The Wolf of Wall Street o della bestia americana

Scorsese usa Wall Street come esempio illuminante della corruzione di un’intera generazione

3volteM
4 min readJan 31, 2014

Martin Scorsese appartiene a quella razza di registi ai quali si farebbe un torto trascurando la storia produttiva dei film realizzati. ‘The wolf of Wall Street’ non fa eccezione: gli anni di gestazione (questo film stava per essere girato prima ancora di ‘Shutter Island’) sono dovuti principalmente alle difficoltà (non nuove per Scorsese) di reperire i fondi necessari a garantire la libertà creativa, prerogativa dell’autore e fortemente foraggiata anche dal protagonista e suo sodale Leonardo Di Caprio. Il motivo è subito evidente a partire dalla durata del film: 179 minuti necessari, irrinunciabili ad assegnare alla pellicola di Scorsese il giusto tono, lo sguardo che egli stesso voleva adottare per questo film, un continuo alternarsi tra frenesia e appiattimento, picchi di ritmo forsennato e schianti di meditata lentezza, droga e astinenza, lussuria e sobrietà, irresponsabilità e richiami all’ordine. Non ci sono 5 minuti di storia, di dialogo, di immagini che si possono sottrarre al film, che non siano funzionali alla parabola del protagonista e allo sguardo morale del regista. Tutto concorre ad un traguardo, ad un senso che si esplicita nella santa trinità di Scorsese: regia, montaggio, protagonista. A quest’ultimo spetta il compito di portare sulle spalle l’amoralità di un personaggio destinato (per fortuna) al degrado più totale, al cappio che gli si stringe intorno al collo inesorabilmente. Jordan Belfort, fin dalle prime scene, mette subito in chiaro le cose: il sogno americano è fare soldi a palate e usare quei soldi come cannuccia per sniffarti l’impossibile, poco importa se quei soldi bisogna rubarli, sottrarli, nasconderli, riciclarli; l’importante è spenderli in oggetti che sono status symbol, in auto vistose, in orologi da 12.000 dollari, in puttane e stupefacenti, in beni a tal punto futili da essere sempre sostituibili e infatti l’0rologio viene lanciato ad una folla avida, l’auto distrutta senza remore, l’elicottero utilizzato come fosse un giocattolo. Tutto il possibile per allontanare non tanto la paura della morte quanto la paura di essere sobri nell’attimo della morte. Possedere un senso di potenza da fare invidia ad un Dio.

E qui subentra l’altro Dio della storia, il regista che muove le fila, l’alter ego di Leonardo Di Caprio. Martin Scorsese, ritornato produttivamente libero come non gli capitava da tempo, si prende ogni licenza che desidera non per capriccio ma per portare lo spettatore all’identificazione (certamente non empatica ma narrativa) con il suo protagonista. Per fare in modo che lo schianto di Belfort sia lo schianto di qualsiasi (timida o manifesta) intenzione dello spettatore nel patteggiare per quel losco individuo. A tal proposito è la lunghissima sequenza della paralisi a sferrare il pugno nello stomaco necessario per risvegliare le coscienze: quel corpo ridotto ad una larva patetica che si trascina, che addirittura guida e che è tal punto assuefatto alla cocacina da immaginare l’eccitazione della droga come gli spinaci di Braccio di Ferro! Scorsese ci mostra l’umiliazione del suo protagonista senza sconti: lentamente, senza ellissi e deformando la realtà così come la droga deforma la percezione di Belfort e tenendosi come gran finale l’inganno supremo. La rivelazione dell’auto distrutta quando la si pensava sana e salva (senza contare l’agghiacciante possibilità di mietere vittime) è la definitiva presa di posizione del regista, è constatazione dei fatti e non semplice morale. Da lì in poi le inquadrature assumono uno sguardo diverso: si stringono intorno a Di Caprio come intorno a lui si stringe lo sfascio familiare, le indagini dell’FBI, la perdita dell’amato denaro. Le dorate pareti della sua dimora diventano gabbia, i complici creduti amici lo danno in pasto ai cani, è tutto finito. Anni dopo ritroviamo Belfort che insegna alle nuove generazioni come fare un mucchio di soldi: è avvilito ed è avvilente lo sguardo inebetito da chi si aspetta la verità rivelata da un ex galeotto.

Sarà per questo che la sensazione finale è che la Wall Street del titolo sia solo un pretesto, una cornice per raccontare l’altro elemento del titolo che assume ben più importanza: wolf, quel lupo che altri non è che la bestia del sogno americano degli anni ‘90, il lupo che sposta e investe montagne di soldi perennemente strafatto, un’intera generazione votata al capitalismo nella peggiore delle sue forme, l’illusione di poter fare tutto e avere tutto solo perché lo si può comprare. Scorsese sembra quasi tracciare un solco tra i personaggi dei suoi precedenti film e l’ultimo Jordan Belfort: in ‘Toro Scatenato’, ‘L’età dell’innocenza’, ‘Gangs of New York’ e perfino nei malavitosi di ‘Quei bravi ragazzi’ o nella follia di ‘Taxi Driver’, quegli uomini erano mossi da un sano senso di rivincita, di riscatto che poi magari li accecava e li trascinava su strade pericolose e sanguinolente; il lupo di Wall Street non ha niente di tutto questo, è semplicemente avido perché è cresciuto con il risentimento di non avere ciò che gli altri rubano, con l’invidia di non essere stato chiamato fra gli eletti a giocare sporco, ladro fra i ladri. Fondamentale, in quest’ottica, le magnifiche scene che Scorsese riesce a costruire e che si scontrano con la scena finale dell’agente FBI nella metropolitana, uomo comune fra uomini comuni, magari anche lui accecato da un senso di rivalsa che però trasforma in senso di giustizia. In altri tempi (neanche lontani, vedi ‘The Departed’) Scorsese avrebbe regalato più tempo al personaggio positivo, stavolta però sapeva di dover giocare per eccesso ed è per questo che per 179 minuti non si stacca mai da Leonardo Di Caprio che, seppur spesso circondato da decine di persone, sembra essere sempre da solo in scena. Non perché sia unico o diverso dagli altri ma perché è come tutti gli altri. Scorsese ne ha solo scelto uno di cui raccontare la storia.

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3volteM

Ho capito tutto della vita, tranne come spiegarlo agli altri.