Fazzoletti e altri autoinganni

Bianca Sorrentino
ARTop magazine

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Otello — Quel fazzoletto, che tanto amavo e che avevo donato a te, tu lo donasti a Cassio.

Desdemona — No, per la vita e l’anima mia. Mandalo a chiamare e chiedi a lui.

Otello — Anima dolce, sta’ attenta, sta’ attenta allo spergiuro. Sei sul letto di morte.”

(William Shakespeare, Otello)

Tradizionalmente definita come la tragedia della gelosia per antonomasia, Otello è il capolavoro shakespeariano cui è liberamente ispirato lo spettacolo di e con Luigi Lo Cascio, in scena al Teatro Quirino di Roma dal 17 al 29 marzo. Il soggetto, ricco di rimandi al modello, ma, allo stesso tempo, esperimento estremamente creativo, rivela da un lato un atteggiamento riverente nei confronti della fonte e dall’altro una profonda volontà di ricerca.

La prima novità rispetto all’originale riguarda l’aspetto linguistico: a sorprendere gli spettatori v’è la scelta del siciliano, che potrà parere dissacrante ai più, ma che in realtà rende poeticamente omaggio agli endecasillabi shakespeariani col proprio portato di lingua letteraria. Un’ulteriore differenza consiste nel numero dei personaggi, simbolicamente ridotti a quattro: il protagonista, sua moglie Desdemona, l’alfiere Iago e un soldato — che manca nella tragedia seicentesca e che qui svolge la funzione del coro, interpretando, cioè, la coscienza critica. La terza ed ultima variante concerne la sequenza temporale, che qui risulta invertita rispetto alla fonte: il dramma ha inizio quando la tragedia si è già consumata; il racconto che ne segue è quello del soldato e ciò cui gli spettatori assistono è la sua verità.

Photo Antonio Parrinello

Il narratore mette subito in chiaro che quella di Otello non è la storia di un moro, ma la storia di un uomo: non è il colore della sua pelle a determinare la violenza efferata del suo comportamento. La priorità è dunque quella di riscattare la memoria degli eventi, ed è per questo che il soldato rimane in disparte sulla scena, a commentare gli episodi affinché il pubblico li comprenda a fondo. Così questa figura rassicurante, interpretata da Giovanni Calcagno, sta a guardia del captivus (nel doppio significato di perfido e prigioniero) Iago — un magistrale Luigi Lo Cascio -, che, legato a una corda, squarcia, con un gesto tipicamente metateatrale, la quarta dimensione, chiedendo agli spettatori come sia possibile rimanere impassibilmente seduti quando sul palcoscenico si sta consumando una tragedia.

Photo Antonio Parrinello

Come può un amore tanto viscerale trasformarsi in disprezzo e desiderio di vendetta? Più che di gelosia, sarebbe opportuno parlare di tragedia degli opposti: Desdemona, nobile veneziana, si innamora di Otello perché lui le racconta dei suoi viaggi lontani; al contrario, il condottiere resta incantato dalla purezza della giovane, dal suo essere aristocratica che si manifesta non solo nella grandezza d’animo, ma anche nella cristallina dizione italiana, che tanto contrasta col suo aspro siciliano. La minuta Desdemona di Valentina Cenni e il vigoroso Otello di Vincenzo Pirrotta sono senz’altro antitetici e apparentemente incompatibili, eppure si vengono incontro, l’una imparando la pratica delle arti marziali e l’altro con parentesi di struggente tenerezza.

Photo Antonio Parrinello

La perfidia di Iago si inserisce dunque in una crepa che già esiste nel rapporto dei due, fatto di continui compromessi. Se un tempo le parole erano servite a Otello per conquistare la sua bella, adesso le parole diventano lo strumento di cui l’alfiere si serve per convincere il condottiero dell’infedeltà di sua moglie: il mostro dagli occhi verdi — la gelosia — si impossessa allora del protagonista, offuscando la sua lucidità; il suo sguardo diviene allucinato, il suo periodare confuso, la sua figura corpulenta si muove sul palco senza sapere dove andare: egli non può tollerare che il regalo più prezioso tra quelli fatti a Desdemona, lei lo abbia donato a un altro. Poco importa se la donna si dichiara innocente e se la sua reazione di fronte alle urla assordanti del marito è un silenzio pieno di dignità: Otello è già dentro la rete. Solo più tardi si scoprirà che quel fazzoletto, pegno d’amore, l’uomo non sapeva nemmeno come fosse fatto.

Photo Antonio Parrinello

La novità più sostanziale sta nel tentativo di dare un senso alla misoginia di Iago: è uno dei momenti più stranianti dello spettacolo, quello in cui il personaggio, protetto da una cornice ma allo stesso tempo posto da questa al centro dell’attenzione, si confessa, racconta stranito il trauma della sua infanzia, quando scoprì sua madre con un altro uomo e scappò via da casa, sentendosi un ladro, lui che in quel momento era l’unico derubato. Una digressione, questa, che sospende il tempo e scava nel bisogno di un perché, alla ricerca di una chiave che decifri l’enigma. D’altra parte è vero anche che lo spessore della tragedia shakespeariana è dato dal mistero che è la cifra delle passioni umane e che resta impenetrabile.

La produzione del Teatro Stabile di Catania insieme all’ERTEmilia Romagna Teatro Fondazione è arricchita dalle scenografie, dai costumi e dalle animazioni di Nicola Console e Alice Mangano, proiettate su un grande lenzuolo bianco, che amplifica l’allusione al fazzoletto traditore. Nella parte finale dello spettacolo, le luci di Pasquale Mari cambiano volto alla scena, che si apre su un paesaggio lunare, dove sono finiti il soldato e un Otello ormai in preda alla follia; come nel celebre episodio dell’Astolfo ariostesco, i due uomini sono in cerca dell’ampolla che contiene le lacrime versate da Desdemona, per poterle costruire un altare e ottenere così il suo perdono. All’omaggio alla letteratura fa da controcanto un omaggio al cinema, e, in particolare, all’Otello pasoliniano di Che cosa sono le nuvole?: i due amici, quando ormai la loro avventura sta per terminare e dopo aver condiviso momenti di atroce disumanità, si fermano, in una parentesi di sospensione temporale, a contemplare il cielo stellato. Nonostante le incomprensioni, gli inganni e gli autoinganni, resta intatta, per loro, la capacità di stupirsi; a noi resta la riscoperta di un patrimonio linguistico, quello siciliano, che è per eccellenza quello del racconto e che apre nuovi scenari di valorizzazione: “Talìa che strazianti, miravigghiusa biddizza, u firmamentu” (O, per dirla con Pasolini, “Oh, straziante, meravigliosa bellezza del creato“)!

Bianca Sorrentino

Originally published at martebenicult.wordpress.com on March 29, 2015.

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Noi che non abbiamo / altra felicità che di parole (Camillo Sbarbaro)