L’autocrazia dell’informazione di Orbán alla prova degli scandali

Jacopo Rossi Lucattini
Comitato Ventotene
Published in
7 min readMar 14, 2024

L’Ungheria sta attraversando una crisi istituzionale senza precedenti nel suo passato recente. Il Paese magiaro, infatti, pur governato in modo più che saldo dalla maggioranza composta da Fidesz e dal Partito Popolare Cristiano Democratico, sta vivendo mesi convulsi, segnati da scandali e dimissioni che hanno coinvolto le più alte cariche. Il culmine è stato raggiunto il 10 febbraio, quando si è dimesso il capo dello stato, la Presidente Katalin Novák. La massima carica ungherese si trovava all’estero, ma si è vista costretta a rientrare in patria con un volo notturno, per rispondere alle crescenti richieste di assumersi la responsabilità di quanto da settimane stava accadendo in tutto il Paese manifestazioni di piazza, dal carattere sempre più aggressivo, che chiedevano espressamente la sua testa. Oltre a quella di altre figure di spicco del politburo del partito di Viktor Órban, in un crescendo di indignazione che si è diffusa grazie a siti di controinformazione, nel contesto della nazione dell’Unione Europea in cui più stretto è il controllo delle autorità sui mezzi d’informazione.

Per descrivere l’Ungheria è stato infatti coniato il termine “informational autocracy”, ossia un contesto in cui il partito al potere, pur nell’ambito di un regime de jure democratico, riesce a esercitare sulle informazioni che circolano e sul modo in cui vengono gestite dai media un controllo tale, da riuscire a indirizzare l’opinione pubblica e perfino il voto, tanto da fiaccare i normali meccanismi della democrazia.

Facciamo quindi un passo indietro e vediamo a cosa sia dovuta questa improvvisa esplosione di malcontento verso un apparato che fin qui pareva godere di un apprezzamento vasto quanto granitico all’interno della società ungherese. Torniamo alle sere di febbraio in cui a Budapest si sono svolte le più grandi manifestazioni antigovernative dai tempi della caduta della Cortina di Ferro. Le autorità, solitamente molto attente nel prevenire o gestire ogni minimo accenno di insofferenza, questa volta hanno mostrato di essersi lasciate cogliere impreparate, prese in contropiede dai mezzi impiegati per diffondere il passaparola. Le televisioni e i giornali mainstream per giorni hanno ignorato le voci che correvano su internet e si sono rifiutati – in modo difficilmente spiegabile in un contesto diverso dalla citata autocrazia dell’informazione – di coprire quello che aveva tutto l’aspetto di essere il più grosso scandalo dell’era post-comunista, ma il governo si è apparentemente dimenticato dell’esistenza della rete. Le manifestazioni sono state infatti organizzate da diversi influencer e personalità appartenenti al mondo dei social media.

Il motivo della protesta era il cosiddetto “scandalo della grazia”, un caso portato alla conoscenza del pubblico dal portale 444: l’anno scorso, la presidente ha concesso la grazia a Endre Kónya, ex vicedirettore di un orfanotrofio che era stato condannato per aver minacciato e costretto i bambini a ritirare le loro testimonianze nel processo per abusi sessuali contro il direttore della struttura. La grazia è stata controfirmata dall’allora Ministro della Giustizia Judit Varga, su cui si sono abbattute allo stesso modo le polemiche, tanto più che avrebbe dovuto essere capolista di Fidesz alle prossime elezioni europee.

Inoltre, il malcontento è stato alimentato dalla successiva uscita di dettagli: secondo le indiscrezioni rilanciate su social e canali Telegram, Kónya sarebbe un protetto personale di Zoltán Balog, una delle persone più potenti del Paese. Vescovo-presidente della Chiesa Riformata Ungherese, è stato per anni ministro nei governi Orban, e secondo molte ricostruzioni sarebbe stato lui a fare pressioni sulla presidente, di cui è guida spirituale, perché venisse concessa la grazia.

Lo stesso premier, anch’egli membro di spicco della Chiesa calvinista, che ha stretto legami molto profondi con Fidesz in questi anni, si è quindi visto costretto a reagire. Orbán è sempre stato molto attento ad assicurarsi che eventuali scandali non avessero conseguenze personali. Nel corso degli anni, non ha mai preso posizione in casi spinosi, e ha sempre fatto in modo che le manifestazioni di piazza rimanessero ignorate dai media mainstream, e che quelli indipendenti incorressero puntualmente in conseguenze negative per aver criticato il governo. A detta di alcuni analisti, questo senso di impotenza trasmesso alla popolazione, che ha ripetutamente sperimentato come le manifestazioni di dissenso non abbiano alcun impatto tangibile, è stato un fattore cruciale del suo duraturo successo.

Questa volta, però il Primo Ministro ha dovuto fare un’eccezione. Le prime reazioni della macchina di propaganda hanno seguito la vecchia ricetta della negazione, limitandosi a bollare il tutto come «fake news». Ma non appena i sondaggi hanno iniziato a mostrare che lo scandalo poteva diventare pericoloso per Fidesz e Orbán stesso, e non solo per la Presidente, la strategia è cambiata molto rapidamente. Il caso ha scioccato in modo più sensibile, infatti, proprio la base di Fidesz, che potrebbe aver perso addirittura 150.000–200.000 voti. Di fronte a tale prospettiva, Orbán ha pubblicamente “scaricato” le sue due ex-pupille e chiesto una modifica della Costituzione per rendere impossibili in futuro concessioni di grazia a condannati per reati sessuali. Due giorni dopo, la Presidente Novák e la deputata Varga si sono dimesse da ogni incarico.

Come dicevamo, questa vicenda ci mostra le crescenti difficoltà per un Paese come l’Ungheria di garantire la tenuta stagna del suo sistema di autocrazia dell’informazione. Il meccanismo in teoria si basa sul mantenimento degli elettori all’interno di “information bubbles” ed “echo chambers” ossia ambienti in cui si reperiscono e condividono solo le notizie che fanno gioco alla narrazione del regime.

Il mondo dei media magiari è di gran lunga il più controllato dell’Unione Europea. Tuttavia, ogni forma di controllo risulta ormai imperfetta, se l’obiettivo è la creazione di un sistema a tenuta stagna in funzione perpetua. Infatti, la possibilità di accesso a fonti estere o alternative rende di fatto impossibile impedire agli elettori che non si riconoscono nei valori del governo di trovare vie di fuga dalle citate “bolle” e “camere”. Ma le campagne mediatiche costanti e dai toni alti condotte dal governo non riescono più a mantenere anche i simpatizzanti totalmente all’interno del sistema. In questi giorni, l’ex marito di Judit Varga ha rilasciato una serie di interviste, in cui ha criticato in modo netto il clientelismo diffuso, le pratiche di ricatto cui ricorre il governo e, in sostanza, l’intero apparato di propaganda e controllo del regime. Nessun canale televisivo avrebbe ovviamente mai ospitato un tale programma, ma questo di fatto non ha costituito un ostacolo. La prima intervista, rilasciata a un portale online, è stata vista da oltre 2,2 milioni di persone, un numero enorme in un Paese con. soli 9,6 milioni di abitanti. Un numero che in realtà qualsiasi trasmissione della televisione di Stato controllata da Orbán si può solo sognare.

Tutto questo ha posto sotto gli occhi di tutti i limiti di una macchina di comunicazione politica che sembrava quasi onnipotente: una recente ricerca ha evidenziato che un terzo degli elettori di Fidesz è consapevole che in Ungheria esista una corruzione sistemica, e che addirittura il 40% sia conscio di ricevere informazioni da fonti non obiettive né affidabili.

Ciò che finora ha sempre fatto la differenza è il sostegno attivo degli elettori al leader e alle sue narrazioni, tanto forte da creare quella che viene definita “domanda di disinformazione”, ossia predisposizione ad ascoltare e prestare fede a una campana che ci dice cose che vogliamo sentirci dire, anche se siamo consapevoli della sua mancanza di obiettività. Come in ogni mercato, la domanda è importante almeno quanto l’offerta, in questo caso costituita dal monopolio dei media da parte del governo.

In questa bolla, come detto, alla fine più che la fiducia degli elettori nelle fonti di informazione conta la capacità di queste ultime di dare forma alle loro percezioni. In altre parole, anche se gli elettori non si fidano delle fonti, finché le narrazioni veicolate rispondono ai loro bisogni, il sistema funziona molto bene. Le informazioni critiche possono arrivare, ma vengono comunque ignorate. A meno che non vadano a cozzare proprio con la narrazione. Vediamo un esempio concreto.

Il governo di Fidesz si regge, a grandi linee, su una narrazione incentrata sulla difesa dei valori tradizionali della famiglia e della società ungherese dalle infiltrazioni esterne, siano di idee (come la “propaganda omosessualista”) o persone (come l’immigrazione). In questo ambito, c’è la tendenza ad accettare come inevitabili certi scandali, mentre altri risultano tanto incompatibili con la narrazione, da mettere a rischio il funzionamento dell’intero sistema.

Da sempre, le opposizioni hanno attaccato il governo sul tema della corruzione, che però non è mai sembrato preoccupare molto gli elettori di Fidesz, ormai disposti ad accettare che la politica sia comunque corrotta, e che nel contesto di una vera e propria guerra per la difesa dei valori più preziosi sia necessario accumulare in ogni modo più risorse possibile per combattere l’altra parte.

Al contrario, casi che vadano a colpire la visione morale dei sostenitori di Fidesz possono rivelarsi molto dannosi per un governo che alimenta costantemente il panico contro ogni sorta di pericolo morale.

Questo è stato anche il caso di Zsolt Borkai, per quasi 15 anni presidente del Comitato Olimpico e sindaco di Győr – una delle principali città del Paese. Nel 2019, Borkai si ritrovò al centro di uno scandalo per via di una relazione extraconiugale e della partecipazione a un’orgia con diverse donne e alcuni uomini. I media filogovernativi non coprirono la vicenda, ma sul web le notizie circolarono, e la cittadinanza finì per avere accesso a informazioni di prima mano tramite un sito di condivisione di filmati pornografici, su cui erano stati caricati video dell’orgia in questione. Alle elezioni di ottobre, Borkai riuscì a riconfermarsi per pochi voti, mentre Fidesz subì un tracollo, perdendo la maggioranza in consiglio comunale col 44% dei voti, a fronte del 60% ottenuto a Győr nelle concomitanti elezioni per l’assemblea di contea. Nel giro di pochi giorni, Borkai si dimise da ogni incarico e si ritirò dalla scena pubblica, permettendo così a Győr di tornare al voto, dopo un periodo di commissariamento. Passato lo scandalo e uscito di scena il protagonista, nel 2020 ci fu una nuova vittoria di Fidesz, che elesse il nuovo sindaco con una maggioranza assoluta di 16 consiglieri su 23.

Sarà questo che accadrà anche nel contesto attuale? Per ora, Viktor Orbán è sceso in campo in prima persona per rimarcare che il suo partito veglia sui valori tradizionali e che questo è stato un incidente di percorso. Ha già dato il via all’iter della legge che limiterà la concessione della grazia da parte del capo dello stato, e ha scelto il presidente della Corte Costituzionale Támas Sulyok come nuovo Presidente. Al momento, non è possibile prevedere se questa vicenda avrà ulteriori conseguenze, o se la vita politica ungherese rientrerà sui binari consueti. Intanto, il nuovo capo dello stato, nel suo discorso inaugurale del 5 marzo, ha attaccato l’Unione Europea, accusata di attentare alla sovranità ungherese. Le televisioni hanno fornito ampia copertura all’evento, come da prassi. A lato, rimane lo spaccato di un’Ungheria meno granitica nella sua accettazione del sistema di controllo dell’informazione di Fidesz, ma non per questo nella sua adesione alla narrazione proposta da Orbán, né tantomeno alla Weltanschauung su cui il premier ha basato consenso e potere.

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