Quest’anno voglio essere incoerente

Miriam Goi
Collage Mag
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6 min readJan 4, 2017

Qualche settimana prima di Natale ho visto Captain Fantastic. Il film, diretto da Matt Ross, racconta la storia di Ben (Viggo Mortensen) e dei suoi sei figli, Vespyr, Kielyr, Zaja, Rellian, Nai e Bo.

Il loro stile di vita è inusuale. La famiglia Cash vive infatti in un posto sperduto in mezzo alla foresta nord americana. Anche i più piccoli sono in grado di cacciare, coltivare, sopportare sforzi fisici notevoli, meditare, leggere libri complessi, suonare strumenti musicali.

Ognuno dei personaggi è a suo modo eccentrico, creativo, indipendente, spigliato.

Si vestono con colori sgargianti, celebrano Noam Chomsky come fosse Babbo Natale.

Ben è al centro della scena. Il personaggio interpretato da Viggo Mortensen è il padre, l’insegnante, l’istruttore, l’allenatore dei propri figli. La sua è una figura chiave complessa, amata e temuta al tempo stesso, dedita a portare avanti il suo ‘progetto’ e a difendere il suo stile di vita senza ripensamenti. In mezzo alla foresta in cui vivono, lui è l’albero più stabile e ben piantato di tutti. Dritto e irreprensibile.

‘Che quello che abbiamo creato qui possa essere unico nella storia dell’umanità’ dice.

Un espediente drammatico li costringe ad un viaggio formativo verso la società consumistica, dove regnano l’abbondanza, l’obesità, la pigrizia e i videogiochi.

C’è una bellissima scena del film in cui tutti i protagonisti sono seduti attorno ad un tavolo, insieme a Harper e Dave (la sorella di Ben e il marito, interpretati da Kathryn Hahn e da Steve Zahn) e ai loro due figli adolescenti.
Questo è il primo momento del film dove viene messo in scena il potente contrasto tra due stili di vita che non potrebbero essere più diversi.

Nai chiede come è stato cacciato il pollo che viene messo in tavola e la zia impacciata riesce a malapena a risponderle che si tratta di un pollo biologico, ma che non l’hanno ucciso con le proprie mani. Spiega come sul bancone dei supermercati si possano trovare questi ed altri prodotti.

In un altro momento, Harper e Dave cercano di nascondere ai propri figli la realtà sulla morte di una loro familiare, mentre Ben li incalza a dire loro la verità, a parlare di depressione, malattie mentali, della disperazione provata dalla persona che si è suicidata pochi giorni prima.

Questi contrasti generano ovviamente dei litigi e l’apice della ‘guerra’ tra i due mondi è il momento in cui Harper, estenuata, urla a suo fratello Ben che i suoi figli avrebbero bisogno di frequentare una scuola vera e che non sanno niente del mondo. A quel punto Ben mette alla prova i figli teenager di Harper chiedendo loro che cos’è il Bill of Rights e pone la stessa domanda poco dopo alla piccola figlia Zaja, che non solo conosce la risposta ma anche alcuni passaggi del Bill of Rights pressoché a memoria.

Ci sono diversi momenti nel corso del film in cui la scrittura, i personaggi e lo svolgersi della vicenda comunicheranno allo spettatore che sapere la Costituzione degli Stati Uniti a memoria non rende questi bambini e adolescenti migliori degli altri. O meglio, li rende più preparati sul piano culturale e storico del proprio Paese ma meno su quello sociale e umano, visto che non condividono il loro ‘paradiso’, quel ‘qualcosa di unico nella storia dell’umanità’ con altre persone, altri bambini e ragazzi della loro età.

Ben non è un mostro. E non sono mostri nemmeno i parenti ‘civilizzati’ della famiglia Cash.

Forse il pregio più grande di questo film è quello di mostrare tanta empatia per i suoi protagonisti, di perdonarli per i loro errori ed estremismi, per la loro incapacità negli anni di mettere in discussione scelte e prese di posizione stabilite nel passato e imposte ai membri più deboli della famiglia.

In questo periodo sto riflettendo molto sul potere dell’incoerenza, sulla forza che possono avere i nostri difetti e le nostre debolezze. Per quanto ci sforziamo a presentarci al mondo come superumani perfettamente coerenti — come se una persona potesse essere riassunta in una palette colori ben precisa, come una moodboard o un film — siamo circondati e al tempo stesso dominati dal caos, dalla confusione, da continui ripensamenti e influenze esterne.

Una scena di My-So Called Life

La prospettiva di fare compromessi spesso ci appare come una bestialità, un tradimento dei nostri principi.

La quantità di ore che molti di noi spendono sui social media di certo non aiuta.

Facebook, Twitter, Instagram ci permettono di possedere una sorta di inventario delle persone con cui siamo in contatto, a cui possiamo costantemente chiedere il conto degli errori, dei refusi, degli strafalcioni, dei passi falsi fatti in pubblico.

Possiamo usare gli screenshot come ricevuta, come prova, anche quando la persona ha cercato di eliminare le tracce di un’opinione o di una battuta infelice, come dimostrazione che noi c’eravamo, quando la pensavano nel modo giusto o sbagliato e che siamo qui e non ce ne andiamo.

Ci improvvisiamo giudici pur non avendone il diritto né le competenze.

Vi ricorda qualcosa?

Se dovessi riassumere i miei buoni propositi per il 2017 in poche parole, direi che vorrei uscire un po’ più allo scoperto.
Dedicarmi al mio corpo e prendermene cura più che in passato.
Pensare a divertirmi e interagire con le persone più di quanto penso ad intrattenermi in maniera passiva.

Vorrei continuare a ricordare/mi che assorbire tantissimi stimoli culturali, letture, film e nozioni, non serve a nulla se non ci interfacciamo più col mondo reale e ci chiudiamo nelle nostre torri a inveire contro quelli che non hanno capito, che non la pensano come noi.

L’Altro può essere chiunque: il populista, l’ateo, il religioso, quello dell’altro partito, quello che non ha capito la nostre idee, quello che crede nell’ideologia opposta.
Familiari, colleghi, amici, conoscenti, vicini di casa possono essere le persone su cui proiettare le nostre intransigenze, i loro errori il modo per capire che abbiamo ragione noi, l’ennesima tacca per permetterci di danzare al nostro successo.

A marzo dello scorso anno sono andata a mangiare in un ristorante cinese in zona Paolo Sarpi, nella cosiddetta ‘Chinatown’ di Milano. Ho ordinato alcune portate, tra cui alcuni spiedini, stando attenta a selezionare soltanto piatti che non contenessero carne. Lo spiedino di funghi era così buono che ho voluto ordinarne un altro.

‘OK, te lo porto, ma guarda che è ricoperto di bacon. Va bene lo stesso?’ mi ha detto la cameriera.

Erano passati circa dieci anni dall’ultima volta che avevo mangiato carne.
Ho rifiutato e optato per lo spiedino coi funghi e senza carne.

Mi veniva da piangere.

Non perché avessi tradito il mio stile di vita mangiando un pezzo di bacon.
Ma perché era una delle cose più buone che avessi mangiato negli ultimi anni e avrei voluto riassaporarne un altro po’.
Nel giro di qualche giorno ho ricominciato, con moderazione, a mangiare carne.

Con questo non voglio pretendere di diventare una ‘poster girl’ dell’alimentazione onnivora. Stimo e rispetto qualsiasi scelta alimentare venga fatta, che si tratti di diventare vegetariani, vegani, di eliminare il glutine dai propri pasti o di mangiare macrobiotico.
Ma vorrei celebrare quei momenti in cui si cambia idea e, pur sapendo che magari non si sta andando nella direzione più giusta, accettare che momenti così capitano e sarebbe insensato reprimerli.

Viviamo in un momento storico molto particolare, Trump sta per insediarsi alla Casa Bianca, in Italia siamo piombati nuovamente in una situazione politica instabile e litigiosa (se mai ne siamo usciti), i partiti populisti stanno guadagnando consenso in tutta Europa.

Mai come ora abbiamo bisogno tanto di una ‘stanza tutta per sé’ dove fermarci a ragionare tanto quanto di una dimensione collettiva e di condivisione dove metterci in discussione, confrontare i punti di vista e imparare a puntare un po’ meno il dito contro gli altri. E ogni tanto, perché no, gioire di aver sbagliato ma di avere avuto la possibilità di capirlo.

Avere un dialogo con sé stessi è infatti molto piacevole ma se non apriamo mai le finestre della nostra mente per far passare un po’ d’aria, non c’è bisogno che vi dica che la muffa non tarderà ad arrivare.

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Miriam Goi
Collage Mag

Ossessionata dalle parole e da ciò che possono creare e distruggere. Ci sono "pezzi di me" su Soft Revolution, Rivista Studio, VICE e Prismo.