Ci vuole impegno a non credere negli stereotipi

Miriam Goi
Collage Mag
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7 min readJan 6, 2017

Nel film Gone Girl (ve l’abbiamo consigliato il mese scorso in questa lista), adattamento dell’omonimo libro di Gillian Flynn, una donna scompare e il marito è il principale indiziato.

Una serie di colpi di scena si susseguono nel corso dei 149 minuti totali di durata del film, ma il principale merito di questa storia è fare luce su quanto la realtà possa essere distorta, tanto dai media quanto all’interno della vita di coppia. O meglio, quanto per una stessa situazione esistano differenti ‘realtà’ e narrazioni, molto diverse a seconda del punto di vista di chi le osserva e racconta.

I ruoli sociali e familiari ricoperti dai due protagonisti (Amy e Nick Dunne, interpretati rispettivamente da Rosamund Pike e Ben Affleck) sono dissezionati, analizzati e indagati per tutta la durata del film. Ne emerge in particolare uno spaccato, intenso anche se non necessariamente condivisibile, sui ruoli stereotipati di maschile e femminile che tante persone finiscono per interpretare all’interno delle relazioni, seppur coscienti della loro inconsistenza.

In corrispondenza del primo vero colpo di scena del film, lo spettatore sente in voice over una sorta di monologo recitato dal personaggio di Amy (spoiler alert: lo potete trovare qui, ma vi sconsiglio fortemente di vederlo/ascoltarlo se non avete ancora guardato il film).

Amy parla del cosiddetto ‘tropo’ o stereotipo della ‘cool girl’. Cercherò di sintetizzare il concetto senza citare parola per parola il monologo.
Una ‘cool girl’ è essenzialmente una ragazza a cui piace mangiare junk food, bere birra, guardare partite di baseball/football e film demenziali con Adam Sandler, che per qualche divina ragione riesce al tempo stesso a mangiare male ed essere sempre magra, disponibile — anche sessualmente -, ben truccata, senza un brufolo o una ruga d’espressione.

Una cool girl non si arrabbia mai e tende a socializzare e uscire soprattutto con maschi, spesso deridendo le altre ragazze per la loro estrema sensibilità e per la loro tendenza all’isterismo. Una ‘cool girl’ esiste in virtù delle persone che le stanno attorno e la percepiscono come ‘cool’. E generalmente queste persone sono maschi eterosessuali.

Drew Barrymore e Justin Long in ‘Going the Distance’ (2010)

La ‘cool girl’ è, come già detto in precedenza, uno stereotipo. È un insieme di tratti così definito da ricadere appunto più nel campo della scrittura di un personaggio che non nella realtà, ma questo non vuol dire che nella vita di tutti i giorni non si possa finire per indossare, anche solo una volta ogni tanto, in mezzo a tante, una maschera simile.

Come spiega il compianto John Berger in una puntata del suo programma Ways of Seeing, andata in onda sulla BBC nel 1972, la storia dell’arte e della pittura — salvo rarissimi esempi — è piena di personaggi femminili, prevalentemente nudi, ritratti da artisti maschi in pose vulnerabili ma soprattutto alla costante ricerca dello sguardo dello spettatore maschile ‘voyeur’.
Anche se Berger parla di storia dell’arte e, in misura minore, della maniera in cui le donne sono rappresentate nelle campagne pubblicitarie della sua epoca, buona parte della puntata è dedicata ad una discussione con alcune donne su quanto determinati linguaggi e stili — teoricamente ‘di finzione’ — abbiano finito per influenzare queste donne nella percezione di sé e del proprio corpo, nella vita vera.

Se il film Gone Girl ha contribuito a rendere popolare questo concetto, è altrettanto vero che altri film, serie tv e relativi personaggi hanno contribuito nel tempo a propagare uno stereotipo di donna che ha finito per plasmare anche un po’ la realtà. Sto parlando di personaggi come Robin Sherbatsky in How I Met Your Mother e di molti ruoli interpretati, tra le altre, da Anna Kendrick, Olivia Wilde, Cameron Diaz, Kate Hudson e Mila Kunis. Jennifer Lawrence cerca di restituire un’immagine simile non nei film che interpreta, ma in quasi tutte le sue apparizioni televisive come ospite di un talk show.

Questo ‘sfondamento’ potrebbe essere avvenuto per diverse ragioni.

Il linguaggio cinematografico tende ad essere metaforico, a funzionare per allegorie e rappresentazioni di stati emotivi e significati più ampi del singolo personaggio. Un personaggio può costituire un insieme di tratti ispirati o copiati da tante persone diverse, è un veicolo per raccontare una storia. NON È una persona reale. Ma tutto sommato negli ultimi decenni abbiamo trascorso tantissime ore della nostra vita in compagnia di personaggi di finzione (e delle vite dei loro interpreti rese ‘accessibili’ dal gossip), senza che dall’altra parte il linguaggio cinematografico diventasse una materia di studio accessibile ai più.

Kate Hudson in ‘Come farsi lasciare in 10 giorni’ (2003)

Quanti di noi hanno dovuto imparare a memoria poesie e analizzare racconti e romanzi fin dalle scuole elementari o medie?

Quanti di noi hanno potuto avere una corrispondente istruzione sul linguaggio televisivo e cinematografico, su come viene concepito, creato e realizzato ciò che poi finiamo per vedere sugli schermi delle nostre tv e dei nostri pc quasi ogni giorno? Su quale significato ha ciò che vediamo, almeno nella mente e nei propositi dei creatori di questi prodotti?

Non ho le competenze né l’intenzione di affermare che questa sia LA causa di un’eccessiva immedesimazione. La mia è un’ipotesi soggettiva basata sull’esperienza, come persona e spettatrice.

Nel film Don Jon il protagonista Jon (a.k.a. Joseph Gordon-Levitt, che del film è anche autore e regista) è un ragazzo un po’ rude ossessionato dalla pornografia, che viene ‘beccato’ dalla sua ragazza mentre sta guardando un video porno. Al contempo lei, Barbara (Scarlett Johansson), ingurgita film romantici come fossero caramelle.
Per entrambi la realtà non è abbastanza e con le loro rispettive ‘diete’ cinematografiche non fanno altro che proiettare standard fittizi e quindi pericolosi l’uno sull’altra.

Don Jon è un film, non un documentario né un’inchiesta o indagine sociologica. Eppure riesce dove molti film falliscono: mostra il suo messaggio e la sua ‘morale’ in un modo talmente inequivocabile da risultare comprensibile e masticabile pressoché a chiunque lo guardi. Pur apprezzando certi simbolismi da cinema e tv ‘highbrow’/intellettuale, spero nell’avvento di più lavori di questo tipo, dove si riesca a mettere parzialmente in discussione il concetto di show don’t tell (mostra, non dire) legato al linguaggio cinematografico senza per questo restituire un prodotto scontato o di scarsa qualità.

Realizzazioni recenti come la serie tv Love (disponibile su Netflix) o pressoché tutti i film con protagonista Greta Gerwig (ad esempio Frances Ha, Mistress America e Maggie’s Plan) mettono seriamente in discussione lo stereotipo della ‘cool girl’ e spesso rappresentano il momento di disillusione provato dai personaggi quando capiscono che la ragazza che hanno davanti a sé non è un cartonato bidimensionale che non fa mai una grinza. Eppure questi prodotti arrivano a volte dagli stessi interpreti, produttori e registi che in passato hanno contribuito a far crescere l’immagine della ‘cool girl’ sul grande schermo senza curarsi che qualcuno potesse faticare a cogliere i significati più profondi di quella messa in scena.

Greta Gerwig in ‘Maggie’s Plan’ (2015)

L’industria cinematografica americana, soprattutto quella più ‘mainstream’, è ancora dominata dagli uomini. Se il ‘tropo’ della ‘cool girl’ sta subendo scossoni e sta venendo ridiscusso, non bisogna cascare in una nuova trappola: quella di demonizzare determinati tratti associati ad alcune donne, reali, e farle rientrare a forza all’interno di uno stereotipo che non è stato creato da loro e che soprattutto è stato scritto per il cinema, per la finzione.

Se la ‘cool girl’ sparisce dal grande schermo — come è un po’ successo con la ‘manic pixie dream girl’, nessuno ci assicura che non si stia facendo spazio un nuovo stereotipo, un nuovo tipo di personaggio femminile che dipende più dallo sguardo maschile che lo osserva e lo sintetizza che da se stessa.

Come scrive Bim Adewunmi sul Guardian, ‘Il vero problema è che veniamo ancora incastrate in definizioni limitate di ciò che possiamo essere. Forse il modo per indebolire e sradicare questa tendenza è attaccare la legittimità dei vari titoli che siamo ‘costrette’ ad adottare’.

Piuttosto si dovrebbe demitizzare (e non demonizzare) l’industria nel suo insieme, considerarne i difetti e le mancanze strutturali.

Proporre critiche coraggiose, anche quando possono apparire noiose o eccessivamente ‘politically correct’.

E soprattutto, promuovere la presenza di più donne, più persone di colore, più persone LGBTQ, più persone che non siano ‘i soliti’, all’interno delle cosiddette ‘writers’ room’, le ‘stanze’ dove nascono le sceneggiature e i dialoghi che andremo ad ascoltare, trascrivere, condividere sui social con delle gif esemplari. Che andranno ad influenzarci almeno un po’, talvolta senza rendercene totalmente conto, nel modo in cui ci interfacceremo col mondo reale.

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Per approfondimenti:

Tracy Moore su Jezebel, ‘The ‘Cool Girl’ Is Not Fiction, But a Phase

Rachel Maus su Worship The Fandom, ‘How The “Cool Girl” Became The New “Manic Pixie Dream Girl

Roisin Lanigan su The Tab, ‘The Rise and Rise of The Cool Girl

EW Staff su Entertainment Weekly, ‘Searching for the ultimate TV/movie ‘Cool Girl’

Harriet Williamson su Open Democracy, ‘Manic Pixies and Cool Girls: on female solidarity and the male gaze

Kelsey Wallace su Bitch Media, ‘Name That Trope: She’s Hot! She’s Cool! She’s One of The Guys!

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Miriam Goi
Collage Mag

Ossessionata dalle parole e da ciò che possono creare e distruggere. Ci sono "pezzi di me" su Soft Revolution, Rivista Studio, VICE e Prismo.