Revenge porn: 5 importanti motivi per cui non dovremmo chiamarlo con questo nome

Chayn Italia
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8 min readApr 29, 2020

Abbiamo deciso di tradurre questo articolo scritto da Sophie Maddocks per Gender.it perché propone una riflessione interessante sulla definizione “Revenge Porn”, proponendo di sostituire il termine con “diffusione non-consensuale di immagini intime”.

Ogni giorno il termine “revenge porn” viene usato in tutto il mondo con diverse traduzioni. Nonostante la crescente popolarità del termine, uno studio pubblicato nel 2018 ha identificato un generale rifiuto del termine da parte di attivist* e ricercatori/trici, che lo vedono come un’espressione fuorviante e per questo hanno iniziato a sviluppare espressioni alternative più accurate. Questo articolo delinea cinque motivi per cui noi — come femministe — dovremmo seguire il loro esempio eliminando il termine ‘revenge porn’ dai nostri vocabolari. Traendo ispirazione dal lavoro degli/lle attivist*
anti-revenge porn, questo articolo propone di sostituire il termine con diffusione non-consensuale di immagini intime (DNCII) -in inglese “Non-consensual Dissemination of Intimate Images” - per primo coniato da Coding Rights e InternetLab.

  1. Non è vendetta (revenge)

La vendetta consiste nell’atto di ferire qualcuno/a per un danno o un torto fatto. Quando una persona posta contenuti senza il consenso altrui, avviene raramente per rispondere a un torto commesso dalla persona esposta. L’atto potrebbe essere motivato da cattiveria dopo la fine di una relazione, o da incentivi finanziari, postando contenuti sessuali online per commissione oppure estorcendo denaro da chi subisce. Potrebbe essere semplicemente spinto dal desiderio voyeuristico di esporre l’altra. Ma usare il termine “revenge” presume che chi ne è colpita abbia commesso un danno per il quale il perpetratore cerca una retribuzione.

La vendetta non è il driver essenziale della DNCII. Ancor prima c’è quello che alcuni/e teorici/he hanno chiamato la “logica dell’outing” (i.e. del rivelare/rivelarsi). Le persone possono ottenere potere fisico, psicologico ed economico tramite il processo dell’”outing” che è centrale alla creazione, distribuzione e consumo non-consensuale di immagini intime. Le norme sociali che colpevolizzano la donna (cosiddetto “victim-blaming”) permettono alle persone di fare outing della donna senza sentirsi in colpa. Il contenuto che stanno guardando è “reale” e quindi la colpa è spesso attribuita alla donna per essersi lasciata filmare. Oltre al comune “victim-blaming” esiste anche la feticizzazione della mancanza di consenso della donna, visibile in tutto, dall’advertising alla pornografia hardcore. Insieme, queste due norme sociali prevalenti hanno permesso che la DNCII prosperasse, e ha portato all’utilizzo del concetto di “revenge porn”. Ogni qual volta che utilizziamo questa espressione aggiungiamo colpa alle donne e mascheriamo le azioni degli abusanti che creano e consapevolmente visualizzano questo contenuto.

Grafica di Carlotta Cacciante

2. Non è pornografia

L’uso del termine “pornografia” in questi contesti confonde contenuto visivo privato con contenuto pubblicamente accessibile inteso per il consumo di massa. Trasforma chi subisce “revenge porn” in attrici/ori pornografic* apparentemente consenzienti. L’utilizzo del termine ‘pornografia’ distorce ulteriormente una già incompresa idea di danno in quanto DNCII e il porno amatoriale circolano indistintamente sui siti web. Sui siti pornografici, il fittizio e il reale si confondono in modo pericoloso. Gli spettatori potrebbero non sapere se stanno guardando la rappresentazione immaginaria o reale della mancanza di consenso, o se i soggetti che osservano hanno mai acconsentito ad essere osservati. Come scrive la studiosa Mary Anne Franks, siamo diventati una società di “Peeping Toms” (guardoni): le persone possono visualizzare le manifestazioni più estreme delle loro fantasie senza dedicare alcun pensiero al consenso di coloro che vengono osservati. La DNCII è diventato un settore redditizio dell’industria pornografica e chiamarla ‘pornografia’ tacitamente permette alle persone di consumare contenuto che è stato creato o distribuito senza il consenso della persona in questione.

3. Non è intrattenimento

Nel 2018, decine di migliaia di donne coreane si sono riunite a Seoul per protestare contro l’uso diffuso di telecamere spia in luoghi pubblici. Due dei loro slogan “la mia vita non è il tuo porno” e “Io non sono il porno coreano” catturano il problema fondamentale del termine “revenge porn”: trasforma un atto lesivo in una forma di intrattenimento. Il termine “revenge porn” mira a catturare l’attenzione ed è lascivo — perfetto per titoli di cronaca. Questo tipo di reportistica non rende giustizia alle esperienze di chi lo ha subito. Sono gli/le attivisti/e e i/le ricercatori/trici che raccontano la vera storia della DNCII.

Le notizie troppo frequentemente si focalizzano su un numero ristretto di celebrità a cui capita, ma gli/le attivist* portano l’attenzione all’ubiquità della DNCII nella nostra vita quotidiana e ai bisogni delle vittime che potrebbero non godere del supporto del pubblico, come i/le sex workers.

Il continuo utilizzo di termini che colpevolizzano la donna nei media mainstream ha contribuito alla formazione di campagne di sensibilizzazione che consigliano alle donne di non condividere alcun contenuto intimo. Invece di limitare la libertà di espressione delle persone, le campagne dovrebbero focalizzarsi sulle azioni dei colpevoli e degli omertosi. In un report pubblicato nel 2017, la European Women’s Lobby (si veda nota in fondo all’articolo) ha cercato di cambiare la narrativa coniando una serie di termini che portano l’attenzione ai colpevoli, fra cui il “cyberstalker”, il “groomer“ (catalizzatore/abbindolatore), il “recruiter” (reclutatore), etc. Per ogni soggetto, il report lista habitat e strategie comuni.

Gli/le attivisti/e che operano negli ambienti più ostili sono riusciti a trovare modi creativi di sensibilizzare le persone al concetto della DNCII come un reato — non come una forma di intrattenimento. L’unico strumento a disposizione delle donne per recuperare la versione “reale” di se stesse online è di fare costanti richieste di eliminare il contenuto dai siti web (cosiddette “take-down requests”) — e anche questo privilegio è concesso solo ad alcune. In queste condizioni, creare e consumare cosiddetto “liberatory media’”è una forma fondamentale di resistenza.

Contenuti come le Guide femministe di sicurezza digitale, alle gifs, meme e fumetti, incoraggiano le donne a riprendere controllo della tecnologia che le ha costrette al silenzio. Tramite questi contenuti, gli/le attivist* promuovono una politica di “shamelessness” (mancanza di vergogna) che rovescia la logica di “outing” che sta alla base della DNCII.
Produrre contenuto sovversivo sulle proprie piattaforme restituisce controllo agli utenti. Tuttavia, chi cerca di cambiare la narrativa intorno al “revenge porn” rimane vulnerabile alla sorveglianza e alle molestie.

Il report della European Women’s Lobby (si veda nota in fondo all’articolo) fornisce una lista dettagliata di organizzazioni ed iniziative che cercano di combattere il “cyber-harassment”. Mentre le/gli attivist* creano nuove vie di resistenza, sempre più persone viaggiano dal silenzio all’opposizione, armate di vocabolari che non li colpevolizzano né stigmatizzano.

Grafica di Carlotta Cacciante

4. Non è una novità

Nel 1953, foto nude di Marilyn Monroe sono state stampate senza il suo consenso nella prima edizione della rivista Playboy, che ha venduto 50,000 copie. Le foto per cui ha posato Monroe come una giovane attrice sono state in seguito distribuite senza il suo consenso per il profitto economico di un altro — questo è solo un esempio del fenomeno di “revenge porn” anni prima che fosse così denominato. Ancora oggi queste foto circolano sul web, insieme a tutte le immagini di chi ha subito laDNCII pubblicate senza consenso. Con l’avanzamento della tecnologia dalla telecamera analogica al webcam, ogni nuovo device ha sempre più assecondato i nostri desideri voyeuristici in modi legati alla sorveglianza. Contenuti registrati senza consenso possono ora essere diffusi in maniera partecipativa (c.d. crowdsourcing) e catalogato in database digitali enormi.

Il termine “revenge porn” non evoca questa storia, e il suo uso oscura le ovvie connessioni fra la DNCII e altri reati che ignorano il consenso della donna — dalla molestia per strada allo stupro. Il termine riconfeziona un danno plurisecolare come un nuovo problema digitale. Oscura il fatto che le donne vivono forme di abuso online legate al loro genere molto più severe e minacciose.

5. Non è così semplice

Il termine “revenge porn” viene spesso applicato ad una varietà di reati. In Australia, può essere commesso da una donna che ruba immagini intime di una coppia per cui lavora e li pubblica online. In Irlanda, è commesso da utenti Facebook che stampano foto di ragazze minorenni in bikini, ci si masturbano sopra e poi ripostano le immagini taggandole. In UK, è commesso nel momento in cui immagini nude non-consenzienti sono utilizzati da un abusante per controllare una persona, o hacker rubano immagini intime di ragazze dal loro account di iCloud. Tutti questi scenari ricadono nel fenomeno di “revenge porn”, ma nella maggior parte delle persone il termine evoca solo uno scenario: un ex-fidanzato geloso che cerca di ferire la sua ex-fidanzata esibendo il suo corpo, controllando la rappresentazione di sé e danneggiando la sua reputazione. Il termine “revenge porn” semplifica una molteplicità di danni. In diversi contesti, questo ha portato a atti legislativi limitati in quanto focalizzati sulle motivazioni vendicative del colpevole anziché sul consenso della donna.

Alcun* attivist* sono determinat* a combattere la DNCII come una questione autonoma tramite riforme legislative: Mariana Valente scrive più nel dettaglio qui sui rischi e sulle opportunità di questa strategia. Altri hanno anche lanciato campagne per atti internazionali contro la DNCII e altri tipi di abusi online. Dopo diversi anni di campagne (riassunte qui da Jan Moolman), il report del 2017 del UNHRC riconosce espressamente la DNCII come una forma online di violenza di genere.

Alcuni/e attivisti/e posizionano la DNCII nella piattaforma più ampia di “interessi delle donne”, soprattutto nelle regioni dove vecchie leggi coloniali e/o nuove leggi sull’oscenità puniscono chi subisce la DNCII per aver creato contenuti “immorali”. Qui diventa strategicamente importante fare riferimento a DNCII come un ‘interesse delle donne’ cosicché organizzazioni femministe locali possano occuparsene.

Mentre alcuni attivisti mirano a riformare leggi e regolamenti, altri prendono un approccio più oppositivo, vedendo la DNCII come un problema perpetuato dallo Stato e dal controllo delle multinazionali del cyberspace. Adottano quello che Mariana Fossatti chiama un approccio tecnopolitico, ossia levando una essenziale voce critica contro i tentativi di ‘risolvere’ la DNCII che non attacca i sistemi sottostanti che lo sostengono.

Il pilot di immagini intime non-consensuali di Facebook è una soluzione veloce che mette la donna in allerta: se si pensa che le proprie immagini siano state divulgate, si deve anticipare la propria “vittimizzazione” mandandosi le foto su Facebook. In questo articolo, Joana Varon e Paz Pena elencano gli step che le aziende tech devono prendere per affrontare la violenza di genere in maniera più globale. Queste soluzioni veloci inevitabilmente avranno come esito più la protezione delle azioni della piattaforma digitale che l’interesse delle utenti stesse.

La crescita del fenomeno di DNCII ci ha portato alla situazione in cui alcune persone che hanno subito la violenza riescono a farsi sentire, mentre altre sono messe a tacere in un internet di ‘secondo livello’. In questo ambiente di controllo centralizzato, individualismo radicale e disuguaglianza digitale, dobbiamo connetterci nei diversi contesti per perseguire un internet alternativo, femminista e decolonizzato. Ora è anche il momento in cui i governi stanno approvando leggi contro l’abuso online e l’opinione pubblica è in una fase di cambiamento. È un momento in cui la responsabilità delle piattaforme digitali per i contenuti e per i dati degli utenti deve ancora essere determinato. In questo momento di turbolenza, un piccolo cambiamento nel vocabolario potrebbe avere un impatto enorme sulle policy e sull’opinione pubblica.

Grafica di Elena Manfredi

Note all’articolo:
*
Chayn Italia non condivide le posizioni della European Women’s Lobby sulla questione del lavoro sessuale.
*Chayn Italia, per ragioni di incidenza statistica e per facilitare la lettura dei testi, riferisce agli abusanti al maschile e a chi subisce al femminile, ma ci riferiamo a tutto lo spettro delle identità di genere.

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Progetto collaborativo che utilizza strumenti digitali per il contrasto alla violenza di genere. http://chaynitalia.org e https://strumenticontrolaviolenza.org/