Intervista a Piero Percoco: The Rainbow is Underestimated

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5 min readNov 26, 2018

Il progetto The Rainbow is Underestimated, di Piero Percoco, racconta una realtà che sembra lontana nella sua normalità, un meridione che potrebbe essere ovunque, un percorso all’interno di un’intimità collettiva in via d’estinzione.

Inquadrando i corpi in prossimità, in modo apparentemente surrettizio, e giocando con la saturazione del colore, Piero Percoco trasforma soggetti e paesaggi quotidiani in veri e propri personaggi e scenari di finzione. Quello che offre allo spettatore (in questo caso all’utente di Instagram) è un “documento” di una realtà che ha tutte le carte in regola per diventare materiale da favola.

1. Il nome del tuo progetto è la traduzione di L’arcobaleno è sottovalutato, una frase da te incisa su un tavolo circa 20 anni fa e poi ritrovata per caso. Viene da pensare che già da bambino nutrivi un interesse particolare per gli attimi “sottovalutati”, un interesse che crescendo è stato riprodotto nelle tue fotografie, che mostrano la faccia inaspettata e insospettabile della normalità. Pensi che lo sguardo di quel bambino sia rimasto vivo dentro di te spingendoti a catturare attimi apparentemente banali, che racchiudono in sé una storia, una bellezza quasi ineffabili?

Sì, ne sono abbastanza sicuro. Fin da bambino mi porto dietro ricordi forti, spesso turbolenti di un’infanzia non felicissima. Sono sempre stato legato ad alcuni colori, dei quali fin dall’asilo ho ricordi vividi: il rosso e l’azzurro, per esempio, erano colori che mi facevano stare bene, mi rifugiavo proprio nei giochi che avevano questi colori per sfuggire alle maestre.

All’asilo ho avuto una maestra pessima, e una ancora peggiore alle elementari. Picchiava duro, oltre alla violenza psicologica che subivamo: parlava, per esempio, di satana in classe. Se succedesse oggi una cosa simile sarebbe una notizia da telegiornale, ne sono certo. Quello che faccio oggi, che è fare fotografie, ha moltissimo a che fare con la mia infanzia: traumi, maestre cattivissime, problemi in famiglia, disagi, tutto questo fa parte di me e non posso cancellarlo, non voglio cancellarlo. Ci costruiamo su quello che siamo stati in passato, per quello che siamo e per il nostro vissuto. Posso dire che la fotografia sia una specie di terapia psicologica: quando capita di osservare con gli occhi di un estraneo le mie foto capisco tutto e niente.

Il mio è un lavoro di documentazione, una documentazione attuale di questa società, di quello che mi circonda, di quello che sto vivendo

2. Le tue rappresentazioni di una piccola realtà rurale del sud Italia diventano documento disponibile per una nuova memoria collettiva di un mondo in decadimento. C’è nelle tue fotografie una precisa volontà di tenere traccia e quindi in un certo senso di preservare questo universo, quello in cui sei cresciuto e vivi tuttora?

Su questo punto sono pienamente d’accordo. Ne prendo sempre più atto: in fin dei conti il mio è un lavoro di documentazione, una documentazione attuale di questa società, di quello che mi circonda, di quello che sto vivendo. È una traccia, che magari scomparirà. Già aver creato un libro per me significa tanto, basandomi su questi livelli, è una traccia materiale del mio passaggio. Un documento, per bello, brutto o sbagliato che possa sembrare.

La mia è una mentalità fortemente basata sulla resistenza come una specie di rivoluzione, ma non tutti hanno la possibilità di andare via

3.Sempre più giovani — specie quelli che, come te, fanno lavori creativi o poco riconosciuti in Italia — lasciano i paesi per le città e le città italiane per quelle estere: com’è per te vivere e lavorare in paese, nel tuo paese? Cosa significa essere rimasto nel tuo paese? Qual è il tuo rapporto con il paese e qual è il rapporto che il tuo paese stringe con te?

La parola lavorare (con la fotografia e non solo) nel mio paese è praticamente inesistente, sarei morto da tempo ormai se le speranze fossero riposte nel paese in cui vivo. Quasi nessuno, a parte i miei amici, sa che lavoro con la fotografia stando a Sannicandro. La mia è una mentalità fortemente basata sulla resistenza come una specie di rivoluzione. Molte volte ripudio tutti i ragazzi che vanno via per i motivi che menzioni, li ripudio perché non hanno il coraggio e la voglia di restare e si arrendono molto in fretta, la maggioranza non ce la farebbe nemmeno ad andarsene senza l’aiuto da parte dei genitori, perché non giriamoci attorno: non è accessibile a tutti la possibilità di andare via.

La fotografia è una specie di terapia psicologica:
quando capita di osservare con gli occhi di un estraneo le mie foto capisco tutto e niente.

Il mio obiettivo è sempre stato conflittuale in termini psichici e fisici, nel senso che penso spesso che vorrei tanto andare via lontanissimo, ma allo stesso tempo so che il mio lavoro è qui, è documentare e condividere da circa sette anni una società ai miei occhi decadente, misera. Il paese nei miei confronti non nutre nessun rapporto, ma nonostante questo, io amo ugualmente la mia terra e il mio paese.

Il viaggio a Sannicandro di Bari (ma non solo) di Piero Percoco (1987) è visibile su Prism Interiors edito da Jason Fulford per Skinnerboox (2018) e su Instagram

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