Porto Canale, Cagliari: qualcosa è mutato per sempre nella mia vita

Un ricordo dalla “stanza dei somari”

salvo fedele
Chi più sa… meno crede
7 min readAug 25, 2019

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Giuseppe Lixia è morto da pochissimo tempo, il febbraio 2019, e non amava raccontare niente di sé. Un giorno però volle raccontare a un gruppo di amici come era mutata la sua vita nel febbraio 2011 e prima di lasciarci scrisse anche un breve testo che adesso fa parte di una raccolta di testimonianze ”Mille colori di Umanità” scritto a più mani da numerosi operatori impegnati nell’assistenza sanitaria ai migranti.

Giuseppe Lixia era una persona straordinariamente mite e aveva un modo del tutto particolare di raccontare: sobrio, riservato, attento a non dire una parola di troppo. Poi c’erano inconfondibili altre cose che sono rimaste nella mia memoria: la sua caratteristica cadenza sarda e i rumori assordanti del suo microfono al momento in cui si collegava in meeting on line nella comune stanza virtuale dove discutevamo i “nostri casi clinici”, tra pari, in una specie di gruppo di supporto collettivo alla quotidianità del nostro lavoro.

Il suo microfono, per motivi che sono rimasti sempre oscuri, era fatto così: all’ingresso ragliava e poi si acquietava. Paolo, lo prendeva sempre in giro, imitava la sua cadenza e gli asini sardi del suo microfono. Ridevamo da matti, come dei bambini. Lui ovviamente più di tutti. E quando finalmente la sua telecamera, sempre posizionata ad angoli impossibili, riusciva a inquadrare un pezzo qualsiasi del suo corpo, noi facevamo festa ragliando tutti insieme.

Era il momento di tornare seri e di cominciare la riunione. L’asinello sardo naturalmente era divenuto il nostro simbolo perché non c’era problema che eravamo in grado di affrontare senza studiare insieme e quasi tutto fin dall’inizio. Eravamo un gruppo di somari, sempre di più ben consapevoli di esserlo.

Non riesco a ricordare per quanti anni ho discusso insieme a Giuseppe in questo modo. Tanti, davvero tanti e poi quella stanza virtuale pian piano non siamo più riusciti ad aprirla. Per mille motivi, ma il più importante perché ci mancavano gli asini. Giuseppe cominciava a raccontare quasi sempre con una perifrasi diversa, ma il cui significato era sempre lo stesso: “scusate, ma è un problema che non conoscevo e ho appena cominciato a studiarlo”. La stessa perifrasi la troverete sotto altra forma a un certo punto nel suo testo. Immancabile.

Vi dicevo della nostra incapacità di riaprire quella stanza virtuale. Non ci abbiamo ragionato molto e ognuno di noi si sarà fatta una ragione diversa, tento io di esprimerla per la prima volta: per ricordare davvero Giuseppe dovevamo scegliere come rinascere e cercare una nostra nuova strada, qualcosa è mutato per sempre nelle nostre vite.

Un giorno Giuseppe in uno dei tanti momenti (sempre troppo pochi) in cui riuscivamo a vederci di presenza mi raccontò l’episodio di cui parla nella sua breve testimonianza. Era lo stesso Giuseppe di sempre, pacato, sobrio, senza una parola di troppo, ma notai qualcosa di diverso dal solito nel suo volto. Scoprii dopo che era l’espressione che aveva quando di un problema faceva l’analisi costi benefici, da un punto di vista particolare però: l’etica dei comportamenti.

Quella stessa espressione la trovai nel suo volto quando dovetti combattere una vera battaglia per convincerlo della necessità di una macchina decente per la parenterale di cui aveva necessità: “tutto quel denaro solo per la mia vita?” Ero furioso con lui. Lo odiai per la sua attenzione agli “sprechi” su di sé.

La sua vita e il modo con cui viveva il suo credo religioso non posso raccontarvelo perché tradirei la sua proverbiale riservatezza. Era una persona che ha fatto tanto per gli altri in ogni momento della sua vita. E anche dopo.
E sempre in modo straordinariamente terreno.

Lo penso continuamente, e sento l’imbarazzo del suo modo di essere schivo mentre scrivo soltanto queste poche parole su di lui.

Questo suo testo che riporto in coda si può leggere in tanti modi: rileggetelo più volte e li scoprirete tutti. In un modo è possibile toccare la semplicità, in un altro è possibile toccare quello strano involucro che è in noi e che non ha confini fisici definiti, in un altro ancora spinge verso l’indignazione vera: quella che ti scuote e non ti fa proferire parola. L’indignazione di assistere a quel contrasto tra quello che si vede nella scena e le parole dedicate alle persone che hai di fronte.

Se riuscirete a leggere davvero tutto questo… qualcosa sarà mutato per sempre nelle nostre vite e questa sarà la vostra nuova vita. Ve l’avrà donata Giuseppe solo in tre paginette, tre pagine di semplicità e senza effetti speciali. Un uomo che è rinato decine di volte nella sua vita sempre al servizio di una sola causa, la solidarietà umana e che adesso continua a rinascere in noi che sentiamo finalmente vicina la sua “modesta” umanità.

Porto Canale, Cagliari

di Giuseppe Lixia

da: Mille Colori di Umanità, Racconti di immigrazione
Carlo Delfino Editore, pagine 64, Euro 10 - 2019

A febbraio del 2011 in Libia, sulla scia della “Primavera araba” esplosa in Tunisia nel dicembre 2010 e rapidamente propagatasi agli Stati vicini, è iniziata la crisi che porterà alla caduta e alla morte di Gheddafi. A pagare il prezzo più alto di quella che di fatto sarà una vera e propria guerra civile, sono i lavoratori e le lavoratrici stranieri che vengono caricati sulle navi sotto la minaccia delle armi dei soldati delle varie milizie e costretti ad attraversare il Mediterraneo, dopo essere stati privati di tutti i loro beni.

I dati ufficiali stimeranno in circa 60.000 i migranti arrivati in Italia dalla Libia tra il febbraio e il dicembre di quell’anno. Il Governo italiano, tra malumori e mal di pancia dei governatori, ha deciso di suddividere i migranti, che sbarcano per la stragrande maggioranza in Sicilia, in varie regioni, tra cui la Sardegna.

E un bel pomeriggio di maggio di quello stesso anno, primavera inoltrata a Cagliari, la città in cui sono nato, in cui ho sempre vissuto e nella quale svolgo parte del mio lavoro. Sono medico, pediatra di famiglia e da qualche anno ho iniziato a collaborare con l’Ambulatorio per gli Stranieri Temporaneamente Presenti della ASL di Cagliari. Ho dato la mia disponibilità per andare, in qualunque momento, ad accogliere i migranti che dovessero arrivare a Cagliari.

Ricevo la telefonata della direttrice del dipartimento: «Stiamo andando al Porto Canale, è in arrivo una nave con qualche centinaio di migranti, tra cui diversi bambini. Vieni?»

Non sono a casa e chiedo se possono passare a prendermi; mentre aspetto, nella mia mente si affollano domande e dubbi: non ho mai partecipato a un evento di questo tipo e non sono sicuro di essere all’altezza del compito che dovrò svolgere.

In macchina con la direttrice del dipartimento e con la veterana
delle infermiere raggiungiamo il Porto Canale, il porto commerciale di Cagliari, una location squallida; niente a che vedere coi Porto Turistico, una vera perla che accoglie vacanzieri e crocieristi.

La prima cosa che noto è lo schieramento di forze dell’ordine. Ci sono tutte: Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza; c’è anche la Protezione Civile. Uno schieramento degno di ben altre situazioni.

Ci sono poi i pullman che porteranno i migranti nelle varie strutture, hotel o residence, che sono stati individuati per accoglierli. Alcuni di questi si trovano anche a più di 100 km da Cagliari: un altro viaggio.

Per contrasto il nostro ambulatorio è in realtà solo un’ambulanza messa a disposizione dalla ASL con strumentazione ridotta all’osso; per fortuna ho portato la mia borsa dove c’è tutto quello che mi può servire. E poi c’è il nostro gruppo di medici, infermiere e assistenti sanitarie che mi danno una grande forza.

Mi infonde serenità la presenza di alcuni mediatori culturali, senza di loro sarebbe probabilmente impossibile riuscire a comunicare con i migranti. Dall’ambulanza riesco anche a vedere tutto lo scenario dello sbarco e i vari attori che sono chiamati ad accoglierli.

Seguo le manovre di attracco del traghetto che, ci dicono, si era già fermato a Napoli e dovrà andare anche a Genova per finire di sbarcare i migranti: significa che queste persone, subito dopo aver fatto la traversata dalla Libia a Lampedusa in condizioni disumane, hanno dovuto affrontare altri giorni di navigazione, e per qualche centinaio di loro il viaggio non è ancora finito.

Finalmente la nave apre il suo ventre, il ponte mobile si abbassa e dopo qualche minuto ecco i primi migranti: una famiglia composta dai genitori e i loro due bambini; si tengono per mano, nella mano libera il padre tiene una busta di plastica di quelle che noi usiamo per la spesa: è tutto quello che hanno.

Appena scendono, i bambini, accompagnati dalle madri, vengono portati sull’ambulanza. Provengono da Nigeria, Somalia, Eritrea, Gambia. Alcuni hanno solo pochi mesi, i più grandi due, tre anni. Hanno occhi grandi e neri, bellissimi, ma il loro sguardo trasmette tristezza e disperazione. Hanno nomi dal suono dolcissimo e poi hanno fame, tanta, tantissima fame.

All’interno dell’ambulanza il ruolo dei mediatori culturali emerge in tutto il suo valore: permette alle mamme e ai bambini di stabilire un canale di comunicazione indispensabile per non sentirsi del tutto sperduti e a noi operatori di svolgere il nostro lavoro in modo adeguato.

Qualcuno è raffreddato; non hanno malattie “visibili” ma è palpabile il loro malessere, il terrore e lo sgomento di trovarsi in un posto completamente estraneo di cui non sanno niente e dove non conoscono nessuno. Per loro gli stranieri siamo noi.

Cerco di essere il meno invadente possibile nel visitarli, evitando di compiere gesti che non siano strettamente necessari a valutare il loro stato di salute, per non accrescere la loro paura.

Dopo alcune ore abbiamo terminato, ci scambiamo le nostre impressioni, ci guardiamo negli occhi, abbiamo una grande serenità d’animo. Alla fine della giornata vengo assalito da un profondo senso di vergogna per i privilegi di cui godo.

Ho assistito, in seguito, ad altri trasferimenti di migranti a Cagliari e ho avuto l’onore e il privilegio di essere sempre presente ad accogliere i bambini. Alcuni li ho rivisti nell’ambulatorio STP. Con alcune famiglie, rimaste a Cagliari, sono riuscito a instaurare duraturi rapporti di amicizia.

Ma porto sempre con me, nel mio intimo, questo primo sbarco che ha mutato per sempre la mia vita.

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salvo fedele
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pediatra a Palermo; mi piace scrivere, ma cerco di non abusare di questo vizio per evitare di togliere tempo al… leggere (╯°□°)