Cos’è il rainbow washing ormai lo sappiamo, ma cos’è l’omonazionalismo?

Chayn Italia
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3 min readJun 10, 2022

E’ giugno e come ogni anno i loghi delle multinazionali si colorano di un vuoto e stucchevole desiderio di mostrare la loro inclusività e il loro supporto alle persone LGBTQIA+; le persone (o meglio, i consumatori), non le loro lotte.

Di rainbow washing ne ha sentito parlare chiunque: si tratta di quel fenomeno per cui diverse attività economiche — dai grandi brand ad aziende medio-piccole — utilizzano oggettistica, slogan, marchi per indicare un sostegno progressista alla comunità LGBTQIA+ senza dare un apporto significativo alla questione e presentando la comunità come un monolita il cui unico valore risiede nella sua stessa mercificazione.

Il rainbow washing è quindi nello specifico una tecninca di marketing, un mezzo di cui le aziende si dotano in un mondo in cui “il queer va di moda” e i diritti delle persone LGBTQIA+ hanno fatto irruzione nella politica generalista in modo incontrovertibile. In un’ottica più sistemica, il rainbow washing è uno degli strumenti di cui il capitalismo si dota per assimilare tutto ciò che lo minaccia.

Se di rainbow washing si sente ormai parlare in modo abbastanza diffuso, un tema spesso confuso con esso e che raramente viene toccato è l’omonazionalismo.

Cosa vuol dire omonazionalismo e che origini ha?

Il termine omonazionalismo è stato coniato da Jasbir K. Puar, filosofa e direttrice del corso di studi di genere presso la Rutgers University (New Jersey, USA), nel suo testo “Terrorist Assemblages” pubblicato per la prima volta nel 2007 e riconosciuto oggi come caposcuola di un’analisi queer del contesto americano post-undici settembre che risulta profondamente rilevante anche in Europa e in Italia come chiave di lettura di processi sociali che riguardano le persone LGBTQIA+ — pensiamo alla legge Cirinnà e il DDL Zan.

La politica istituzionale americana successiva all’attentato dell’undici settembre 2001 dà il via ad una strategia politica che, attraverso la strumentalizzazione dei diritti civili delle persone LGBT+, riafferma il proprio grado di civiltà e umanità, stagliandolo sullo sfondo della presunta omofobia e del presunto barbarismo predicati dall’Islam. Se l’occidente è dunque il paladino dei diritti LGBT+, l’Islam (tanto quanto “l’altro”, lo straniero, la persona razzializzata) ne è il persecutore. Questo concetto razzista funziona nella sua semplicità creando nelle nostre menti delle associazioni binarie fittizie: percepiamo gay e musulmanə come concetti opposti, mentre occidentale e queer diventano sinonimi (Shon Faye, Gay Pride & Capitalism: What is Pinkwashing?).

Il concetto di omonazionalismo […] indica l’uso di “accettazione” e di “tolleranza” per i soggetti gay e lesbici come barometro per valutare la legittimità e la capacità della sovranità nazionale.

Jasbir Puar, Terroris Assemblages, Homonationalism in Queer Times (2007)

I soggetti LGBTQIA+ sono quindi tollerabili, assimilabili alle dinamiche di controllo Statale e da proteggere; tutto ciò a condizione che si presentino in un certo modo: devono essere soggetti decorosi, non infetti (siamo pur sempre solo vent’anni dopo l’emergenza AIDS) e non promiscui, devono rifarsi cioè alle norme di decoro eteronormate e a quella riproduzione sociale cardine della nostra società.

Perchè è rilevante in Italia oggi?

Tanto nel 2016 con l’approvazione della legge Cirinnà, quanto oggi sulla scia di #moltopiùdizan, ci troviamo di fronte alla necessità di riflettere criticamente su come i nostri corpi, le nostre identità e le nostre lotte possono essere cooptate non solo dai brand ma anche dagli Stati neoliberali per perseguire i propri fini.

Non dobbiamo arenarci nei binarismi inutili “diritti civili sì, diritti civili no”, ma dobbiamo chiederci che cosa significa essere soggetti LGBTQIA+ oggi e in che modo possiamo incidere collettivamente sugli spazi di produzione e riproduzione sociale che attraversiamo.

Le differenze tra il contesto americano e quello Italiano per quanto riguarda l’omonazionalismo non mancano: è innegabile che, mentre il patto sociale americano omonazionalista post-AIDS e post-undici settembre ha portato come tappa l’approvazione delle adozioni, il matrimonio egualitario e le leggi antidiscriminazioni, l’Italia di fatto non ha ancora visto questo passaggio (Riccardo Carraro, “Stati Genderali: Siamo ovunque, vogliamo cambiare tutto”, Dinamo Press, 14 dicembre 2021). L’immaginario generalista italiano è ancora dominato da figure macchiettistiche e l’ideologia gender propagata dalla Chiesa sono prodotti unicamente italiani.

Ciònonostante l’omonazionalismo rimane una chiave di lettura fondamentale per quei processi sottili di strumentalizzazione delle lotte queer e, mobilitato con cautela e attenzione ai contesti, è uno strumento importante per attraversare criticamente anche questo Pride Month.

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