Resistere alla comprensione: Leopoldo María Panero e il linguaggio psicologico

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8 min readOct 16, 2018

La fuga dalle diagnosi (e dall’etichetta di poeta folle)

di Santiago Navarro, traduzione di Pierluigi Manchia

Leopoldo María Panero nel 2011 (José Ramón Vega Gonzalez)

Intervistatore: Leopoldo non è un matto, ma sa speculare bene con la follia. È un uomo mal fatto. Sta dentro la realtà e la maneggia come vuole. (…) Qui al manicomio è stato rispettato come soggetto e non come persona illuminante. Mette in piedi un gioco perfettamente lucido e razionale. Ha lo speciale incanto del matto che allo stesso tempo non lo è. È un personaggio curioso. Uno psicopatico sveglio, come tutti, con fascino e arte, e si è costruito una personalità perfettamente studiata.
Panero: Come diceva Cavalcanti: I’ vo come colui ch’è fuor di vita,/che pare, a chi lo sguarda,ch’omo sia/ fatto di rame o di pietra o di legno,/che si conduca sol per maestria/ e porti ne lo core una ferita/ che sia, com’egli è morto, aperto segno.
Intervistatore: Panero non parli in italiano ché gli spettatori non capiscono.

Quando dal campo psicologico si pretende di dire qualcosa sull’ambito letterario, spesso al lettore conviene sospettare fin da subito. Non esistono forse testi più pretenziosi e vacui di quasi tutti quelli nei quali vediamo lo scrittore-psi che cerca di catturare l’anima sintetizzata dell’autore attraverso gli strumenti grezzi della psicologia o della psichiatria. In generale, lo psichiatra, psicologo o psicoanalista che si dichiara appassionato di letteratura manovra con la vita e l’opera dello scrittore assegnandogli, infine, un certo carattere psicologico, un certo disturbo o malattia mentale, che col presunto valore di causa verrebbe a spiegare tutta l’opera. Ah, Il goffo linguaggio psicologico. In questo campo si possono trovare fiumi di immondizia psicologica su Sade, Kafka o Pessoa che disegnano quel territorio minato di luoghi comuni che si è soliti chiamare arte e follia, e si potrebbe gettare il tutto in un contenitore con l’etichetta: psicologia applicata. Può darsi che a portare questa operazione all’assurdo sia stato Krafft-Ebbing che verso la fine del XIX secolo, a partire dall’opera e la biografía di Leopold von Sacher-Masoch, all’epoca ancora in vita, elaborò la figura del masochista. Secondo queste spiegazioni, la dimensione letteraria de La venere in pelliccia passa in secondo piano, giacché non si tratterebbe tanto della creazione letteraria di uno scrittore, ma dell’inevitabile conseguenza di una patologia mentale.

Lo scrittore spagnolo Leopoldo María Panero (Astorga, 1948 — Las Palmas, 2014), o meglio, la sua figura, il suo personaggio, si presta in modo particolarmente efficace a questi giochi psicologici. Sebbene sia autore di più di 30 raccolte poetiche, oltre a racconti, traduzioni, saggi e articoli di critica, sono poche le parole con cui lo si qualifica solitamente: folle, drogato, alcolizzato, psicotico, delirante, schizofrenico. Marchi che gli furono imposti fin da giovane e come un palinsesto gli si sono andati apponendo durante tutta la vita; marchi che hanno dato adito a una riduzione psicopatologizzante della sua vita e della sua opera.

Nel 1968, in seguito a un rifiuto amoroso, Leopoldo María tenta il suicidio. È in questo stesso anno che, dalla reclusione, pubblica la sua prima raccolta En el camino de Swann, che gli vale l’inclusione nel 1970 nell’antologia Nueve novísimos poetas españoles curata dal critico catalano Josep Maria Castellet, che pretendeva di immortalare l’apparizione di nove “novissimi” scrittori che rompevano con i canoni e le tradizioni della letteratura spagnola. Così, a ventidue anni possedeva già i due elementi che l’avrebbero accompagnato per il resto della vita: la scrittura che lo legava a un certo pubblico di lettori e all’ambito letterario, e gli interventi della psichiatria che sarebbero arrivati sotto forma di diagnosi, psicofarmaci, elettroshock e, fondamentalmente, sotto forma di reclusione per gran parte della sua vita in manicomi, dei quali diceva di poter fare da guida turistica.

Resti di cibo disegnano la sagoma
del manicomio
ed ecco che esce un uomo
a raccogliere le feci.
Ecco gli uomini che la vita ha masticato.
La morte, l’unica che non mastica

scriveva Panero dopo più di vent’anni di esperienza nei manicomi.

Ne El Desencanto (1976), documentario sulla crisi familiare succeduta alla scomparsa di suo padre — il poeta Leopoldo Panero (1906–1962) — , parlando del suo primo ricovero, l’autore dice alla madre: «in occasione di un mio tentativo di suicidio degno di una pantomima […] per evitare di provare a comprendere le ragioni che mi avevano spinto a farlo, invece di chiedermi spiegazioni e provare a porre rimedio alla situazione alla radice, decidesti di mettermi in un sanatorio in cui sono stato molto male». A sua madre era stato detto: «il problema non è il tentativo di suicidio, il peggio è che si droga» e le era stato raccomandato di rinchiuderlo in una clinica psichiatrica, non si sa se per il tentativo di suicidio, o perché fumava marijuana. La madre entra nella discussione: «Non era solo la droga, ma anche il fatto che c’erano dei medici probabilmente disposti a sfilarmi quattrini che mi parlavano di nevrosi depressiva, parole che io non capivo troppo bene». Ecco che la medicina appare e offre la comprensione necessaria per prendere decisioni su una vita.

Di recente, la psicoanalista uruguaiana Raquel Capurro ha affermato che «se qualcosa di folle e provocatorio entrò in gioco nella reazione di fronte alla delusione amorosa, l’accoglienza che gli fu riservata fece in modo che […] in quel momento si operasse un cambio di registro dell’esperienza nel momento in cui — mediante diagnosi — la si legge come manifestazione di una malattia mentale». Questo cambio di carreggiata, dall’esperienza soggettiva alla dimensione medica, dalla letteratura alla psicopatologia, comporta una determinata comprensione di Panero. Comprensione di ciò che si offre come incomprensibile, e che ha avuto i suoi effetti. Panero resisterà insistentemente a questa operazione attraverso la sua scrittura e le sue apparizioni pubbliche.

Grande lettore di Freud e Lacan, mentre a Mario Bunge e simili — molto presenti in Spagna — la psicanalisi serviva come bersaglio di critiche su cui fondare la propria carriera accademica — Leopoldo María si serviva di una certa psicanalisi come difesa dal positivismo biologico imperante che veniva applicato sul suo corpo. Deleuze, Foucault, Derrida, sono alcuni degli altri nomi-arma di Panero, che li utilizza tanto nelle discussioni quotidiane col personale del manicomio come nelle sue irruzioni pubbliche.

In queste irruzioni denuncerà le contenzioni a letto solo perché aveva «un pensiero strano», e l’attitudine degli psichiatri: «nello studio privato, clienti, in manicomio peggio che colpevoli». Scontento del trattamento che lo Stato riserva alla follia, e del trattamento che la critica letteraria psicoanalitica, mantiene una posizione che pretende di riaffermare la differenza. «Siamo diversi, sì, siamo diversi. Siamo davvero diversi, radicalmente diversi, felicemente diversi. […] L’homo naturalis nulla può, dato che è soltanto schiavo della sua apparenza», scriveva dal manicomio nei suoi articoli di antipsichiatria pubblicati sulla rivista ABC.

Leopoldo María Panero nel 1970 (César Malet)

Torniamo all’epigrafe. Di fronte a un Panero che racconta la sua esperienza, ma che fondamentalmente non fa che parlare di letteratura, il letterato Sánchez Dragó decide di leggere, in diretta televisiva, ciò che uno degli psichiatri dell’intervistato ha detto su di lui. Che diritto ha uno psichiatra di parlare così liberamente dei suoi pazienti? E che diritto ha l’intervistatore a rendere pubbliche queste parole? Panero avrebbe potuto rispondere muovendosi su questa linea argomentativa, ma non avrebbe fatto altro che insistere su una lettura psichiatrica di se stesso. Invece risponde citando Cavalcanti in italiano, ritornando al suo spazio: la letteratura. E Sánchez Dragó si dispera di fronte alla possibilità che gli spettatori non capiscano l’italiano.

Che strada prendere, quindi, di fronte a Panero? Raquel Capurro nel suo ultimo libro ci mostra una terza possibilità: «Né una psicografia, né una storia clinica giustapposte all’opera sarebbero una buona strada. Nessuno potrà dire la sua esperienza meglio di come l’ha scritta lo stesso Leopoldo María Panero. Il nostro tentativo sarà quello di circoscrivere certi passaggi importanti della sua vita e leggere come, gli avvenimenti biografici — la sua esperienza — vengano trasformati in scrittura che interpreta e allo stesso tempo mette in discussione le letture psichiatriche e giuridiche che le sono state imposte». L’autrice, così, riesce a sfuggire alla biografia (ai fatti), alla psicologia applicata (cioè le caratteristiche dello scrittore) e anche alla critica letteraria perché «la stessa esperienza del poeta, la sua follia con le sue vicissitudini e sfumature, non resta imbrigliata lì, come lui stesso reclama».

Il poeta si oppone ad essere catturato nella burocratica lingua della psicologia. Panero è irriducibile a una diagnosi, e perfino alla figura del poeta folle. «Non mi piace fare la parte del matto da nessuna parte» afferma disgustato in una delle interviste che lo interrogavano a proposito delle sue apparizioni sul grande schermo. Preferisce presentarsi attraverso le poesie, che mitraglia a raffica in tutte le interviste che si possono trovare su YouTube. In Autopsia, si presenta così:

Eccomi qui. Leopoldo María Panero
figlio di un padre ubriaco
e fratello di un suicida
inseguito dagli uccelli e dai ricordi
che mi tendono agguato ogni mattina
nascosti tra i cespugli
gridando affinché esaurisca la memoria
e il ricordo diventi blu, e si lamenti
pregando al nulla perché muoia.

Forse l’operazione alla quale oppone resistenza Panero con la sua scrittura non è altro che una delle diverse forme in cui una produzione estetica può essere denigrata attraverso una comprensione frettolosa, una forma in cui la psicologia è la regola con la quale si addomestica l’estraneo, il diverso, rendendolo in tal modo inerte. Questa comprensione psichica avrebbe certi effetti peculiari, dato che perfino l’istanza autoriale sembra rimanere in secondo piano: non importerebbe tanto il poeta nella sua produzione, quanto la patologia di cui sarebbe portatore, causa ultima dell’eccezionalità della sua opera.

Nel suo seminario del 1958, Jacques Lacan avvertiva gli psicoanalisti del fatto che che i pericoli emergono proprio nel momento in cui credono di comprendere. Ma forse non basta l’essere estraneo al mondo della psicologia per scampare a questi pericoli della comprensione. Non è forse vero che vediamo Sánchez Dragó disperato per comprendere Panero? E ancor di più per fare in modo che lo stesso Panero acconsenta a questa comprensione. Forse ogni applicazione di un apparato comprensivo, sia a una persona, a un paesaggio o a un testo, meriterebbe questo avvertimento. Si potrà rivolgere lo stesso avvertimento a chi si dedica, non tanto a scrivere letteratura, quanto dei suoi dintorni accademici? In tutti i campi, forse, troviamo figure di esplicatori.

È possibile che nel suo racconto Il rancore e le nuvole Antonio Tabucchi ci mostri le strade del pensiero che percorrono gli esplicatori letterari:

Ma forse quel poeta dalla vena elegantemente malinconica era davvero inconsapevole: era a suo modo un signorino, aveva scritto quelle parole senza capirne il significato, credendole misteriose e provenienti da chissà quali profondità dello spazio cosmico. E invece esse non avevano nessun mistero per lui che le leggeva, erano chiare come l’acqua, sentiva di possederne la chiave, poteva afferrarle e tenerle tutte nel palmo della mano, giocare con loro come con le lettere di legno di un alfabeto infantile […] Il vero poeta era lui, lo sentiva.

Nel 1966 Susan Sontag lanció il suo saggio-manifesto Contro l’interpretazione, argomentando che il rischio di avvicinarsi alle opere d’arte con l’impulso della comprensione, è quello di sostituire l’opera con la sua interpretazione. Questa posizione ha avuto, di certo, i suoi effetti. E nonostante tutto, quando l’apparenza dell’artista gode di una certa stravaganza, quando i suoi comportamenti vanno oltre il pittoresco — Panero va in bagno a urinare nel bel mezzo di un’intervista televisiva, non prima di aver detto che è la medicazione che gli provoca incontinenza urinaria; quando l’homo normalis non appare neanche lontanamente, il linguaggio psicologico rientra in gioco col suo rullo compressore per spiegare tutto quanto.

L’intervista di Fernando
Sánchez Dragó a Leopoldo María Panero per il programma “Negro sobre blanco”, TVE (1999), da cui è tratta la citazione in esergo.

Santiago Navarro è psicologo, docente presso la Universidad de la República in Uruguay. Esercita la psicoanalisi a Montevideo.

Le citazioni sono tratte da:
A. Tabucchi, 1997 (1985), Piccoli Equivoci senza importanza, Feltrinelli, Milano

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