Diffusione Non Consensuale di Immagini Intime (DNCII)

Chayn Italia
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11 min readFeb 15, 2022

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La diffusione non consensuale di immagini intime(1) consiste nella condivisione via internet e via social media di contenuti sessualmente espliciti e privati senza il consenso de* soggettɜ raffiguratɜ.

Conosciamo il fenomeno identificato più comunemente come Revenge Porn, termine che accademicɜ e professionistɜ descrivono però come non corretto in quanto suggerisce l’ipotesi di un’azione vendicativa per la quale chi la subisce debba aver commesso degli errori in precedenza che l* pongono nella situazione di meritarselo. Inoltre, il richiamo linguistico alla pornografia (Porn) in questa dinamica rischia di non attribuire la corretta rilevanza alla natura non consensuale dei fatti.
Per queste ragioni descrivere il fenomeno come una violenza sessuale, attuata tramite la tecnologia, risulta essere più consono.

La sensazione di legittimazione a diffondere, senza il consenso, il materiale intimo ricevuto si genera troppo frequentemente in contesti come il sexting (2) — scambio di messaggi, immagini o video sessualmente espliciti -, considerato una nuova frontiera della sfera sessuale e praticato spesso da persone impegnate in relazioni a distanza.

Si acuisce così la diffusione non consensuale dello stesso materiale, poiché non si considera che, trattandosi di immagini o video intimi e privati, esso sia destinato a rimanere condiviso solo con chi l* mittente desidera.

Una delle radici che permettono la sopravvivenza di questa violenza risulta essere la narrazione mediatica mainstream che ne parla nel modo sbagliato. Di qui ne consegue che in primo luogo alcune donne decidano di mitigare il proprio approccio alla sessualità, vedendo questo atto come unico metodo per limitare la possibilità che il perpetratore possa rivendicare come lecita la molestia, in secondo luogo che chi compie la molestia si senta legittimato dal fatto che — inviatogli consensualmente — il materiale possa essere di suo possesso.

Secondo la ricerca condotta da Amnesty International nel 2017 in diversi stati Europei, negli Stati Uniti e in Nuova Zelanda, il 76% delle donne che hanno vissuto molestie online, dopo i fatti, ha cambiato modo di utilizzare i social media soprattutto riguardo i contenuti dei post. Più precisamente, il 32% rivela di evitare di esporsi su determinati argomenti temendo delle conseguenze per la propria incolumità.

Ciò che rende il fenomeno ulteriormente radicato nella cultura è la reazione della pubblica amministrazione e delle compagnie che gestiscono i social media: in tutti gli otto paesi nei quali si è svolto il sondaggio moltissime donne hanno dichiarato che le politiche governative di reazione alle molestie sono quasi totalmente inadeguate. Più nel dettaglio, un terzo delle donne intervistate nel Regno Unito, negli Usa e in Nuova Zelanda sostiene che l’inadeguatezza riguardi anche la reazione della polizia(3).

Approcciarsi alla questione senza basi conoscitive solide e un piano di sostegno immediato facilita una comune forma di autorizzazione della violenza, che non si esaurisce solamente con l’accadimento dei fatti, ma perpetua una sorta di azione punitiva da parte della società nei confronti di chi vive la molestia, deresponsabilizzando chi la commette: questo fenomeno è conosciuto come victim blaming (colpevolizzazione della “vittima”).
Le piattaforme social si dichiarano non tolleranti riguardo gli abusi basati sul genere. Eppure sarebbe necessario, in primo luogo, formare più adeguatamente chi modera (coloro addetti all’identificazione dell’abuso) affinché possano porre più attenzione alle molteplici forme di molestia e minaccia, ma anche sviluppare altri strumenti come l’introduzione di misure individuali (es. segnalazione efficace di contenuti) in grado di proteggere la privacy dell’utente.

Ulteriori studi, tra cui il lavoro di Silvia Semenzin e Lucia Bainotti(4), si sono soffermati sull’analisi dei perpetratori, in particolare sull’aspetto del potere e del controllo.

Tenendo in considerazione gli uomini che condividono tramite piattaforme digitali immagini esplicite di donne, principalmente ex-partners(5), si evince che la quasi totalità dei contenuti mira a scaricare la colpa sulle “vittime” col fine di riprenderne il controllo. Queste pratiche sono state identificate all’interno dei cosiddetti “compensatory manhood acts” (6) atti virili compensativi, ovvero tentativi di riacquisizione di status sociali dominanti e di conseguente controllo dei soggetti femminili.

Le stesse ricerche hanno portato ad evidenziare come il materiale non consensualmente condiviso online diviene oggetto di giudizio tramite classificazioni e commenti, il che si concretizza in un’ ulteriore oggettivazione e sessualizzazione del soggetto femminile.

Nella totalità, questi comportamenti contribuiscono alla costruzione di una mascolinità egemone per la quale i legami omosociali, la solidarietà e la competizione tra gli uomini si realizzano con l’attuazione di comportamenti violenti contro le donne e altre soggettività oppresse, con le pratiche di osservazione delle stesse, nonché con le molestie ritualizzate, che vengono sistematicamente giustificate come goliardiche.

Il concetto di omosocialità maschile viene dunque utilizzato come chiave per comprendere ed analizzare le prestazioni della mascolinità egemonica negli ambienti online, e come quest’ultima viene attuata e rafforzata attraverso le interazioni tra uomini[7].

Secondo la ricerca etnografica nascosta[8] condotta da Silvia Semenzin e Lucia Bainotti [9], attraverso cui hanno ottenuto l’accesso ad alcuni gruppi Telegram privati, sembra che agli utenti non interessi di mantenere la sicurezza dei gruppi, bensì di ampliare la comunità per raccogliere più materiale. Il campanello d’allarme scatta, invece, solo in funzione delle conseguenze della pratica di condivisione: in termini di implicazioni legali ma anche di conseguenze legate alla violazione dei Termini di servizio (ToS) di Telegram. Ad ogni modo gli utenti discutono molto delle opportunità offerte da Telegram in campo di sicurezza e privacy, come del sistema che regola la condivisione non consensuale di materiale “pornografico” [10]e azzardano teorie su eventuali algoritmi di rilevamento di contenuti e la possibilità di essere banditi.
Emerge dunque che i partecipanti si sentano protetti dall’anonimato fornito dalla crittografia end-to-end [11] e da una regolamentazione basata sulla denuncia da parte di altri utenti anziché dal controllo degli amministratori della piattaforma.

Dati

La raccolta dati quantitativi sull’influenza della DNCII non appare che un’operazione complessa; il fenomeno, infatti, solo recentemente è stato registrato nell’indice dei dati ufficiali poiché fino a poco tempo fa non esisteva questa tipologia di violenza all’interno della macro-cartella delle molestie di genere (economica, fisica, sessuale, psicologica). Tuttavia, de* studiosɜ particolarmente fiduciosɜ sono riuscitɜ a inquadrare la questione nonostante la quasi assenza di informazioni.

In una ricerca risalente al 2015 di Clare McGlynn e Erika Rackley [12], si evince che da aprile 2015 a dicembre 2015 siano stati registrati 1160 casi in 31 distretti di Polizia tra Inghilterra e Galles. La piattaforma preferita dai perpetratori risulta essere Facebook per il 68%, seguito da Instagram (12%), Snapchat e Whatsapp (5%), Twitter (4%). Per quanto riguarda la parte lesa: il 30% ha meno di 19 anni, la media d’età è di 25 anni.

Il dato che crea più disapprovazione è invece quello riguardante le misure prese contro i perpetratori: si nota infatti come il 61% delle offese riportate non ha comportato nessun tipo di azione punitiva, la ragione principale evidenziata dalla Polizia è stata che non ci fossero sufficienti prove.

In un contesto più ampio, Info Data (sezione del Sole 24 Ore) nell’Internet Safer Day (2018), ha raccolto alcuni dati e statistiche, tra cui il Digital Civility Index di Microsoft, che analizza le attitudini e le percezioni di adolescenti (13–17) e adultɜ (18–74) rispetto all’educazione civica digitale e alla sicurezza online in 23 Paesi, Italia inclusa. Secondo lo studio, l’Italia si posiziona al 10° posto nella classifica, su un totale di 23 Paesi, per l’esposizione ai rischi online. All’interno dell’indagine è emerso che il 53% dei partecipanti ha riportato di aver vissuto molestie in rete, posizionando l’Italia al 12° posto in classifica. Nel complesso le donne ricevono più molestie online rispetto agli uomini, e tra di loro sono più le adulte che le teenager[13]: analizziamo più nel dettaglio le dinamiche italiane.

Italia

Nel contesto italiano la questione è divenuta di dominio pubblico nel 2016 quando la pubblicazione di video sessualmente espliciti da parte dell’ex fidanzato ha portato Tiziana Cantone al presunto suicidio[14]. Per introdurre un reato apposito di DNCII nel nostro ordinamento penale serviranno altri tre anni.

Nello specifico, con la legge n. 69 del 19 luglio 2019 (c.d. Codice Rosso), è stato introdotto l’art. 612ter c.p. che punisce con la reclusione da uno a sei anni e con una multa da euro 5.000 a euro 15.000 chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza che le persone rappresentate abbiano dato il loro consenso alla diffusione. La stessa pena si applica per le medesime condotte commesse da chi riceve o comunque acquisisce il materiale e lo diffonde col fine di recare danno alle persone rappresentate.

La norma stabilisce inoltre che la pena aumenta se i fatti vengono commessi da una persona che è stata o è legata da una relazione affettiva alla persona offesa, o in danno di una persona in condizione di inferiorità fisica, psichica o in stato di gravidanza; o, infine, se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici[15].

Nonostante la tutela che si è voluta garantire alle persone che hanno a che fare con questo tipo di violenza, la norma presenta rilevanti problematiche. Nello specifico, nel secondo caso — quello di chi riceve o comunque acquisisce il materiale — è richiesta l’intenzione specifica di voler danneggiare, con la diffusione, la persona interessata. Tale elemento comporta l’assenza di punibilità delle condotte di chi diffonde il materiale, ricevuto o acquisito, senza l’intenzione specifica di voler danneggiare la persona interessata.

Nel segmento di tempo che va dal 9 agosto 2019 all’8 agosto 2020 in Italia sono stati registrati 718 reati di Diffusione Non Consensuale di Immagini Intime, l’81.62% delle persone ritratte nei materiali è di genere femminile.
Attraverso la ricerca[16] del Servizio Analisi Criminale, che fa capo alla Direzione Centrale della Polizia Criminale emerge che nel 2020, durante il primo mese di lockdown, si registra un calo iniziale del fenomeno che riporta il numero dei casi in linea con quello dell’inizio dell’anno (49), per poi aumentare nuovamente nel mese di aprile fino al culmine di 86 casi a maggio, momento dal quale la curva scende nuovamente e giunge ai 14 casi di agosto.

[fonte dati: https://www.istat.it/it/files//2018/04/Polizia_Un_anno_di_codice_rosso_2020.pdf]

Tenendo sempre in considerazione l’intervallo tra 9 agosto 2019 e 8 agosto 2020, e suddividendo i reati di DNCII commessi nelle varie regioni Italiane notiamo come la Lombardia detenga il primato di 141 delitti, di cui l’82% della parte lesa di genere femminile. Subito dopo troviamo Sicilia e Campania rispettivamente con 82 e 74 reati, di cui 75% e 79% indirizzati a persone di genere femminile.

[fonte dati: https://www.istat.it/it/files//2018/04/Polizia_Un_anno_di_codice_rosso_2020.pdf ]

Per quanto concerne la parte lesa, il 18% è di genere maschile contro l’82% di genere femminile, percentuale entro la quale notiamo che l’83% riguarda le maggiorenni mentre il 17% le minorenni. Ulteriore risultato da tenere in considerazione è la quasi totalità delle vittime italiane (89%) contro l’11% di “vittime” straniere.

[fonte dati: https://www.istat.it/it/files//2018/04/Polizia_Un_anno_di_codice_rosso_2020.pdf]

Conclusioni

Dalle analisi effettuate risulta evidente la necessità di consapevolezza e formazione sui vari aspetti del rapporto con altrɜ e sul relativo consenso, in modo da far fronte alla proliferazione di contesti pericolosi e alla — ormai strutturata — cultura dello stupro, concetto teorizzato per la prima volta nel libro Transforming a rape culture pubblicato nel 1993 e edito da Emilie Buchwald, Pamela Fletcher e Martha Roth. Essa

«è un’espressione utilizzata dagli Studi di Genere e dai Femminismi per descrivere una cultura nella quale non solo la violenza e gli abusi di genere sono molto diffusi, minimizzati e normalizzati, ma dove sono normalizzati e incoraggiati anche gli atteggiamenti e le pratiche che giustificano e sostengono quella violenza e che pretendono di avere il controllo sulla sessualità femminile»[17], colpevolizzando le donne per le azioni commesse dagli uomini. Donne che, di contro, non hanno alcuna responsabilità.

Sarebbe auspicabile, a tal proposito, un’accurata educazione che vada a stratificarsi nei vari contesti sociali, tra cui quelli istituzionali, e che si affianchi alla presente legge, la quale dovrà necessariamente adeguarsi alle esigenze di chi lotta per la libertà e non di chi limita quella altrui.

NOTE:

[1] Quando si parla genericamente di immagini intime, si fa riferimento anche ad altre tipologie di materiale, ad esempio video.

[2] Neologismo derivato dalla fusione delle parole inglese sex e texting.

[3] Amnesty International, Molestia online contro le donne: una ricerca comprende anche l’Italia, 2017.

[4] Silvia Semenzin e Lucia Bainotti, The Use of Telegram for Non-Consensual Dissemination of Intimate Images: Gendered Affordances and the Construction of Masculinities, 2020.

[5] Fonte dati: Silvia Semenzin, Lucia Bainotti, Donne tutte puttane, Revenge porn e maschilità egemone, Durango Edizioni, 2021.

[6] Michael Schwalbe, Manhood Acts, Gender and the Practices of Domination, 2014.

[7] Silvia Semenzin e Lucia Bainotti, The Use of Telegram for Non-Consensual Dissemination of Intimate Images: Gendered Affordances and the Construction of Masculinities, 2020.

[8] I partecipanti non sono consapevoli dell’osservazione dei ricercatori.

[9] Ivi

[10] Sono state utilizzate le virgolette per ricordare che si tratta di terminologia non del tutto adeguata, ma allo stesso tempo efficace ad attirare l’attenzione.

[11] Sistema di codici che rendono illeggibile un testo a meno che non si possieda la chiave di decifrazione corretta. Nel dettaglio, la crittografia end-to-end, oltre ad avere una chiave pubblica (condivisa da mittente e destinatario), ne ha una privata accessibile solo individualmente (fonte: nordvpn.com).

[12] Image-Based Sexual Abuse: More than just Revenge Porn, Clare McGlynn and Erika Rackley, University of Birmingham, 2016.

[13] Il Sole 24 Ore, Info Data, Internet Safer Day: le statistiche, i numeri e qualche consiglio, 2018.

[14] Il caso di Tiziana Cantone, Il Post, 2016.

[15] Art. 612 ter c.p., Gazzetta Ufficiale.

[16]Violenza contro le donne, Un anno di Codice Rosso, Servizio Analisi Criminale, Direzione Centrale della Polizia Criminale, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Ministero dell’Interno, 2020.

[17]Articolo de Il Post, Che cos’è la cultura dello stupro, 20 aprile 2021.

Bibliografia/Sitografia

  1. Amnesty International, Molestia online contro le donne: una ricerca comprende anche l’Italia, 2017
    https://www.amnesty.it/molestia-online-le-donne-ricerca-comprende-anche-litalia/
  2. Buchwald Emilie, Fletcher Pamela, Roth Martha, Transforming a Rape Culture, Milkweed Editions, 1993.
  3. Gazzetta Ufficiale. https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaArticolo?art.progressivo=0&art.idArticolo=10&art.versione=1&art.codiceRedazionale=19G00076&art.dataPubblicazioneGazzetta=2019-07-25&art.idGruppo=0&art.idSottoArticolo1=10&art.idSottoArticolo=1&art.flagTipoArticolo=0
  4. Il Post, Che cos’è la cultura dello stupro, 2021.
    https://www.ilpost.it/2021/04/20/cultura-dello-stupro-rape-culture/
  5. Il Post, il caso di Tiziana Cantone, 2016.
    https://www.ilpost.it/2016/09/14/tiziana-cantone-morta/
  6. Il Sole 24 Ore, Info Data, Internet Safer Day: le statistiche, i numeri e qualche consiglio, 2018.
    https://www.infodata.ilsole24ore.com/2018/02/06/safer-internet-day-le-statistiche-numeri-qualche-consiglio/
  7. Leggi Scomodo, La zona grigia del Revenge Porn, 2021.
    https://www.leggiscomodo.org/inchiesta-revenge-porn-phicanet/
  8. McGlynn C. and Rackley E., Image-Based Sexual Abuse: More than just Revenge Porn, University of Birmingham, 2016.
  9. Schwalbe M., Manhood Acts, Gender and the Practices of Domination, 2014.
    https://books.google.it/books?hl=en&lr=&id=7xzvCgAAQBAJ&oi=fnd&pg=PP1&ots=_zCVl42Sgx&sig=6jT8i8v7xrw7oMUqbiVQOYjuLww&redir_esc=y#v=onepage&q&f=false
  10. Semenzin S., Bainotti L. Donne tutte puttane, Revenge porn e maschilità egemone, Durango Edizioni, 2021
  11. Semenzin S. e Bainotti L., The Use of Telegram for Non-Consensual Dissemination of Intimate Images: Gendered Affordances and the Construction of Masculinities, 2020.
    https://journals.sagepub.com/doi/10.1177/2056305120984453?fbclid=IwAR2dXakxqnNpHl0teIP1kv-aqgOlKA20KX-mqKCHf8BAApiBds8vDJ-nu-c

Servizio Analisi Criminale, Violenza contro le donne, Un anno di Codice Rosso, Direzione Centrale della Polizia Criminale, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Ministero dell’Interno, 2020
https://www.interno.gov.it/sites/default/files/2020-11/brochure_violenza_sulle_donne_25_novembre_2020.pdf

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