Il centrosinistra che vorrei

Francesco Bussola
5 min readDec 8, 2014

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Sarà che c’è tanta confusione, sarà che si avvicina il Congresso del PD, sarà che ho bisogno di riordinare le idee e di dire la mia, fatto sta che ho deciso di scrivere come vorrei che fosse il centrosinistra e in particolare il Partito Democratico. Non consideratelo un manifesto o un documento congressuale: si tratta solamente di alcuni pensieri che ho coltivato in questi mesi soprattutto dopo la frustrazione che ho provato nei famosi quaranta giorni e durante l’elezione del Presidente della Repubblica. Vi avverto: alcuni li condividerete mentre altri li considererete delle emerite sciocchezze. In ogni caso non ho la presunzione di considerarli definitivi. Secondo avvertimento: siccome i miei pensieri li conosco da un po’, sarà forte la tentazione di riassumerli in poche belle parole, rischiando di perdere concretezza e di scrivere frasi ad effetto, ma vuote. Tenterò quindi di essere il più possibile concreto. Se alla fine di un paragrafo penserete “E quindi?” sarete autorizzati ad arrabbiarvi e a chiudere il browser. Io farei lo stesso.

Vocazione maggioritaria La prima cosa che mi viene da dire è che credo in un centrosinistra a vocazione maggioritaria. Cosa sia questa vocazione maggioritaria è presto detto: il PD deve puntare a vincere le elezioni (e ci mancherebbe! Anche se a volte non sembra così scontato), a governare e ad essere maggioranza nel paese. Non maggioranza relativa, ma assoluta. Se un forza riformista non riesce mai a vincere le elezioni, significa che non è specchio del paese. Ed è colpa sua, perché io a quella storia che l’Italia è un paese di destra, non ci credo tanto: è solo un paese con tante paure, in costante fuga dal passato. Voglio quindi un PD che serva all’Italia e che ne sia specchio. Questo, sia chiaro, non significa escludere a priori le alleanze. Significa semplicemente che il PD deve riuscire ad andare oltre i propri steccati tradizionali, conquistare nuove fette di elettorato e, in caso di governo, essere autosufficiente. In questo modo una qualsiasi alleanza condizionerà l’azione di governo, ma non potrà ricattarla.

Partito aperto Per fare questo ovviamente non basta la volontà politica, ma bisogna anche ripensare la forma del partito come lo abbiamo conosciuto fin’ora. Non vorrei però che il tutto si riduca a una questione di linguaggio: aperto, liquido, occupato, strutturato, ditta… pare che ognuno abbia un aggettivo adatto per il partito, ma che in fondo l’aggettivo sia solo una sfumatura un po’ glamour, giusto per distinguersi e fare tendenza. Al netto di slogan e hashtag, vorrei che il Partito Democratico andasse a caccia di tutte quelle persone insoddisfatte della politica e gli dicesse “Tu sei importante! Abbiamo bisogno di te”. E’ una questione di approccio? Certo. Di comunicazione? Anche. Ma è inutile dire che facciamo le primarie aperte se poi respingiamo gli elettori ai seggi. E’ inutile chiedere all’elettore dieci firme se quel bacino elettorale non verrà mai consultato. E’ inutile vantarsi del radicamento territoriale se poi i circoli non vengono finanziati costringendo i militanti a pagare di tasca propria ogni evento. E’ inutile avere una giovanile e sbandierare il ricambio generazionale se la giovanile diventa un parcheggio dal quale non si riesce ad emergere. Andare a stanare l’elettore è possibile solamente se le strutture partecipative creano una rete, se i circoli non vengono abbandonati dalle segreterie provinciali, se si attua un mappa territoriale degli elettori, se li si mobilita non solo in campagna elettorale, ma ogni volta che serve un’idea, un’idea vincente, la loro idea. Il partito aperto è una concezione politologica diversa dal partito strutturato perché quest’ultimo è fatto unicamente dai tesserati, con il rischio che sia fatto dai tesserati per i tesserati e basta.

Riformismo Ed è chiaro che aprendosi entreranno delle persone che non hanno la nostra cultura politica. Anzi, magari entreranno persone senza alcuna cultura politica, perché molti saranno giovani e non sentiranno alcuna appartenenza. Molte persone in questo vedono un rischio di contaminazione, di perdita dei valori. Non credo sia così: l’idea dell’altro, per quanto possa essere distante dalla mia, è arricchente. E se quell’idea serve a sparigliare tutto, a cambiare le carte in tavola, a rischiare, a ricostruire un’Italia che oggi sembra arenata nella sua autocommiserazione, ben venga! E’ questo il riformismo, è questo il centrosinistra, è questo il PD. La sinistra può essere tutto, meno che conservazione. Per questo, quando Pietro Ichino è uscito dal PD, l’ho considerata una sconfitta: abbiamo perso un pezzo di riformismo e l’abbiamo perso perché l’abbiamo denigrato, sbeffeggiato e relegato a un sottoprodotto della destra. Certo, molti nel PD non erano d’accordo con le sue proposte in materia di Lavoro, ma le sue proposte trovavano spazio di diritto nel Partito Democratico perché mettevano in discussione lo status quo e proponevano una soluzione radicalmente alternativa. Giuste o sbagliate che fossero, non erano un punto di arrivo, ma un punto di partenza, l’inizio di una discussione, la parte di un progetto.

Un racconto Un progetto che non può essere una camionata di proposte, magari anche buone, che nessuno leggerà mai. Dalle 281 pagine del programma di Prodi al tir di Bersani (“Dicono che non abbiamo un programma. Portate qua il camion che ve ne do una quintalata”) ci presentiamo sempre con quell’aria supponente di chi ha la verità in tasca e te la spiegherebbe anche, se solo tu fossi abbastanza intelligente per capirla. Basta! Vi prego. Cominciamo a raccontare l’Italia che vogliamo concretamente. Non basta dire “Contrasteremo la precarietà, cambiando le norme e rovesciando le politiche messe in atto dalla destra nell’ultimo decennio” per combattere il precariato (e sì, in alcuni programmi delle primarie c’era scritto solo questo). E anziché dire “L’istruzione è importante” si può proporre di ristrutturare le scuole e magari le persone capiscono anche meglio che per te l’istruzione è importante. E se non ve ne siete ancora resi conto, un racconto è ciò che in politichese si chiama “comunicazione”. Non c’è niente di male. È come se raccontassimo una storia a un figlio: serve a creare i sogni e a trasmettere passione, instillando la speranza di un futuro possibile. Perché in fondo è così: dobbiamo dire alle nuove generazioni come sarà l’Italia che lasceremo nelle loro mani. Dobbiamo dirgli che ora, sì, c’è un drago (si chiami esso burocrazia, rendita, corruzione, mafia, debito pubblico,…), ma che lo sconfiggeremo, perché i draghi si possono sconfiggere. Ci possono contare.

Correnti C’è un’ultima questione che mi sta a cuore ed è quella del correntismo. Ora confesso che io non ci trovo nulla di male se alcune persone in un partito, magari accomunate da alcune sensibilità, si riuniscono e si confrontano. Anzi, direi: ottimo! Il correntismo, però, quello che fa tanto male al PD, è la conta delle tessere, è il “o sei con noi o contro di noi”, è spartirsi cariche e poltrone bilanciando il peso politico delle parti. Ecco, anche basta. In questi casi le correnti sono la somma di ambizioni personali, infantili giochi di potere che rivelano arrivismo e pochezza. Il centrosinistra che vorrei è libero da queste logiche e, se nascono, le smonta. In questo senso le correnti hanno tutto l’interesse a mantenere il partito così com’è. Anche qui mi piacerebbe sparigliare tutto.

Originally published at www.adessoverona.it on July 13, 2013.

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Francesco Bussola

Dottore di ricerca in fisica, insegnante di scuola superiore, divulgatore scientifico. Gestisco Space break, una newsletter di fisica e esplorazioni spaziali.