“Non chiamatelo crimine di passione”: appunti su media e violenza di genere

claudia torrisi
Chayn Italia
Published in
11 min readApr 12, 2017

[Questo post è il frutto dei materiali raccolti in occasione del panel “Non chiamatelo crimine di passione: i media e la violenza di genere” al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia a cui ho partecipato con Chayn Italia. Qui il video dell’evento]

Nonostante si faccia un grande uso della parola “emergenza”, di violenza sulle donne si parla poco e male. L’argomento viene affrontato soltanto nelle occasioni “comandate” (8 marzo, giornata contro la violenza sulle donne, femminicidi particolarmente cruenti), e nella maggior parte dei casi in termini di numeri, che servono più a ribadire “l’emergenza” che ad affrontarla. Da un lato, però, sul femminicidio in Italia ancora non esiste una raccolta di dati ufficiale e condivisa; dall’altro sulla violenza c’è una componente “sommersa”, considerato che la maggior parte dei casi avviene all’interno delle mura domestiche.

Le statistiche sciorinate acriticamente non restituiscono la realtà: mettendo avanti numeri e percentuali la violenza resta relegata nella dimensione del “capita agli altri”, dove gli uomini che la commettono sono “mostri” e le donne “povere vittime”. Quando si passa a raccontare il caso concreto la maggior parte delle volte la situazione peggiora, tra cronache romanzate e la rievocazione dei peggiori stereotipi.

La “vittima”, il “mostro” e i panni sporchi in casa

Di violenza sulle donne in televisione si parla per lo più all’interno di contenitori pomeridiani (inadatti per tempi, modi e approccio) nei quali l’episodio viene sensazionalizzato come singolo e banalizzato. Il risultato di questa pratica, per intenderci, è Barbara D’Urso che dice davanti a milioni di telespettatori che un uomo può dare fuoco alla compagna per “troppo amore”. In questo frullatore le radici della violenza di genere sono completamente ignorate e ogni caso viene fatto risalire a responsabilità singole.

La narrazione che prevale segue la retorica della vittima. Che le donne abbiano maggiore possibilità di subire molestie, stupri, abusi domestici è certamente un fatto, e quando questo succede sono sicuramente vittime di chi commette questi reati. Rappresentare le donne che vivono casi di violenza domestica solo come deboli vittime, però, ripropone lo stereotipo del soggetto vulnerabile, passivo e senza capacità di autodeterminazione: lei deve essere necessariamente aiutata perché non in grado di provvedere a se stessa — il che spesso è la base stessa della violenza di genere.

La conseguenza di questo tipo di racconto è l’evocazione di una sorta di responsabilità condivisa tra chi commette la violenza e chi la subisce. Ok, lui l’ha picchiata/le ha dato fuoco/l’ha aggredita, ma lei perché non lo ha lasciato/denunciato?

Qualche mese fa durante la trasmissione Le Iene è andato in onda un servizio di Luigi Pelazza intitolato “L’uomo che picchiava le donne”. Il video inizia con un’intervista a un certo Luca, che racconta di aver maltrattato diverse donne, picchiandole talmente forte da averle dovute portare in ospedale. Pelazza spiega che il “problema” di Luca è iniziato qualche anno prima, quando ha incontrato “il suo primo vero amore”. Tutto il servizio, infatti, gira attorno al concetto di “amore malato”, senza che venga mai problematizzata la questione della violenza di genere.

Pelazza: “Quindi tu picchi solo se senti un legame affettivo forte”.

Luca: “Sì”.

(…)

“Quando è arrivato il momento in cui le hai alzato le mani?”

“Io non ricordo il momento, probabilmente anche a causa del suo carattere troppo debole non reagiva. Allora ho cominciato prima con uno schiaffone, poi con dei pizzicotti e poi mandandola in ospedale”.

(…)

Quindi anche se tu la menavi, lei ti amava lo stesso”.

Lei sì, lei mi amava lo stesso, il tipico amore malato”.

Insomma, l’idea che viene fuori è quella di una donna che confonde l’amore con le botte, che non sa amare. La colpa è quasi la sua: ha un carattere troppo debole, ha accettato e provocato la violenza di quest’uomo che adesso non sa darsi pace.

Questo tipo di narrazione influisce sulla visione mainstream di questi casi, lasciando intendere che la violenza di genere colpisca solo o soprattutto donne “fragili”, “deboli”, “sfortunate” — o che comunque non si sono sapute difendere.

In questo modo la violenza viene percepita come un fatto lontano dalla vita quotidiana, il che è sicuramente rassicurante per chi non si trova in una situazione di abuso — sempre per quella logica per cui “a me non potrebbe mai capitare” — ma produce due distorsioni. La prima è che la questione della violenza sulle donne viene completamente scollata dal contesto sociale in cui nasce, cresce e di cui si nutre, e viene collegata solo alle responsabilità individuali di un “uomo mostro” e di una “donna debole”; la seconda è che, in questo quadro, chi la subisce finisce per sentire davvero la colpa e la vergogna di essersi cacciata in questa situazione. Il risultato è una condizione di isolamento, e la convinzione che la violenza e gli abusi siano dei panni sporchi da lavare in casa.

Uomini “rovinati” da donne che se la sono cercata

Nonostante non se ne parli molto, l’Italia ha un problema non indifferente: è un paese intriso di quella che viene chiamata rape culture, cultura dello stupro. Nel libro “Transforming a Rape Culture”, Patricia Donat e John D’Emilio la definiscono come “un complesso di credenze che incoraggiano l’aggressività sessuale maschile e supportano la violenza contro le donne”, in una “società dove la violenza è vista come sexy e la sessualità come violenta”. Una cultura dello stupro “condona come ‘normale’ il terrorismo fisico ed emotivo contro donne. Nella cultura dello stupro sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale sia ‘un fatto della vita’, inevitabile come la morte o le tasse”.

Così, per intenderci, un’aggressione e un tentato stupro da parte di un uomo anziano ai danni della persona che lavora in casa può diventareNonnino focoso assalta la badante. La denuncia spegne il lampo di passione”; mentre un episodio simile viene raccontato su un altro giornale puntando sul fatto che la badante fosse “giovane e bella” e anche “avvenente”. Insomma, vogliamo forse biasimarli per essersi lasciati andare?

E che dire dell’uomo che “si invaghisce della bella barista e la palpeggia” in preda a “un raptus sessuale sconcertante”?

In questi esempi si condensa la narrazione prevalente sui casi di stupro: una violenza che in fondo è passione e in qualche modo provocata dalla donna — che in questo caso pecca di gioventù, bellezza e avvenenza.

A meno che non ci siano particolari scabrosi o immigrati di mezzo, lo stupro viene raccontato come una storiella, insinuando il dubbio che lei potesse essere consenziente. Del resto è sesso, no? Potrebbe esserle piaciuto. A meno che la donna non muoia: in quel caso si può parlare di “stupro finito in tragedia” — perché lo stupro in sé non è abbastanza.

La storia il più delle volte è quella di un uomo in preda ad istinti bestiali che non può controllare, e di una donna che avrebbe potuto fare qualcosa evitare la violenza ma non l’ha fatto: vestirsi in maniera diversa, essere meno provocante, non bere alcolici o comunque evitare di trovarsi in quella situazione. A luglio del 2015 una ragazza è stata violentata su un treno diretto a Pisa. Nella prima versione (poi modificata) della cronaca di Repubblica, campeggiava questa frase: “La sua unica leggerezza è stata quella di sedersi in uno scompartimento senza nessun altro passeggero”. Il sottotesto è che la ragazza sia stata ingenua, e non abbia agito come si dovrebbe fare nella sua situazione, ossia come una costante potenziale vittima di violenza sessuale.

A questo quadro va aggiunto che spesso è la vita dell’uomo a essere descritta come rovinata — e da una cosa tutto sommato trascurabile quale è lo stupro. Qualche giorno fa la Gazzetta dello Sport ha pubblicato un reportage dalle carceri finlandesi dove sono detenuti “i migliori giocatori cubani” di pallavolo, condannati a cinque anni per violenza sessuale su una donna, seviziata per un’ora e mezza.

Nell’articolo, seppur si sottolinei che il giornale “non ha alcuna ragione di dubitare della sentenza”, la violenza viene subito derubricata a “notte bollente finita in modo drammatico”. Per chi? Bella domanda. Sin dal sommario il focus è sullo stato d’animo degli stupratori, la cui carriera è “rovinata”. I giocatori, “un gruppo di cubani focosi”, raccontano la loro versione dei fatti insinuando che “questa donna” li abbia fregati, parlano di questa “esperienza orribile” che è il carcere e delle loro speranze di carriera distrutte. Lei, in tutto questo, non esiste, il suo ruolo è solo quello di aver “rovinato per sempre” i suoi aguzzini.

Il raptus dell’uomo ferito

Assieme allo stupro, probabilmente il femminicidio è il caso in cui i mezzi di informazione riescono a dare il peggio di sé. Nonostante il termine — utilizzato da Diana Russell nel 1992 nel libro Femicide: The Politics of woman killing — sia con molta fatica entrato nel lessico dei giornali, questo non ha comportato un grande passo in avanti in termini di rappresentazione di questi episodi. Il messaggio è che il killer ha agito per qualche motivo, da ricercare all’interno della coppia.

L’assassino solitamente è definito da amici e familiari come una brava persona, da cui nessuno si sarebbe aspettato nulla di tutto questo. Franco Sorgenti, che una notte dell’ottobre del 2014 ha ucciso in casa a Terni la sua compagna con due coltellate all’addome, in un articolo su La Nazione viene descritto dai vicini come un uomo “perbene e distinto, molto attento alla cura di sé”, un padre “amorevole, come tanti altri”. In questa ricostruzione completamente schiacciata sul killer, lo spazio per la donna è quello di una sorta di accessorio della storia, di cui sono protagonisti padri e mariti esemplari.

Generalmente, la tragedia viene presentata come inspiegabile e inaspettata. A questo contribuiscono anche le foto — saccheggiate selvaggiamente dagli account Facebook delle donne uccise — che ritraggono vittima e assassino abbracciati, sorridenti e insieme. Se si fossero lasciati, per quale motivo, se ci fossero stati precedenti abusi o altro non sembra interessare.

via

Sulla questione foto, tra l’altro, il blog In Quanto donna ha elaborato una sorta di statistica: le immagini delle vittime vengono pubblicate in media nell’80% dei casi, anche se si tratta di cadaveri, quelle dei killer solo nel 59%. Le foto di donne tra i 14 e i 35 anni finiscono sui giornali il 97% delle volte, una stima che cala al 74% in caso di vittime sopra i 36 anni e al 39% per la terza età. Se la vittima è giovane e carina, insomma, merita anche una gallery. Di Gessica Notaro (che fortunatamente non è morta, ma è stata sfregiata con l’acido dall’ex fidanzato) sono state pubblicate diverse raccolte fotografiche, nelle quali la ragazza viene sempre definita “ex Miss Romagna”. Quella sul Corriere della Sera conta ben 38 immagini.

L’uccisione della donna viene presentata come inaspettata anche se, ad esempio, ci sono state precedenti violenze. Questa parte della storia, però, raramente trova posto. A Natale a Verbania Marco Tacchini ha ucciso la compagna con trentadue coltellate. Sulla maggior parte dei giornali e della stampa il caso è stato presentato così:

via

Solo su uno o due siti locali è stato riportato che l’uomo “aveva precedenti per percosse” e quasi nessuno ha ripreso o approfondito la denuncia sui social di un’ex compagna di Tacchini, che raccontava di aver subito violenza da quest’ultimo.

In generale nei casi di femminicidio, il movente che più frequentemente conquista le prime pagine è l’intenzione della donna di finire la relazione. Ma è sufficiente qualsiasi comportamento che rompa l’ordine sociale — ad esempio una “piccola vacanza”.

via
via

Questa sorta di ultima volontà della donna che avrebbe scatenato l’omicida è l’unica cosa che emerge di lei, che per il resto è completamente ignorata dal racconto. Vengono passati in rassegna, invece, i sentimenti del killer, che agli occhi di chi legge passa da carnefice a uomo ferito: non voleva restare da solo, aveva paura di non vedere i figli.

“‘Un po’ di tempo fa ci eravamo lasciati, ma io non sopportavo che fosse finita. Lei stava con un altro’, ha detto tra le lacrime agli inquirenti. La loro storia era cominciata due anni fa ed era stata segnata da rotture e riprese. Da qualche settimana, però, Sara aveva un’altra relazione e questo ha fatto perdere la testa a Paduano”. via
“Lui, che era cresciuto senza un padre, non voleva lo stesso destino per la sua bambina, non voleva essere allontanato da lei. Oggi che dal carcere chiede della sua “cucciola” forse si è reso conto di averla condannata proprio a quello che più temeva: crescere lontano dai suoi genitori, seconda vittima della stessa follia che ha ucciso la sua mamma”. via

In questo focalizzarsi sui sentimenti di colui che ha ucciso si inserisce la narrazione del raptus: una sorta di momento di totale blackout a cui imputare coltellate, colpi d’arma da fuoco e ogni tipo di aggressione.

via
via

La narrazione del gesto incontrollato e dell’uomo ferito è diventata uno schema da seguire pedissequamente, rinunciando anche a porsi dubbi o domande. Praticamente qualsiasi circostanza diventa raptus, anche quando lui si alza nel cuore della notte e decide di accoltellare la sua compagna mentre lei sta dormendo. È il caso del femminicidio avvenuto qualche giorno fa a Caltagirone, in occasione del quale l’Huffington Post ha coniato la nuova categoria del “raptus nel sonno”.

A metà marzo nel viterbese un ragazzo ha sparato all’ex fidanzata, e poi si è suicidato. Su quasi tutti i giornali il caso è stato ricostruito utilizzando queste frasi (provenienti, probabilmente, da un lancio d’agenzia):

Dalle prime testimonianze sembrerebbe che i due ragazzi si fossero lasciati da poco. Forse si erano incontrati per un ultimo chiarimento e la discussione è degenerata. Forse c’era l’illusione che con quell’ultimo incontro si potesse ricostruire la loro storia.

Le discussioni, per carità, possono degenerare. Certo, è più semplice che succeda quando uno dei due esce di casa con una pistola in tasca.

Il ruolo dei media non è un dettaglio

In Italia la domanda di un racconto diverso della violenza di genere viene per lo più dal basso: da organizzazioni come la rete di giornaliste Gi.U.Li.A, il percorso di Non Una Di Meno con il tavolo “Narrazione della violenza” o siti come NarrazioniDifferenti.

Recentemente il Gruppo di lavoro Pari Opportunità dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti ha condiviso un documento della Federazione Internazionale dei Giornalisti (IFJ) a proposito di violenza sulle donne, che richiama all’uso di un linguaggio corretto, scevro da pregiudizi e stereotipi e rispettoso della persona. Questo significa evitare parole come “delitto passionale”, “raptus”, difendere la riservatezza e tenere in considerazione i bisogni della donna. Infine, il decalogo dell’IFJ chiede di inserire elementi di contesto: “raccontare la vicenda per intero”, mostrando come “la violenza s’iscriva in un problema sociale ricorrente”; “fornire informazioni utili” come “recapiti e coordinate degli intermediari, delle organizzazioni e dei servizi d’assistenza”; utilizzare “statistiche e informazioni sull’ambito sociale” per “collocare la violenza nel proprio contesto”.

La narrazione distorta e la percezione dei casi di violenza che ne deriva, infatti, fanno il paio con l’assenza di approfondimento e punti di vista che potrebbero essere realmente utili alle donne che subiscono abusi. Dall’altro lato, le storie di uscita dalla violenza raramente riescono a trovare posto, schiacciate da numeri e tragedie spettacolarizzate.

Focalizzarsi sul come viene raccontata la violenza di genere viene visto dai più come un dettaglio irrilevante. E invece dalla rappresentazione dei media del fenomeno passa la percezione che ne ha quella parte di società che a loro si affida per informarsi. Raptus, blackout, “notti passione” finite male, “amore malato”: tutta questa sottovalutazione della violenza che emerge dalla narrazione di femminicidi, abusi e stupri si riflette sul modo in cui l’opinione pubblica vede questi casi — cioè come sfortune che capitano agli altri, per qualche responsabilità individuale, e non come il frutto di un problema strutturale.

Cambiare parole non risolverà in un attimo il problema della violenza di genere, ma perserverare in questa narrazione significa per i media abdicare al proprio ruolo di farsi motori di un cambiamento culturale. Con buona pace di numeri, statistiche ed emergenza.

--

--