Perché c’è bisogno del Disability Pride Month
Stavolta, qui su SuperQuack, trovate un articolo diverso dal solito: non parleremo di politica internazionale, bensì del Disability Pride Month. Già, perché luglio è ormai da nove anni il mese dedicato alla comunità disabile e alla celebrazione della lotta dei suoi membri per vedere riconosciuti ì propri diritti, anche se finora la risonanza mediatica non è stata particolarmente importante, e le reazioni sono spesso state poco composte, per usare un eufemismo. Per questo potrete forse perdonare la lunghezza del presente pezzo, in cui ho cercato di dire tante cose nel modo più sensato possibile.
In effetti, confesso che io stesso sono stato in dubbio circa lo scriverlo o meno. Pensavo che fosse un po’ un rubare spazio in un contesto che dovrebbe essere riservato a temi più rilevanti e temevo che fosse in qualche modo fuori luogo. Ma in fondo questo è parte del problema, anzi, rappresenta gran parte del substrato culturale e psicologico del problema. Forse, l’unico modo per smontarlo è pezzo per pezzo e usando quanto possibile dati, oltre che ragionamenti.
Innanzitutto, chiarisco che si tratta di un argomento senza dubbio rilevante: in realtà, il numero di persone disabili è molto più alto di quanto venga percepito – secondo le ultime stime messe a disposizione dall’Onu, nei Paesi occidentali arriva al 10 per cento della popolazione. Ma allora perché questa diffusa convinzione che il problema riguardi una percentuale irrisoria? Una prima risposta può essere fornita dalla comprensione del cosiddetto “Inaccessibility Cycle”, o ciclo dell’inaccessibilità: a molti disabili è nei fatti impedito di prendere parte attiva alla società, a causa di innumerevoli ostacoli, che vanno dalle barriere architettoniche alla mancanza di tutele, di ausili per lo studio o il lavoro, fino alla presenza di diffusi atteggiamenti di stigmatizzazione. La conseguenza è che le persone disabili sono poco presenti in ambienti pubblici: una grande percentuale è costretta a rimanere a casa, mentre i pochi che possono avere accesso agli spazi comuni vengono, per l’appunto, visti come un‘eccezione.
Questo fornisce una motivazione anche al mio secondo timore, perché proprio la scarsa visibilità fa sì che i disabili siano percepiti come “fuori posto” nella maggior parte dei contesti. E ancora, se si crede che i disabili siano pochi, se non si è abituati ad aver a che fare con loro nel quotidiano, si tenderà a pensare che non vi sia alcun bisogno di prenderli in considerazione come categoria con delle esigenze e dei diritti, e a vivere i minimi aggiustamenti che si deve “subire” per permetterne una maggiore integrazione come soprusi —dai parcheggi per disabili alle rampe di accesso al lato delle scale, fino alle forme di sostegno.
Si tratta di un circolo vizioso difficile da spezzare, e che spesso costringe i disabili a trascorrere una vita fatta di isolamento, mancanza di opportunità, emarginazione e de-umanizzazione, che non fanno altro che aggiungersi alla già presente sofferenza.
Ma farlo presente è forse un piagnisteo? In effetti, spesso sono queste le reazioni cui ci si trova di fronte, ogni volta che il tema viene citato dai media o sui social. Ma c’è ben di più dei tanti commenti rancorosi che capita di leggere sotto i post di istituzioni quali la Commissione Europea, pieni di disprezzo prima ancora che di odio. Dietro ai semplici hater da tastiera che scrivono tutti tronfi “cos’è, ora c’è da essere orgogliosi anche di essere storpi?” c’è una Weltanschauung che affonda le radici in secoli di paternalismo e abilismo, e che però non appartiene certo ormai solo a residui di un passato sempre più insignificante. È infatti portata avanti e sostenuta da un’intera galassia di personalità piccole e grandi, dagli influencer locali ai più noti maître à penser. C’è chi si “limita” a insultare i disabili, come il nostro Fedez, con le sue battute in radio sulle “donne disabili che vogliono essere sco*ate” o l’idolo di tanti giovani uomini Andrew Tate, che nei suoi video si produce in imitazioni di persone affette da sindrome di down e si vanta di parcheggiare negli spazi per disabili perché “tanto loro stanno a casa”.
Tuttavia, per quanto influsso tali personaggi possano avere, il pensiero alla base è ben strutturato in tutto il mondo della “controcultura” indipendente dal mainstream, più o meno conservatrice e apertamente antifemminista e avversa ai diritti civili per le minoranze, che riscuote sempre maggiore successo e pone una notevole attenzione al tema della disabilità – in negativo.
Forse il massimo esempio di questo atteggiamento, che potremmo definire la summa e allo stesso tempo la riproposizione in salsa moderna della visione che abbiamo appena descritto è rappresentato da Jordan Peterson. Il popolarissimo guru e conferenziere, uno degli autori più letti di questo secolo, nonché presenza assidua sulle varie piattaforme, dà grande rilievo alla sua critica al movimento per i diritti dei disabili. A suo dire, il Disability Pride altro non sarebbe che una delle forme assunte da quello che definisce “culto della debolezza”, creato dalle “élite” e imposto dai media mainstream per “decostruire la civiltà occidentale” e rendere i suoi membri privi di identità forti, e di conseguenza manipolabili. Non ci dovrebbe essere alcun orgoglio nell’essere deboli: solo volontà di diventare forti, e se non vi si riesce o non ve ne sono le possibilità, astensione dal portare avanti lagne e richieste alla società.
Sì, perché la disabilità spesso altro non è, secondo Peterson, che una scorciatoia, un modo per pretendere aiuti e corsie preferenziali, in quella che sarebbe a tutti gli effetti una discriminazione nei confronti dei “sani”. È la solita vecchia storia che far accedere le persone di colore alle università avrebbe tolto posti ai bianchi, riconoscere il diritto di voto alle donne avrebbe diminuito i diritti degli uomini e così via. Infatti, è proprio sulle università che si concentra Peterson, accusandole di abbassare il livello complessivo permettendo ai disabili di avere dei posti garantiti, supporto tecnico e/o didattico e possibilità di personalizzazione dei percorsi. A parte che queste misure sono poco diffuse e assolutamente insufficienti a garantire il pieno accesso all’istruzione per i disabili, ma l’assunto di fondo è che questi sono più stupidi dei non disabili, e se aumentano di numero nelle facoltà sono dannosi per la qualità. Salta davvero agli occhi come sia la stessa identica rimostranza che fu fatta ai tempi per l’accesso delle donne agli studi superiori e poi degli afroamericani agli atenei fino ad allora riservati ai bianchi, a dimostrazione che le discriminazioni poggiano tutte su basi simili.
La realtà è ben diversa. Tanto in America quanto in Italia, i disabili sperimentano grandi difficoltà nell’accedere al mondo dell’istruzione e del lavoro. Nonostante le leggi in vigore, all’atto pratico ci si scontra con una spesso totale mancanza di qualsiasi predisposizione all’inclusione: restando in Italia, si va dalle barriere architettoniche presenti negli edifici alla bassissima diffusione dello smart working, passando per il pregiudizio di molti datori di lavoro verso una presunta minore produttività dei disabili. Per non parlare della presenza di altre leggi, che di fatto impediscono ai disabili di sostenersi adeguatamente col loro lavoro: basti pensare che chi è riconosciuto come invalido non può, pena perdita del riconoscimento superare un limite di reddito francamente incompatibile con una vita dignitosa (circa 5.700€ annui per gli invalidi dal 75% al 99%).
Nel complesso, quindi, la partecipazione dei disabili al mondo del lavoro è molto bassa: in Italia non supera il 30%, mentre negli Stati Uniti va ancora peggio, con appena il 20% dei disabili che riesce a lavorare. Altro che condizione di privilegio ambita da chi vuole avere facilitazioni per fare strada impegnandosi poco. E senza lavoro, sì, che è molto difficile raggiungere indipendenza economica, e si finisce per aver bisogno di sostegno dal welfare, e soprattutto dalle famiglie. E pensare che l’esclusione dei disabili dal mondo del lavoro infligge un notevole danno economico alla società nel suo complesso – quantificato dall’ONU in un 7% di PIL perso. Ma evidentemente ogni discriminazione si basa su motivazioni non razionali, e quindi viene portata avanti nonostante alla fine arrechi danni a tutta la società, un po’ perché “si è sempre fatto così”, e adesso, all’improvviso, “questo ennesimo gruppo pretende qualcosa”, se porta avanti delle rivendicazioni, cui rispondere rifiutando con sdegno ogni cambiamento.
Nel caso specifico, volendo ricorrere a definizioni sociologiche, si potrebbe dire che la società tende ancora a considerare la disabilità secondo il “modello medico”: l’idea che la disabilità sia una malattia o una menomazione, qualcosa di «sbagliato» che una data persona ha – non è un caso che si sentano usare espressioni come «persone affette da disabilità». Persone che, come dice Tate, è bene che stiano a casa. Persone che, in fondo, si devono vergognare se “sono deboli” e non riescono a “diventare forti”, come richiede Peterson.
Eppure, basterebbe guardare semplicemente al perché proprio luglio è il mese del Disability Pride. Il motivo è che il 26 luglio 1990 fu approvato l’Americans with Disabilities Act, la prima legge a livello mondiale che proibiva in modo esplicito la discriminazione dei disabili sul lavoro, nello studio e nella vita quotidiana. Il punto è che questa legge non arrivò come un dono dall’alto. Fu il frutto di decenni di impegno di numerose associazioni per i diritti dei disabili, culminate in un evento che creò tanto scandalo, da costringere il Presidente Bush Sr. a far passare la legge: il “Capitol Crawl”.
La mattina del 12 marzo 1990, centinaia di disabili si presentarono di fronte al Campidoglio, a Washington. Alcuni rimasero ai piedi della scalinata, intonando canti e slogan, mentre a decine si trascinarono verso l’alto, lentamente, tirandosi dietro stampelle e sedie a rotelle, mentre una folla sempre più incuriosita e indignata si accalcava. Il simbolo di questa protesta divenne Jennifer Keenan (nella foto), una bambina di 8 anni affetta da paralisi spinale, che impiegò l’intera mattinata per coprire la distanza di 100 gradini verso il Capitol. Le autorità gridarono alla violazione del pubblico decoro, e oltre cento di loro furono arrestati per aver creato ostruzioni al transito sulle scale – ancora una volta, la stessa accusa con cui venivano arrestate nel 1917 le suffragette che protestavano davanti alla Casa Bianca. Alla fine, fu un gesto che fece tanto scalpore, da costringere le autorità ad agire. Un gesto di grande forza e di profondo coraggio.
E checché ne pensi Peterson, per essere disabili servono entrambi, ma non tanto per “combattere contro le malattie”, come ripetono i media. Già, perché i media sono sempre in prima fila a deumanizzare – pensiamo anche solo ai casi di genitori che uccidono i figli disabili, in cui la stampa empatizza invariabilmente con gli assassini, e mai con le vittime. Sono sempre pronti a negare umanità ai disabili, salvo tenerli come sporadico inspiration porn, ossia fonte di storie edificanti, in cui “un disabile si laurea contro la malattia x”, o “una disabile si sposa con l’abito bianco nonostante la malattia y”. Al contrario, servono proprio per combattere contro il concetto che tale atteggiamento veicola: che lo studio, il lavoro, le relazioni affettive sono cose da “persone normali”, che se i disabili ogni tanto ci riescono è un caso eccezionale, a uso e consumo della “motivazione” dei “normali”.
Tutto questo È, in realtà, il problema. E per affrontarlo serve un cambio di paradigma. Può essere importante passare, a livello concettuale, dal modello che abbiamo spiegato sopra al “modello sociale della disabilità”, ufficialmente adottato dall’Unione Europea a partire dal 2019 come base delle raccomandazioni agli Stati membri circa le misure da prendere sul tema. In questa visione del fenomeno, non sono tanto le condizioni di salute a creare la disabilità: forniscono il fondamento, ma nulla più. Il resto è creato dalla società in termini di pregiudizio, isolamento sociale, mancanza di accesso a luoghi o cure, percorsi di riconoscimento umilianti, atteggiamenti discriminatori, negazione di bisogni, imposizione di barriere di ogni tipo. Ed è questo che fa la differenza: anche per me, averlo compreso non è stato un percorso semplice. Già, perché un altro aspetto rilevante è che tutto questo viene pesantemente introiettato da chi lo vive – subisce. Ma. adesso, arrivati a questo punto, posso forse ammettere che uno dei motivi che mi spingevano a non scrivere questo articolo è proprio l’idea che di questo argomento non sia appropriato parlare, che sarebbe meglio passarlo sotto silenzio, sedimentatasi nella mia mente lungo anni trascorsi vergognandosi di essere disabile, cercando di nascondere il mio non essere “normale”, vivendo come una colpa le occasioni in cui subivo una discriminazione e come un fallimento il non riuscire a “diventare forte”, per riprendere l’espressione di Peterson.
Oggi, forse ho imparato a sufficienza, e soprattutto mi sono stancato abbastanza di tutto questo, da poter provare a parlarne, e a dire che sebbene alcuni di noi siano «disabili» a causa di condizioni di salute, e i sintomi come il dolore e la stanchezza o le difficoltà nel fare determinate cose abbiano un peso rilevante, non è questo che ci rende tali. Per carità, negarlo, nel momento in cui attraverso una delle tante fasi di “basso” che caratterizzano le situazioni di cronicità, e anche scrivere questo articolo mi è costato molto, fisicamente, sarebbe tornare a seguire ragionamenti di negazione che ci riporterebbero alla forma mentis di Peterson. Questi sono dei problemi, ma non il problema. Il problema è il fatto che la società ci veda come esseri umani di valore inferiore, che devono “stare a casa”, un peso, una seccatura, che ci costringa a lottare per ogni centimetro di conquiste in ciò che per le persone non disabili viene dato per scontato, come l’accesso a istruzione, lavoro, assistenza sanitaria adeguata, ma anche a luoghi e attività di svago e divertimento. Sono queste, le barriere create dalla società, che ci rendono “davvero” disabili. Credo si possa comprendere anche solo dal poco che abbiamo discusso qui come questi atteggiamenti, che possiamo definire abilismo – e se qualcuno storcerà il naso a questa parola dal suono woke, pazienza – rappresentano una forma di discriminazione sistemica che parte dagli stessi presupposti di superiorità innata di alcuni gruppi e di esclusione e limitazione dei diritti di quelli “inferiori”, muovendosi in modo sovrapponibile a razzismo, sessismo e omofobia. E proprio come questi ultimi, rende tutta la società, nel suo complesso, più povera e meno libera – per tutti, non solo per il gruppo che subisce la discriminazione. Direi proprio che confrontarsi quotidianamente con tutto questo non possa essere definito debolezza. Al contrario, alla fine mi sento di rispondere alla domanda da cui eravamo partiti: forse lottare per imporre la propria inclusione in una società che non ci vuole è qualcosa per cui abbiamo ben diritto di provare orgoglio. Qualcosa che vale la pena rivendicare e celebrare, insieme a chiunque voglia essere parte di una società un po’ più giusta, più libera e più ricca. Buon Disability Pride Month a tuttə.