La Direttiva UE sul copyright: cosa prevede davvero e perché è così sbagliata

Facciamo chiarezza (con un po’ di ritardo) sulla Direttiva UE sul copyright, in attesa dell’accordo definitivo sulla direttiva, previsto per fine anno

Luca Martinelli
Comitato Ventotene
11 min readDec 10, 2018

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La Proposta di Direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale è parte della strategia di costituzione del Single Digital Market, una sorta di regolamentazione-quadro di tutto ciò che concerne l’economia prodotta o sostenuta dal digitale (diritti di trasmissione, editoria digitale, ecc.). Fino a oggi, il comparto sul diritto d’autore era parzialmente regolamentato dalla direttiva 2001/29/CE, risalente appunto al 2001.

Gli obiettivi di questa nuova direttiva, posti dalla Commissione europea, sono tre:
1. armonizzare il complesso reticolo di limitazioni ed esenzioni attualmente esistenti nei 28 Paesi UE riguardo il diritto d’autore;
2. migliorare l’accesso alle risorse online per tutti (compresi consumatori e imprese);
3. garantire che il digitale sia un motore di crescita per l’economia europea.

A questi obiettivi, secondo l’opinione dello scrivente, ne va aggiunto un altro “non confessabile pubblicamente”: colpire in qualche modo i cosiddetti “over the top, ossia le piattaforme quasi-monopolistiche statunitensi come Google, Apple, Facebook o Amazon (per cui è stata coniata da tempo la nuova sigla “GAFA”).

L a Direttiva sul copyright costituisce una delle iniziative più controverse dell’attuale legislatura comunitaria (Pe3k/Shutterstock.com).

Questo articolo tenterà di fare ordine nella vicenda, innanzitutto ricostruendo il percorso della direttiva, poi analizzandola nei suoi articoli principali e, infine, argomentando perché, a parere dello scrivente, non riuscirà a conseguire alcuno degli obiettivi preposti.

1. Le tappe principali della vicenda

Il testo, o meglio, i testi — al momento ci sono tre differenti versioni in fase di conciliazione — in discussione sono il risultato di un lungo percorso che ha attraversato l’intera legislatura 2014–2019 e che nell'ultimo anno si è trasformato in un durissimo muro contro muro.

Protagonisti principali dello scontro: da un lato il presidente della Commissione Affari legali (JURI) e relatore del relativo testo, il tedesco Axel Voss (CDU-EPP), e dall'altro un’eterogenea coalizione di parlamentari europei, “guidata” da Julia Reda (Piraten Partei-G/EFA), di ONG e altre organizzazioni non-profit.

Axel Voss (sinistra, Digital Agenda Intergroup) e Julia Reda (destra, Bild: Tobias M. Eckrich ).

È d’obbligo segnalare che la vicenda della direttiva è stata seguita con una certa attenzione solo a partire da luglio di quest’anno, in concomitanza con quello che avrebbe dovuto essere il primo voto del Parlamento sulla bozza di direttiva. In quell'occasione, complice anche l’improvviso “oscuramento” di Wikipedia (le cui ragioni sono disponibili qui), il Parlamento europeo votò contro l’adozione sic et simpliciter della bozza, aprendo la possibilità per i singoli parlamentari di poter proporre emendamenti.

Il voto su questi emendamenti (e il relativo secondo voto sull'approvazione della direttiva) si è tenuto lo scorso settembre e ha segnato una grande vittoria personale per Voss, che ha visto sostanzialmente confermato il testo di cui era relatore. Se alcune delle norme più odiose, come il filtro preventivo automatico, sono state eliminate dal testo approvato, ci sono altri emendamenti che hanno lievemente peggiorato il testo rispetto alla versione di luglio.

Attualmente, siamo nella fase di “trilogo” (o “dialogo a tre”) fra Commissione, Consiglio e Parlamento. L’attuale tabella di marcia prevede che la versione consolidata della direttiva (che molto probabilmente ricalcherà al 99% il testo approvato a settembre) venga approvata entro fine anno, per poi essere definitivamente approvata dal Parlamento prima della scadenza della legislatura (quindi entro marzo 2019). Dopo questa approvazione, sarà poi compito dei Parlamenti nazionali integrare la direttiva nei loro ordinamenti.

Non c’è però alcuna sicurezza sul rispetto di questi termini: l’intero processo è già in ritardo di un anno sul progetto originario e non è detto che non venga rallentato ulteriormente quel tanto che basta in modo da far saltare tutto. Infatti, qualora il Parlamento non approvi in terza e ultima lettura il testo entro il termine stabilito, l’intera procedura dovrà ripartire da capo con la nuova legislatura 2019–2024.

2. I contenuti della direttiva

Il concetto fondamentale della direttiva è “eccezione”: esistono le regole, a cui poi il legislatore europeo “concede” qui e là alcune eccezioni esplicite, le quali a loro volta sono passibili di ulteriori eccezioni. Di seguito, saranno analizzati i principali articoli della direttiva.

2.1. Text e data mining

Secondo l’articolo 3 della proposta di direttiva, chi intende effettuare dei procedimenti automatizzati di analisi su enormi quantità di testi e/o di dati (colloquialmente definiti, appunto, text mining o data mining) dovrà chiedere il permesso al detentore dei diritti su tali materiali, tranne nel caso in cui queste analisi vengano effettuate a scopi di ricerca scientifica.

Riguardo questo argomento, il prof. Martin Kretschmer (docente di Intellectual Property Law presso l’Università di Glasgow) nota in un suo intervento tutte le limitazioni di questo articolo, fra cui si fanno risaltare in questa sede l’assenza di un’eccezione per le inchieste giornalistiche o gli effetti negativi per le imprese che operano nel campo del machine learning. Lo scrivente si permette di aggiungere che, nel caso si fosse fatto questo per evitare un nuovo caso “Cambridge Analytica”, le misure proposte difficilmente potranno essere applicate in territorio statunitense in assenza di un accordo trans-atlantico.

2.2. Uso a “fini didattici” di materiali digitali

L’articolo 4 segue più o meno lo stesso approccio: è concesso l’uso di libri scolastici e spartiti musicali digitali a fini didattici previa «adeguati accordi di licenza […] rispondenti alle necessità e specificità degli istituti di istruzione». In altri termini, viene cristallizzata l’attuale situazione per cui se paghi, accedi alla risorsa, altrimenti ti viene negato l’accesso — con buona pace di chi non raggiungerà un accordo o chi non potrà permettersi di pagare.

2.3. “Opere orfane” e tutela del patrimonio culturale

In base all'articolo 3-bis, la richiesta di permesso di cui all’art. 3 si estende anche alle cosiddette “opere orfane (ossia quelle opere i cui detentori del copyright non sono rintracciabili e/o non si sa chi siano) e va rivolta a chi possiede materialmente il testo.

Coerentemente con questa impostazione, anche l’articolo 5 impone limitazioni alla realizzazione e alla diffusione di digitalizzazioni di opere orfane o in pubblico dominio: gli istituti culturali potranno infatti effettuare tali copie «purché sia una riproduzione fedele a fini di conservazione» (corsivo aggiunto). A parte il fatto che questa norma esclude tutti gli enti che non siano “istituti culturali” e che la sua applicazione si estende anche a opere i cui diritti sono scaduti(!), non si fa alcun riferimento alla possibilità di eventuali “usi commerciali” di queste digitalizzazioni. Saranno dunque i singoli Stati a decidere in materia? E come?

Di sicuro, secondo l’articolo 7, sarà possibile per gli istituti di tutela del patrimonio culturale mettere a disposizione online copie di opere fuori commercio per fini non di lucro — ovviamente, con la possibilità per uno Stato di imporre un’eccezione a questa regola (e l’Italia è una potenziale candidata a imporla).

Internet Archive condivide (fra le altre cose) intere collezioni digitali di libri in pubblico dominio donate da numerosissime istituzioni, pubbliche e private. Se la direttiva sarà approvata, che fine faranno le collezioni e le opere nella disponibilità di istituzioni europee?

Tutto questo potrebbe essere addirittura in contrasto con un’altra direttiva del 2012, che invece era volta a garantire le istituzioni culturali che intendevano digitalizzare e mettere a disposizione del pubblico queste opere. Di sicuro, fa emergere un certo “strabismo” delle Istituzioni europee, che da un lato approvano questo tipo di proposte e, dall'altro, appoggiano coalizioni e iniziative per favorire l’open access in ambito scientifico.

2.4. La cosiddetta “link tax”

L’articolo 11 è stato uno degli articoli più contestati della proposta, al punto da aver ricevuto l’opposizione esplicita di 110 eurodeputati di vari gruppi parlamentari nella sua versione di luglio. L’idea originaria era quello di attribuire agli editori (e non agli autori) un nuovo diritto ancillare sui cosiddetti “snippet, ossia su quei link a una notizia che contengono anche una piccola preview del testo, della durata di cinque anni a rivalersi sugli aggregatori di notizie (da cui l’improprio nome di “snippet tax” o “link tax”).

Si tratta dell’ennesima riproposizione dello scontro fra editori e Google News, in corso da circa sei anni, che finora ha visto perlopiù prevalere l’azienda di Mountain View. Per dirla con le parole di Bruno Saetta (su Valigia Blu del 29 agosto 2016 — sì, duemilasedici): «non [è] un problema di cosa sia giusto per legge, ma piuttosto una questione di ridistribuzione dei profitti online. […] Visto che [gli editori] non riescono a fare sufficienti profitti col loro lavoro, frignano verso il legislatore chiedendo di mungere la vacca grassa: Google.»

In altri termini, sebbene siano gli editori a guadagnare in visibilità dal servizio fornito da Google News, vorrebbero che a pagare sia Google — magari dietro obbligo legislativo. Nonostante questo approccio non abbia sortito granché effetti positivi, gli editori hanno scelto di insistere su questa strada anche a livello europeo, anziché intraprendere la più difficile strada dell’investire sulla qualità dei propri articoli e sul recupero del rapporto di fiducia con i propri lettori.

Un esempio dell’investimento in “qualità del servizio” da parte del principale quotidiano italiano (screenshot di Maurizio Codogno, tratto da qui).

L’articolo nella sua forma attuale è stato lievemente emendato in modo da escludere l’applicazione di questo diritto nel caso in cui il link sia accompagnato da “parole singole”, ma la sostanza non cambia. La cosa più preoccupante comunque, come sempre Bruno Saetta fa notare, è che in molti non hanno compreso la reale portata della norma, forse spingendosi fino a sovrastimare gli eventuali effetti “positivi” (per alcuni) della norma e decisamente sottostimando quelli negativi (per tutti).

Esiste, infatti, il rischio che Google decida di far pagare gli editori per il loro posizionamento in Google News (neutralizzando di fatto le entrate derivanti da questo diritto), oppure di chiudere o limitare il servizio, come d'altronde già fa in Germania.

2.5. I filtri preventivi

L’articolo 13 è stato l’altra pietra dello scandalo del provvedimento. Originariamente, prevedeva che tutte le piattaforme online si dotassero di un sistema di filtraggio automatico dei contenuti, per impedire il riutilizzo di opere coperte dal diritto d’autore senza il permesso del detentore. In altri termini, lo scopo del legislatore era (e rimane ancora) quello di far ricadere sulle piattaforme private online la responsabilità di controllare il caricamento, ed eventualmente inibire l’accesso, a contenuti in violazione di copyright.

Anche qui, parliamo di un altro sgradito, “eterno ritorno”: le polemiche sulla pirateria intellettuale, specie in ambito editoriale e musicale, risalgono perlomeno alla fine degli anni novanta (chi scrive ricorda ancora i fasti di Napster). Una battaglia che è sempre stata di retroguardia, perché volta a sopprimere, anziché intercettare e “disciplinare”, l’evoluzione tecnologica e i bisogni dei consumatori (vale ricordare come, quattro anni dopo la vittoria di Pirro su Napster, Apple rivoluzionò il mercato con iTunes nel 2005).

La “novità” degli ultimi anni è quella di stabilire per legge che il compito di filtraggio dei contenuti “indesiderabili” spetti a un sistema “automatico” (meglio ancora se preventivo), la cui realizzazione sarebbe a carico esclusivo delle piattaforme online. Questo non è solo un aggravio dei costi per le aziende già operanti, ma è anche un nuovo ostacolo all'entrata nel mercato per eventuali nuovi competitori, che vedrebbero allontanarsi ancora un po’ più in là nel futuro l’eventuale break-even della loro impresa.

Per fortuna, la proposta è stata emendata dallo stesso Voss e l’attuale testo mette in forma di legge ciò che le piattaforme avevano già realizzato in autonomia (ossia un sistema di controllo dei contenuti che preveda anche la possibilità di appello per gli utenti). Resta il fatto che la Rete è piena di esempi di filtri che non funzionano (come i recenti filtri “anti-porno” introdotti da Tumblr o il meccanismo di segnalazione anti-copyright di YouTube che non sa riconoscere un compositore in pubblico dominio da uno che non lo è) e che la necessità di mantenere una certa opacità sulle regole del filtraggio possa tramutarsi in un ulteriore rischio per gli utenti (per esempio, qualcuno sa quali siano davvero le regole di moderazione di Facebook?).

3. Un fallimento annunciato

In estrema sintesi e sempre secondo l’opinione di chi scrive, qualora approvata questa proposta di direttiva fallirà clamorosamente nel conseguire sia i tre obiettivi espliciti, sia quello non esplicito di lotta al “cartello GAFA”, per le ragioni di seguito esposte.

Il primo motivo riguarda la natura stessa del provvedimento, ossia aver scelto una direttiva e non un regolamento. La differenza sta nel fatto che il regolamento avrebbe imposto un quadro davvero comune di regole a tutta l’UE (come per esempio è avvenuto, non senza effetti collaterali, con il Regolamento sulla protezione dei dati personali), laddove una direttiva è un provvedimento che deve essere “importato” dai singoli Parlamenti nei rispettivi ordinamenti (e può essere eventualmente adattato agli stessi). In altri termini, possiamo già dare per archiviata l’armonizzazione delle tutele del diritto d’autore fra i Paesi UE.

Il secondo motivo è che a essere sbagliata è anche l’impostazione della direttiva. Anziché definire una lista tassativa di attività vietate a livello UE (con la possibilità per i singoli Stati di adeguarla al contesto nazionale) e garantire come permesse tutte le altre, si è scelto di fare il contrario: tutto è vietato, fuorché ciò che “generosamente” viene concesso dal legislatore europeo, in forma esplicita o sotto forma di “eccezione”.

A tal punto questa impostazione risulta soverchiante che il legislatore ha sentito il dovere di ribadire, all’articolo 8, che ciò che è privo di diritti in uno Stato, lo è nell’intera Unione. Di primo acchito verrebbe da tirare un sospiro di sollievo, per poi comunque considerare che non solo un tale principio di buon senso venga espresso “così tardi” nel testo, ma addirittura dopo una serie di articoli che estendono o introducono limitazioni che, a oggi, non esistono in ambiti tutto sommato marginali.

Ancora peggio è, tuttavia, osservare come il legislatore non si sia del tutto reso conto di quali possano essere gli effetti sulla libera espressione di una tale “lotta senza quartiere alle violazioni di copyright”. Per esempio, si è già fatto riferimento all’opacità (per usare un eufemismo) delle norme di moderazione su Facebook: il fatto che, per capire perché le decisioni del social network possano essere così differenti in casi potenzialmente simili, ci sia voluta una fuga di notizie non è qualcosa che ben dispone (ancor meno se si ripensa alla prima versione della direttiva e ai suoi “filtri automatici”).

Ci sarebbe anche altro da contestare in questa proposta — per esempio, l’assenza di una norma che riconosca la “libertà di panorama (vedi anche l’approfondimento, a cura di Federico Leva, sul sito dell’associazione Wikimedia Italia), oppure come lo stesso Axel Voss abbia votato emendamenti, come quello sui diritti di ritrasmissione televisiva, di cui non aveva chiaro l’effetto finale— ma si rischierebbe di allungare ulteriormente il discorso.

Si può, dunque, serenamente concludere che nella migliore delle ipotesi:

  • gli over the top (e ancor più i “GAFA”) subiranno qualche perdita tutto sommato marginale, ammesso e non concesso che non decidano di chiudere direttamente i rami di azienda coinvolti;
  • i grandi player editoriali acquisiranno qualche nuovo diritto connesso e, forse, racimoleranno qualche soldino in più (sempre se gli over the top non decidano di ricambiare il favore agli editori, facendo pagare l’accesso ai propri servizi);
  • i piccoli attori e i newcomers (i cui interessi teoricamente avrebbero dovuto essere al centro dell’intero percorso) resteranno compressi nella loro piccola nicchia di mercato, finché questa avrà possibilità di esistere;
  • i consumatori — altro gruppo i cui interessi avrebbero dovuto essere al centro del percorso — saranno sicuramente quelli che avranno di più da perdere, in termini di servizi che potrebbero non essere più disponibili (vedi Google News) e soprattutto perché continuano a mancare tutele e garanzie sulla gestione dei loro dati (in particolare, nel caso in cui qualcuno decida di rivenderseli).

Nota dell’autore

Luca Martinelli è un giornalista pubblicista, attualmente impiegato all’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche. È membro della comunità wikimediana dal 15 gennaio 2006, amministratore di Wikipedia in italiano dal 27 gennaio 2007 e di Wikidata dall’8 novembre 2012. È stato inoltre membro del Consiglio Direttivo di Wikimedia Italia dal 5 aprile 2014 al 31 agosto 2017. È socio fondatore del Comitato Ventotene.

L’autore intende sottolineare, per correttezza nei confronti del Lettore, che le opinioni e i commenti contenuti in questo articolo sono da considerarsi espressi esclusivamente a titolo personale.

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Luca Martinelli
Comitato Ventotene

Classe 1985, ufficialmente giornalista freelance, wikipediano nel cuore e nell’anima dal 2006.