Del soffritto e dei righini

sofia tieppo
Collage Mag
Published in
6 min readDec 29, 2016

Parlare di perfezione è parlare di estetica. Eppure l’eyeliner, quel maledetto.

Un’indagine semiseria su atti perfetti impossibili da realizzare e il loro contrario: cose irritanti che provocano disagio, ma che possono capitare.

Eyeliner

Un’illustrazione di Bi

Mettersi l’eyeliner ha a che fare soprattutto con la precisione. Quante volte in piedi davanti allo specchio, con i minuti contati succede di macchiarsi la palpebra destra e abbozzare leggermente la sinistra, e viceversa. Anche senza avere i minuti contati.

Non è una di quelle cose che se fatta “sbagliata” potrebbe rispondere a qualche nuovo canone estetico, no l’eyeliner messo male è messo male, non ci si salva.

Che poi sì, si cerca di camuffare. La linea spesso è leggermente seghettata e gli occhi non sono simmetrici. Ma in linea di massima, ecco, ci si allontana un po’ dallo specchio e va tutto bene.

Una mia coinquilina vantava una meticolosità quasi certosina nel truccarsi, il momento dell’eyeliner era sacro. Iniziava tracciando una linea da inizio occhio che seguiva l’arco delle ciglia per allungarla verso la fine, poi proseguiva con l’occhio aperto assicurandosi che la curvatura fosse ben visibile. Solo con l’occhio aperto si può verificare la qualità della curvatura. A quel punto andava a riempirla e a ripassare la linea sopra la ciglia. Ma poi, mi spiegava, dipende da quanto vuoi fare il trucco pesante, insomma se è giorno o sera oppure se si usa il pennellino fisso o mobile, o addirittura quello con le setole.

Ora, nonostante lei facesse quelle tipiche smorfie facciali durante l’ora del trucco agli occhi, il suo risultato era sempre ineccepibile. Da parte mia, con tutte le stesse smorfie, finito il trucco allontano il viso dallo specchio, sbatto le ciglia e conto sulla miopia della gente.

Non che sia una legge scritta, quella della perfezione. L’uovo all’occhio di bue per un buon 80% non esce perfetto. Ma se si parla di cibo, parliamo del soffritto.

Soffritto

Un’illustrazione di Bi

Tre cose decretano l’inesorabile passaggio all’età adulta: aprire un conto in banca, sbrinare il congelatore, fare il soffritto.

Tempo fa su Rivista Studio, Tommaso Melilli ha raccontato il momento in cui ha insegnato al coinquilino francese a fare il soffritto:

Quindi spiegare che deve tagliare le cipolle, poco aglio, il sedano, le carote, tutto in pezzetti minuscoli e tutti della stessa dimensione (tranne le carote che devono essere impercettibilmente più piccole perché ci mettono di più a cuocere).

Poi mostrare come, con una pentola a fondo spesso (se non ce l’avete, lasciate perdere), con un filo d’olio, devi scaldare a fuoco bassissimo, far sfrigolare, ma pochissimo, muovere sempre col cucchiaio e osservare i pezzettini che impallidiscono, e muoverli, e rigirarli, e non dimenticarne mai nemmeno uno negli angoli o sui bordi.

Poi, il segreto: quando hai la sensazione che non sta più succedendo niente, alzare leggermente il fuoco, e ricominciare a muovere finché di nuovo non succede nulla. E no: non puoi andare in bagno mentre fai il soffritto, non puoi fumare una sigaretta, non puoi telefonare.

Questo pezzo mi ha aperto un mondo, non quello del soffritto, ma in fondo sì anche quello. Il fatto è che mentre cucino vado in bagno (mi faccio la doccia, capelli inclusi) o sono al telefono, anche se non chiamo qualcuno guardo comunque il telefono.

Quando non sono in bagno o al telefono, fumo e bevo, di solito nello stesso momento.

Il tutto mentre cucino. A fuoco basso, di solito, con le patate nel forno e la pasta sul fuoco.

Mai il soffritto, quello rimane un terreno inesplorato per gli studenti senza particolari passioni culinarie che fanno la spesa da Lidl (quanto studiavo la facevo al Penny Market, a dirla tutta).

In un mondo in cui o sei multitasking o muori, quel fare mediocremente tutto si scontra con l’eseguire-alla-perfezione-una-cosa. E qui il soffritto ci sta battendo alla grande.

Attenzione: mica è sicuro che facendo solo il soffritto, unicamente il soffritto, verrà automaticamente perfetto. Come scrive Melillo: le verdure tagliate tutte uguali (a parte le carote), la pentola a fondo spesso, il fuoco bassissimo e poi leggermente più alto, ecc. A casa non tengo cipolle, spesso sono andate a male lasciando odori che impregnavano i vestiti, idem per l’aglio. Il sedano non credo sia mai entrato dalla porta d’ingresso e le carote le brucio, continuamente.

Dei delitti e delle pene, alias dei righini e delle vedove. Nemici giurati dei redattori, flagelli dei tipografi che ai tempi pre-Adobe imploravano sempre un buona la prima. Eppure, per quante attenzioni, eccoli e rieccoli a disturbare il paratesto con la loro presunzione.

Le vedove e i righini

Un’illustrazione di Bi

La fantastica arte del correttore di bozze consiste, oltre che nello scovare refusi, anche nell’impaginazione del testo. Nello specifico si cerca (leggi: bisogna) di evitare (per inciso: come la peste) che la pagina cominci con una vedova, cioè con l’ultima riga di un capoverso iniziato nella pagina precedente. Oppure che finisca con la riga iniziale di un capoverso, un’orfana. A queste tipologie di righe mozze va aggiunto il righino, ossia un inizio capoverso formato da una parola incompleta.

Se però l’orfana è un errore più facile da evitare, le vedove e i righini si annidano nei meandri del testo e sbucano fuori beffardi ad ogni revisione. Come dire, sono sbagliati perché danno fastidio. Provate a prendere in mano un’edizione di un libro, capirete subito quanto è stata accurata la revisione dalla presenza (o dall’assenza) di vedove e righini. Alle volte sono inevitabili, ovviamente, eppure sta tutto nello stretchare impercettibilmente paragrafi precedenti.

Dal canto mio mi scoccia trovarli, sempre meglio dei refusi, però rovinano qualcosa. Elementi che hanno a che fare con la cura editoriale nel senso più tradizionale del termine, con quei meccanismi tediosi che si celano dietro ad un’edizione ma a cui non si pensa mai perché non devono farsi vedere. Se si vedono il lavoro è solo perfezionabile, non perfetto.

Tirare su col naso

Un’illustrazione di Bi

Pure pronunciarlo appare contorto e sgradevole. Come mai non è stata inventata una parola per descrivere quest’azione precisa? Che ne so, come il termine russo pochemuchk, per indicare una persona che fa troppe domande oppure il sostantivo norvegese utepils, cioè una birra bevuta all’aria aperta.

Tirare-su-col-naso è un concetto irritante solo da pronunciare, e già per questo aderisce perfettamente al sentimento di disagio che provoca. Sarebbe troppo facile dire al tizio in autobus “scusi può non minglulu”, mentre così ci si cala nell’imbarazzo di scandire una frase particolarmente ostica. Un imbarazzo che si fa tabù, in certi casi. Nel senso, si pensa sempre due volte prima di chiedere al tizio in autobus di smettere di TSCN, un po’ per mancanza di confidenza, un po’ per non sembrare inopportuni.

Facendo due conti è chiaro che quel tale ha un’idea diversa dalla nostra dello stare al mondo, e dello stare in autobus. Perciò s’inizia a dare pan per focaccia e le si prova tutte, adagio: “Vuoi un fazzoletto?”, velato ma tagliente, se risponde “No, grazie” di colpo l’irritazione si trasforma in spavento. Davvero non si rende conto? Ma soprattutto: è un essere umano?

Nondimeno si può sempre insistere, dichiarando ufficialmente guerra. Una volta in biblioteca mi sono alzata per offrire un fazzoletto ad un ragazzo, che non essendo italiano non capiva la lingua o l’intento e ha declinato l’offerta. “Soffiati il naso” ho ribattuto spiccia. Ma quanto possiamo essere impertinenti? Come possono continuare ad esserlo le altre persone?

E che fatica comunque, sentire il naso che cola e tirare su, per poi risentirlo colare e tirare su, cola ancora e tirare su. Momenti in cui vorrei lavorare per l’agenzia pubblicitaria dei fazzoletti Tempo, così da promuoverne la raffinata utilità, e la loro perfetta risposta ai TSCN seriali.

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