La lingua dell’altro

Pensare e ascoltare l’arabo passando dal portoghese

cerchi nell’acqua (R)
Cerchi nell'acqua

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di Marta Vidal, traduzione dal portoghese di Pierluigi Manchia
revisione dei termini arabi di Juan Manuel Castrillo

A marzo del 2016, Hasan Aldewachi, uno scienziato iracheno, viene espulso da un volo Easyjet perché il messaggio che scrive in arabo sul cellulare sembra sospetto agli altri passeggeri e viene denunciato alla polizia. Nell’ottobre dello stesso anno, Khairuldeen Mahzoomi viene obbligato a lasciare un aereo della Southeast Airlines e interrogato per ore, per aver parlato al telefono in arabo e aver concluso la chiamata con l’espressione insh’Allah.

Se gli altri passeggeri del volo di Hasan e Khairuldeen parlassero arabo, saprebbero che il messaggio che il primo scriveva avvisava la famiglia del ritardo del volo, e che insh’Allah, “se deus quiser” in portoghese [“se dio vuole” in italiano Ndt], è una delle espressioni più comuni della lingua araba, usata tanto da musulmani quanto da cristiani per significare speranza. Ma la lingua dell’altro, sebbene ci sia completamente sconosciuta, viene immediatamente interpretata come minaccia e denunciata come pericolo. Hasan e Khairuldeen vengono scortati dalla polizia fuori dall’aereo e interrogati, sospettati soltanto per il crimine di parlare arabo.

Cos’è che fa in modo che una lingua sconosciuta sia immediatamente associata al pericolo e alla violenza? Cosa rende l’arabo una lingua ridotta a stereotipi e preconcetti, come se fosse parlata soltanto da terroristi pronti a far saltare per aria il prossimo aereo o silenziata da donne velate e sottomesse?

Insh’Allah è una delle espressioni più comuni della lingua araba, usata tanto da musulmani quanto da cristiani per significare speranza. Ma la lingua dell’altro, sebbene ci sia completamente sconosciuta, viene immediatamente interpretata come minaccia e denunciata come pericolo.

Prima di iniziare a studiare arabo ero affascinata dai segni misteriosi dell’alfabeto, così belli, trasformati in un’arte perfezionata durante tutti questi secoli. L’eleganza della calligrafia araba mi rapiva in una maniera che risultava difficile spiegare. L’arabo era la lingua degli incredibili racconti delle Mille e una notte, della bellissima poesia di Mahmoud Darwish e delle canzoni di Umm Kulthum che mi riempivano le orecchie di una dolce malinconia, e che seppur inintelligibile ricordava il fado. Quando iniziai ad imparare l’alfabeto arabo, i segni che prima erano un’incognita iniziarono ad avere senso, e sentii lo stesso entusiasmo di chi risolve un enigma, e di chi scopre un nuovo e affascinante mondo linguistico. Scoprii non soltanto la perfezione, la sfida e il grado di astrazione della grammatica araba, ma anche la bellezza di alcune parole ed espressioni, che venne accompagnata dalla sorpresa di scoprire parole in comune con il portoghese.

Una donna siriana, rifugiata in Turchia, mi accolse nel suo minuscolo appartamento dicendo che se non c’era abbastanza spazio nel soggiorno mi sarei potuta stendere dentro ai suoi occhi.

Lentamente, iniziai a imparare le particolarità della lingua e la forma in cui la si vive nel mondo arabo. Appresi che l’arabo ha più di un vocabolo per “amare” (حب و عشق) e che dipende dall’intensità del sentimento, e che si dice “seppelliscimi” ( يقبرني), quando si ama tanto una persona fino al punto che sarebbe insopportabile vivere senza di essa.

Marrakech, foto dell’autrice.

Sono stata accolta, in diversi paesi, come habibi “mia amata” ( حبيبتي), dal Marocco al Libano, sempre con un’ospitalità toccante. Sono stata “benvenuta ai miei occhi” (أهلا و سهلا في عيوني) e sono stata “luce” ( نورتي). Una donna siriana, rifugiata in Turchia, mi accolse nel suo minuscolo appartamento dicendo che se non c’era abbastanza spazio nel soggiorno mi sarei potuta stendere dentro ai suoi occhi.

Degli amici di Aleppo mi insegnarono a chiedere “qual è il tuo colore?” (شلونك), per dire come stai, e scoprii che il mio colore è “come il tuo colore” (مثل لونك).

Imparare l’arabo è anche imparare a benedire la mano del prossimo (يسلم ايدك) per dire grazie, e sapere che quando ho fame (عصافير بطني تزقزق) “i passeri dentro la mia pancia garriscono”. Significa imparare che ciò che si dice con enfasi è moltiplicato per mille, che sia mille volte grazie, mille volte prego o mille volte benvenuta, oppure è qualcosa che “mi arriva fin sopra la testa” (راسي على).

Ma l’arabo non è solo dolcezza e ospitalità, e bisogna, chiaramente, imparare anche le parolacce. È saper dire “che una vagina t’ingoi” (كس يبلعك) all’idiota che ti sta irritando, e poter capire cosa sta urlando il tassista che ha cercato d’ingannarti per poter rispondere a tono, chiamandolo “cane” (يا كلب) o “figlio d’una scarpa”. Imparai anche le infinite varianti locali, e che le espressioni usate in un paese o in una regione possono essere recepite con perplessità in altri luoghi. In Tunisia, per esempio, non si ringrazia tanto con il “grazie” dell’arabo standard quanto con l’espressione “la tua vita” (عيشك). Le differenze tra l’arabo moderno standard, usato nella scrittura e nei discorsi formali, e l’arabo parlato sono innumerevoli, così come le varianti regionali che rendono l’apprendimento dell’arabo una vera sfida.

La lettera corrispondente alla ‘t’ nell’alfabeto romano, all’ingresso di una casa in Palestina. Foto dell’autrice.

Ma una delle più grandi sorprese è stato scoprire che l’arabo è più vicino di quanto sembri. Quando mi misi a enumerare le parole portoghesi di origine araba: azeite, açúcar, tâmara, açafrão, alface, alecrim, alfarroba, limão, ecc. [olio, zucchero, dattero, lattuga, rosmarino, limone], un amico palestinese mi rispose divertito che, con tante parole commestibili in comune, se mai avesse visitato il Portogallo era sicuro che non avrebbe patito la fame. E io risposi: oxalá que venhas [speriamo che tu venga, Ndt].

Insh’Allah (أن شاء الله), quest’espressione così comune in arabo, che pronunciata da Khairuldeen Makhzoomi su un aereo è stata sufficiente per sollevare sospetti di terrorismo, fu adottata dal portoghese e dallo spagnolo, oxalá e ojalá, per esprimere speranza, dire “se dio vuole”, “spero di sì”. E mentre condividiamo la speranza, la lingua dell’altro diventa meno strana, più vicina, più nostra.

Alcuni anni fa, durante un viaggio attraverso il nord del Marocco, passai per la piccola città di Arzila, che i portoghesi occuparono tra il XV e XVI secolo. Mariam, una donna del posto con cui strinsi amicizia, mi fece da guida attraverso la piccola città bianca con porte e finestre azzurre orientate verso il mare, e mi mostrò la fortezza della città costruita dai portoghesi durante l’occupazione. Nonostante la presenza portoghese non sia per me motivo di orgoglio - grazie anche alla lettura dell’ultimo libro della scrittrice marocchina Laila Lalami, Memorie di uno schiavo, che descrive alcuni episodi della violenza coloniale portoghese e del traffico di schiavi del nordafrica — Mariam mi disse che i miei antenati erano li, in quella muraglia, in quella città bianca e azzurra, e che i suoi antenati erano in Portogallo, dove ancora esistono numerose tracce della presenza araba. Toccammo la muraglia coi palmi delle mani e ci sorridemmo a vicenda. In quel momento smisi di sapere dove finisce il “noi” e dove comincia “l’altro”. Non credo importi. In fondo, c’è un solo “noi”, e posso fare della lingua dell’altro la mia lingua.

In fondo, c’è un solo “noi”, e posso fare della lingua dell’altro la mia lingua.

Marta Vidal: giornalista, lavora per diverse ONG soprattutto in Medio Oriente. Si interessa di questioni di giustizia sociale, diritti umani, e delle intersezioni tra arte, politica e altre forme di resistenza. Este lugar não existe è il suo blog personale (in portoghese).

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