcar, 1981

MORELLI, Gabriele (a cura di), Poesia spagnola del Novecento. La Generazione del ’50, Firenze, Le Lettere, 2008

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