Come si scrive un’isola?

Savina Dolores Massa medita sulla Sardegna e la sua letteratura

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Cerchi nell'acqua
7 min readSep 18, 2017

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Io sono quello che faccio con quello che gli altri hanno fatto di me.

Jean Paul Sartre

Per poterci avvicinare a comprendere chi è la Letteratura sarda è indispensabile ascoltare il linguaggio delle pietre che popolano una terra, i colori che la dipingono, le innumerevoli invasioni guerresche dai tempi dei tempi che hanno reso il sangue dei sardi una moltitudine di idiomi, posture, metamorfosi, stupori e infine un enigma finale nell’unicità riflessa nel proprio canto letterario.

La Letteratura sarda è dunque un affollamento di difficile interpretazione: sfugge alle cornici convenzionali, anzi le disdegna. Chi vive dentro un’isola può comprendere meglio un simile concetto: c’è già un mare, benché magnifico, a imprigionarci come filo spinato. Lo capisce meglio uno scrittore, nel suo pulsare di fuga attraverso l’immaginazione, quanto nell’accanimento verso una memoria salvifica.

Molti scrittori sardi abbandonano l’isola, chi resta fatica di più: solo. La disperazione resta identica in entrambi i casi: dovunque si voglia portare il corpo, dall’isola non si sfugge. Difficilmente l’opera di uno scrittore sardo sa rappresentare la felicità. Allo stesso modo quella di un musicista o di un pittore o scultore. Il comune denominatore è la contraddizione su chi siamo, e va affrontata, sia fuggendo che restando.

L’innominabile solitudine delle isole? Basterebbe guardarci bene gli occhi per snudarla. Quando non è solitudine è ghiaccio di nostalgia. Non solo per gli artisti. Durante la Prima Guerra Mondiale, i soldati sardi spediti nel nord Italia morivano a frotte di dolore all’anima.

Quest’Isola ci è dannazione quanto benedizione. E quando ne scriviamo stupiamo i lettori per la nostra “differenza” e anche per uno strano linguaggio, meticciato di lingue prettamente sarde più una grammatica italiana alla quale fare riverenze: accade. Non sempre.

Ogni scrittore sardo è solo anche in questo: quando può farlo scrive arrogantemente libero. Non tutti, ma la maggioranza, io credo di sì. Tale “arroganza” pare un proclama: “Non mi asservirai mai più.” Non è arroganza, è necessità.

Necessita di scavare memoria non prona, la Letteratura sarda, e identità da mostrare come uno schiaffo.
Il nostro passato è una sorta di bozzolo dal quale liberarsi ostinandosi però a tenerne il sapore in bocca.

Occorre determinazione per diventare farfalle, evitando che gran parte della Letteratura sarda giunga a produrre noia se, in sostanza, si parla solamente di se stessi, impediti a quel salto di pensiero universale che dovrebbe essere la scrittura.

In pratica, a parte alcune eccezioni, si è proseguito nella forma del servilismo verso la Cultura italiana, stando al posto nostro bassa la testa, composti dentro un recinto di magie e fate e accabadore che, certo è vero, appartengono alla nostra storia o leggenda di isola, ma che sembrano negare un presente da narrare. Infinito. L’oggi dopo lo ieri in un nuovo accadere.

Occorre specchiarci, da soli o l’un l’altro, noi scrittori, perché altrimenti la Letteratura sarda diventerà come i nostri Nuraghi: pietre in consunzione.

Un ieri ci ha plasmato, un oggi ci ha resi liberi ma tale stato l’abbiamo taciuto, per pudore? Per riserbo? Diffidenza, paura. Per favore non mi toccare, ti sto accontentando. Come nei secoli passati. Non lo so. Occorre specchiarci, da soli o l’un l’altro, noi scrittori, perché altrimenti la Letteratura sarda diventerà come i nostri Nuraghi: pietre in consunzione. Sacrario. E noi tutti narratori nativi di Sardegna potremo proseguire ad ammirare asfodeli: la pianta più citata nella nostra espressione letteraria. Esiste una flora vastissima nell’isola. No. Gli asfodeli.

Quando un importante editore nazionale chiese la pubblicazione di un mio romanzo, ne proposi uno già pronto ambientato tra Messico, Gibilterra e un poco in giro per il mondo. No, fu la risposta, Deve essere ambientato in Sardegna. Ne avevo un altro in stesura, ambientato nell’isola. L’avrei concluso per tempo. Ma dissi, No.

Pare tutto una sciocchezza, eppure questo episodio esplica il profondo sbaglio — in complicità sarda — avvenuto fino ad ora.

Una faccenda è la Storia, un’altra la sua trasformazione in patetico folklore.

Sta dunque agli scrittori riflettere, non sulle eventuali e desiderate vendite di un nostro libro, ma sull’onestà di essere perfettamente simili agli altri nel mondo: con le opportunità al variare. Poi, sia chiaro, questo è il mio punto di vista sulla Letteratura tutta, racchiusa nella bellissima frase di Saramago: “Lo scrittore ha il diritto di inventare.”

Rimarco: se ne ho voglia, io in Sardegna ci metto i coccodrilli, che di asfodelo vivo non ne lasciano neppure la traccia. E ben gli sta, agli asfodeli, quanto ai campanacci delle pecore o ai tessuti in orbace. Una faccenda è la Storia, un’altra la sua trasformazione in patetico folklore.

Un amico scrittore mi disse una volta, Ma frègatene, cita qualcosa dell’isola e poi scrivi quello che vuoi.
Ci rimasi male. Sentii sui nervi una folata di induzione alla prostituzione. Sul cervello una carezza come si fa a un agnellino prima di essere sgozzato a Pasqua. Il mio “orgoglio sardo”, se necessario mostrarlo, vorrei esprimerlo cambiandomi. Posso certo ambientare ogni mia storia nell’isola (Marquez e Pamuk — per citarne due — insegnano con Macondo e Istanbul), ma con una grande attenzione ai confini da saltare, alle altrui anime lontane, alla nostra non migliore di quella di un disperato a Tokio. Il linguaggio universale: questo desidero, denudato da una sottile alterigia che in fondo colpisce i sardi, giustificata o meno. Quell’alterigia è sempre servitù.

Chi ha orrore di perdere la propria identità, artigliandosi ad essa, l’ha già perduta.

Di un’isola, in questo caso la Sardegna, si scriva evitando di cadere nel tranello di come la si vorrebbe vedere noi o per come questa terra è nell’immaginario collettivo.

Sfatare quando si può. Smetterla di incatenare agli incantesimi: è vero li sappiamo fare. Sappiamo anche fare altro.

Lo scrittore sardo ha il dovere morale di non rimestare furbescamente nell’idea stereotipata di Sardegna che tanto successo ha riscosso e riscuote. Mentire al lettore per proprio tornaconto è quanto di più disonesto possa fare chi possiede l’arma della penna.

Chi sono le donne e gli uomini che portano in romanzo la Sardegna. L’Isola conta un numero sorprendente di scrittori. Gli argomenti sono spesso ripetitivi: dalla Storia ai Miti; dalla Memoria tramandata dai propri avi alla bellezza del territorio. Su quest’ultimo aspetto vorrei soffermarmi.

La Sardegna è indiscutibilmente bella disincantata in mezzo al mare. Lo è in ogni suo anfratto, profumo ammaliatore, canyon o palude. Mi spingo a dire che ogni angolo di mondo tanto declamato, nell’isola è presente, pur se in scala ridotta. L’Isola è piccola, quasi spopolata. Le due o tre grandi città presenti possono essere paragonabili a un viale di Milano. Il resto è silenzio e, spesso, vento. Noi siamo abituati ormai a stare principalmente con noi stessi. Percorrere 100 km. con il desiderio di incontrare altri volti ci è fatica. Andiamo. Spesso no. Facciamo restringere ulteriormente il cosmo a noi destinato. Non è forse un destino dove nascere? Una buona o cattiva sorte? Anche per chi scrive. Determina tutto. Per quanto tempo può salvarti un asfodelo? Quanto, se negli anni non sei stato capace di trasformarlo in un grattacielo di vetro o in una tigre orba?

Necessità. Di essere grati alla fantasia che ti allontana da una geografia perennemente uguale (quella raccontata in tanti libri — meglio dire guide turistiche — da chi non sa il profondo o si accontenta di dire quanto chiesto).

Si potrebbe impazzire nell’osservare a vita l’asfodelo lì ogni anno in fioritura nel medesimo punto, sempre sempre. Oppure no.

Asphodelus Microcarpus in fiore. Presenza infestante in gran parte delle rappresentazioni letterarie dell’isola.

Esiste in Sardegna il detto Su Connottu, Il Conosciuto, che tanto rassicura le radici della propria esistenza. Invece io sono convinta che le radici debbano seguire un uomo qualunque sul proprio cammino. Ancora di più uno scrittore, benché possa aver scelto di scrutare il mondo da una finestra sempre aperta sulla medesima parete. Qualunque sia la scelta, noto nell’arte del raccontare degli scrittori miei conterranei contemporanei — e io con loro — una atavica malinconia senza ritorno. Abbiamo imparato un poco a dissimularla allo straniero, ma tra noi la riconosciamo a colpo d’occhio, tacendocela. Eppure è bella, pompa il pensiero, lo assorda di immagini e parole di altri che non incontreremo mai. Usiamo le mani per plasmare storie, in una solitudine senza invasioni. Si va altrove senza muovere un passo, è praticamente istintivo lasciare alla scrittura l’abbondanza di parole difficili da raccontare al deserto. Si fa un dono per generosità e per salvarsi. Questo non significa essere tutti dei bravi scrittori, ma io ammiro la buona volontà ricordando e ricordandomi che i sardi non sono tutti uguali come spesso si crede. Quindi neppure gli scrittori, e per fortuna.

Un’altra espressione del raccontare la Sardegna isola è la poesia.
La Poesia dell’isola è nata con essa, già dai primi graffiti scoperti nelle tane dei nostri antenati. Poi è stata orale nelle piazze. Molto, di voce in voce, è rimasto. Era il vento onnipotente tra le canne o in guerriglia sulla ruvidità rocciosa. Era certamente il mare.
Ancora, tanti di noi in poesia, siamo queste voci copiate dalla Natura. Scriviamo aspri o in tenerezza: è normale sia così. Non ci cambierebbe neppure un coltello nel costato.

La Poesia antica era in lingua sarda nelle sue molteplici varianti. In tanti cantano ancora così affinché non vada disperso un valore a noi sardi a quanto pare molto caro: l’origine, che rasenta sovente l’ossessione. Cantano e scrivono in Lingua. La maggioranza no: utilizza l’italiano. Se per la Prosa siamo in tanti, per la Poesia ci siamo praticamente tutti. Raccontiamo, bene o male, di anime raminghe e, lo dico un poco ridendo,

spesso compare zitto zitto,
quasi sempre compare,
quell’accidenti d’asfodelo.

L’autrice: Savina Dolores Massa.

Savina Dolores Massa, nata «in un imprecisato giorno del secolo ‘900, in realtà certificato tra i polverosi archivi del Municipio di Oristano, città di Regine e peste», è autrice di libri di narrativa e poesia. Secondo il poeta Alberto Masala la miglior scrittrice sarda vivente, è stata finalista al Premio Calvino 2007 con il romanzo Undici (Il Maestrale 2008). Sempre con Il Maestrale ha pubblicato: Mia figlia follia; la raccolta di racconti Ogni madre, e Cenere calda a mezzanotte. Il suo ultimo romanzo è Il carro di Tespi (Il Maestrale, 2016); mentre per quanto riguarda la poesia a giugno di quest’anno è uscita la silloge Per assassinarvi, Piacere siamo spettri (Il Maestrale, 2017).

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