Isole, arcipelaghi, autobiografie e lettere d’amore

Ovvero, isole, arcipelaghi e altre “zone” possibili e invisibili.

Salvatore Iaconesi
Comunicazione Ecosistemica
15 min readApr 1, 2022

--

il network della conversazione, verso il centro, Oriana ed Eleonora si espandono e diventano più centrali, mentre Tamara assume caratteristiche musicali: è un ritmo, un ritornello o qualche altra componente strutturale della canzone
Il network della conversazione. Verso il centro, Oriana ed Eleonora si espandono e diventano più centrali, mentre Tamara assume caratteristiche musicali: è un ritmo, un ritornello o qualche altra componente strutturale della canzone.

Eccoci di nuovo qui all’ennesma fase del Workshop senza Fine sulla Comunicazione Ecosistemica: il modo in cui stiamo progettando insieme come è fatta la comunicazione del Nuovo Abitare.

Abbiamo tirato su una piccola pubblicazione qui su Medium, che molto probabilmente diventerà un libro.

Come potete vedere nell’immagine in apertura, nella conversazione sono cambiate molte cose. Nel diagramma, le dimensioni dei pallini a cui sono associate le persone sono proporzionali alla centralità della persona nella conversazione: una misura di qual è il ruolo di quella persona in quel contesto. Più è grande un pallino, più è centrale la persona nella conversazione.

Se vi ricordate dall’ultima puntata che avevo scritto io, si partiva da una situazione distorta: visto che il contesto era quello della mia pagina e che il primo articolo della pubblicazione era il mio, era abbastanza ovvio che io fossi il più centrale del network.

Adesso, però, possiamo ragionare sui cambiamenti, in maniera differenziale.

Rispetto al precedente diagramma, infatti, si può notare verso il centro di quello attuale la formazione di “un’isola”, ovvero un piccolo insieme di nodi fortemente interconnessi tra loro e attraverso cui passano le conversazioni tra tanti altri nodi. Di quest’isola fanno parte Oriana Persico, Eleonora Cugini e Tamara Becci, per motivi e con modalità diverse, che esploreremo nel seguito.

Segnalo anche Daniele Bucci, che anche fa una cosa interessante: il ponte.

Di cosa si è parlato dall’altra volta

Certe cose della Comunicazione Ecosistemica iniziano a prendere forma.

Inizierei da una cosa che c’è nel diagramma e da una cosa che invece non compare.

Chi ha seguito le conversazioni, ha sicuramente notato il carattere “musicale” dei contributi di Tamara Becci. Svolazzando qui e là tra le comunicazioni, Tamara “irradia”: è un ritmo, un ritornello, una tonalità ricorrente. Con le sue “imperfezioni” (imperfezioni sì, ma con uno stile riconoscibile), crea un tessuto “sonoro” nella conversazione. Che unisce. Anche visivamente, tramite la ripetizione dell’icona lungo la conversazione, come un allegro ritornello ricorsivo e ricorrente (scandisce: importantissimo: che cosa sono la musica e il suono senza la ripetizione, le pause, il silenzio…?).

Questa modalità comunicativa svolazzante e senza fine ha un ruolo nella Comunicazione Ecosistemica? Come potremmo chiamarla/definirla?

E poi un altro: Sigismondo Baldovino (aka Sigis, aka Stefano Capezzuto, aka Belli Capelli).

Nel rituale digitale con cui iniziamo la settimana del Nuovo Abitare, il workshop senza fine della Comunicazione Ecosistemica è stato un tema caldo.

Dalle lande desolate della lontana Balduina, Sigis ci confessa di essere bloccato. Non ha scritto nulla e si sente in colpa. Scopriamo subito che non è vero. Sigis è molto preso dall’attività del Nuovo Abitare, e ci confessa subito dopo che quando si trova a parlare con qualcuno non può fare quasi a meno di parlarne.

Letteralmente Sigis irradia Nuovo Abitare.

(Stop. Fermiamoci un attimo a immaginare Sigis, con 2 metri di dread distesi a raggiera intorno alla capoccia come un sole, che irradia Nuovo Abitare. .. . . . . . . . . . . . Fatto? Continuiamo)

Sigis stava facendo Comunicazione Ecosistemica senza saperlo e addirittura sentendosi in colpa per questa (supposta) assenza (che sia una FOMO? Sì e no, secondo me. Forse conviene continuare il racconto piuttosto che fare ipotesi).

Questa mancanza di riconoscimento è, però, qualcosa che vale la pena di notare. Cosa c’è da riconoscere? Quando/come posso dire che sto facendo questa Comunicazione Ecosistemica, che si fa ascoltando e irradiando?

Di nuovo Marco Stancati ci suggerisce una possibile chiave di lettura: tramite un evento da lui condotto alla Sapienza ci fa notare che non basta solo ascoltare, ma occorre ascoltare empaticamente.

Ne abbiamo tutti esperienza: ascoltare solo di rado è un’esperienza silenziosa. Molto più spesso — specie nella comunicazione competitiva/militarizzata che vorremmo abbandonare — l’ascolto è il momento in cui si progetta la risposta o, per rimanere in tema, il contrattacco. In questa modalità, si ascolta rumorosamente, subvocalizzando cose tipo “… a X posso rispondere con Y…”. Missili contro missili. E qualsiasi pausa, interruzione, tentennamento o anche semplicemente il prendere fiato del parlante corrisponde al prezioso momento di uscire dalla modalità subvocale e irrompere con un “… sì, però, se posso rispondere un attimo…”.

C’è un’altra modalità di ascolto. Stancati la chiama empatica. Ha a che fare con il provare ad indossare il punto di vista e il sentire dell’Altro.

Viene in mente l’animismo e il prospettivismo, soprattutto nel studi post-coloniali, dove “quest’approccio all’agentività non umana trascura il fatto che alcuni non umani, nello specifico quelli viventi, sono dei sé.
In quanto sé, non sono rappresentati, ma rappresentano anche.
E possono farlo senza dover parlare, né hanno obisogno di un portavoce, perché … la rappresentazione eccede il simbolico, e quindi anche il linguaggio umano”
(tratto liberamente da Eduardo Kohn, Come pensano le foreste per un’antropologia oltre l’umano, 2021, che ho sul comodino in questi giorni).

Ecco un’altra cosa da ricordare nella Comunicazione Ecosistemica: i comunicanti sono dei sé: non sono solo rappresentati, ma rappresentano anche.

Stiamo arrivando a capire, man mano, tramite il suono e la moda, cosa voglia dire esprimersi irradiando. Ma questa è forse la prima idea tangibile dell’ascolto: restituire lo sguardo, lasciarsi rappresentare dall’altro. Perdere il controllo. Uscire da sé e indossare il punto di vista dell’Altro.

Rem Miu interviene su un argomento a me molto caro: il rifiuto della weaponization of neurosciences, in senso militare, e ci alza un alert circa la narrazione evolutiva che ci siamo trovati a condurre lungo il workshop un paio di volte: i tempi degli esseri umani non sono quelli dei virus e tra una generazione e l’altra accadono tante cose diverse. E siamo sempre lì: l’essere umano vive nel tempo, più che nello spazio. E come tale l’esistenza di un ipotetico “noi” va sempre messa in dubbio: le cose che non funzionano o che, addirittura, ci fanno male sono e rimangono le uniche opportunità di sentire, rendendo costantemente problematiche tutte le narrazioni di “comunità”: l’eccesso serve eccome, ne va della possibiltà del vivente.

Daniele Bucci, a questo punto, introduce tre discorsi importanti:

  • il primo sulle questioni dei possibili bilanci tra tempo/energia, fondamentale in ogni ecologia, inclusi i temi del cambiamento di scala (Daniele chiede, a un certo punto: “Come cambierebbero le periferie e i centri se e quando la scala del dibattito dovesse aumentare?”) e il comportamento temporale, così importante nella comunicazione attuale secondo cui, spesso, “il primo prende tutto”;
  • fa anche il discorso dell’off-topic: chi decide cos’è off topic? E così avvia una possibile deriva derridiana sulla: chi/cosa/come decide cos’è on-off topic? Cosa entra nell’archivio? La connessione tra archivio e psicologia.

Un approccio possibile è proprio in queste pagine: mettere in dubbio l’esistenza di un noi, la coesistenza, il sentire anche quando vuol dire soffrire, la perdita del controllo, uscire fuori di sé, lo scongelamento.

La terza modalità la tocca con un post su Fukuoka che collega alla conversazione diventando un ponte: entrano persone nuove, che potete vedere nel diagramma direttamente collegate tramite lui.

Alessandro Tartaglia tira dentro nomi importanti: Lussu e Mari. Il progettista non crea, interviene in uno spazio situato. In questo senso siamo tutti progettisti. Il che rende necessario un diverso approccio all’autore.

Luca Russo inizia descrivendo la potenza esercitata dall’interfaccia su questa conversazione: non ci può essere il terzo infoscape perché siamo qui su Facebook!

Ma si sbaglia! C’è un intenso chiacchiericcio intorno a questo processo. Non mappabile. E, in virtù di questa non mappabilità, è trasgressivo e generativo. Mentre noi parliamo qui in questi modi, altri parlano qui in altri modi, come quando arriva qualcuno e le persone si dicono le cose all’orecchio. Il gossip. L’erbaccia che cresce dentro il condizionatore. Così facendo diventa generativa!

E poi invece segue benissimo il discorso, proponendo le ipotesi di sistemi di agenti che comunicano irradiando, depositando informazioni in strutture poliedriche che fanno anche uno strano cortocircuito, perché si piegano su sé stesse, contiene anche la storia dello sviluppo delle interazioni/relazioni. Gli esempi sono sonori, e sono veri e propri sistemi di suoni per sentire. Comunicazione Ecosistemica: si fa “ascoltando” e “irradiando”. Io continuo a dire che è anche molto simile a quello che avviene con la moda, dove addirittura si indossa, ci si stratifica addosso: è l’abito, si abita.

Eleonora Cugini crea la prima vera e propria isola dell’arcipelago della comunicazione ecosistemica con un lungo commento sulla “seconda natura”, da aristotele a marx alla teoria critica, (e aprendo sulla “terza natura”), tra interpretazioni sociali e arte (ma con ancora la questione della “riproduzione”, e con l’ipotesi della “libertà”, che è per i “colonizzatori” più che per i “colonizzati”). L’ipotesi è che la II natura sia interessante per comprendere i sistemi. Che va benissimo, ma con tutti i limiti delle critiche alla cibernetica. Se la norma attua il controllo con la violenza, la cibernetica attua il cotrollo tramite il feedback, che denota la relazione (cominciando dal suo inizio, il riconoscimento). Ma il feedback è anche violenza e potere. L’ecologia “non ha sensi di colpa” (come invece ne hanno in abbondanza i cibernetici, che nascono proprio per tentare di mettere fine al rapporto problematico tra scienze e violenza, vedi la II guerra mondiale).

L’ecologia ha un limite. È biodegradabile. Non nasconde mai il fatto che tutte le relazioni sono relazioni di potere. E non si pone la questione “utopica/distopica” di dover/poter esercitare il controllo. L’ecologia è la “descrizione dell’ecosistema portato alle sue estreme conseguenze”, senza ricerca della sintesi, per poter operare nella complessità. E lo fa in maniera situata, posizionata in cosmologie, storie, autorappresentazioni. Il medium è l’ecosistema e il contenuto samo noi e gli altri agenti, umani e non. Senza possibilità di riduzione. “Relazione e contenuto non hanno un nesso normativo (che si smaschera facilmente come ‘formale’) ma determinante, cioè trasformativo della realtà.”: inteso in questo modo ha un senso molto diverso da quello con cui abbiamo iniziato.

Oriana fa il botto e crea le seconde due de isole effettive dell’arcipelago “frustrazione #1” e “frustrazione #2”.

Nella prima, racconta una domanda fondamentale: “La prima riguarda la mia posizione nell’ecosistema. In altri termini: che connessioni genero? Che vita porto? Come e cosa posso attivare?” Questa domanda è al centro di un paradosso: come si fa a far sì che quei “pallini” attivati dalla comunicazione non rimangano pochi? Anche se mi odierà per questo, perché non ama questa parola, Oriana capirà che questo di cui parla si chiama “impatto”. “Come si fa a portare maggior impatto?”

Vedete. Anche da questo punto di vista, dal bel mezzo del Nuovo Abitare, il “realismo” è vivo, vegeto e potente.

Ci fa pensare e immaginare quello che dice lui.

Vorremmo intimanente che la logica dei “pallini crescenti” fosse soddisfatta.

Ma non può essere. Perché sarebbe il negare il Nuovo Abitare: pallini che crescono = violenza + estrazione di valore.

Non si può non essere frustrati!

La seconda frustrazione riguarda il lato oscuro dei social, secondo diverse dimensioni: sono 7, 10 mille frustrazioni, non solo la seconda.

Leggendole, mi viene in mente un libro che ci ha regalato Luca Sossella “Le Architetture dell’Azzardo” di Natasha Dow Schüll. Da quel libro meravigioso esce fuori con chiarezza che la dipendenza dal gioco d’azzardo non ha mai a che fare con un desiderio di vincere.

Piuttosto, invece, ha a che fare con una certezza: la certezza di perdere.

In questo nostro mondo, in cui non contiamo nulla, e in cui non possiamo determinare nulla, l’unica certezza che possiamo avere è quella di morire. Che tutto finisca.

Giocando d’azzardo acceleriamo solo il processo, costruendo attivamente la nostra morte, il nostro fallimento.

I dipendenti non giocano mai per vincere: giocano per giocare (per rimanere nella “zona”). Solo così possono affrontare il mondo con almeno una certezza, almeno qualcosa di cui possono avere controllo: perderanno, con certezza.

La nostra permanenza sui social network si basa su principi simili. L’alternaza della chimica dell’euforia e della depressione nel nostro cervello, creata ad arte attraversando interfacce che premiano e puniscono, interconnettendo strategie finanziarie ai nostri cervelli, ci porta al cinismo calcolatore che chiamiamo la “contabilizzazione delle emozioni”.

Ogni volta che invochiamo fieri la gamification come meccanismo efficace di engagement stiamo facendo questo gioco. Funziona. Fa male. Ma non è una sofferenza che porta ad un maggior sentire: al contrario, porta allo spegnersi, ad avere l’unico controllo possibile. Giocando si può essere solo sicuri del perdere.

Ognuno di noi vale veramente poco o nulla in questa dimensione. Siamo sempre esposti alla violenza delle interfacce e degli algoritmi, che non possono sentire quando fa male essere sbattuti per terra dall’altezza di pochi centinaia di like, passando da un post di successo a uno con meno consensi e reazioni.

Oltretutto esponendoci a lavoro gratuito e continuo e, per non farsi mancare nulla, in una condizione che rasenta il puro masochismo, alla totale assenza di controllo: i post su cui investo meno (pubblicando gattini & C.) fanno faville mentre quelli in cui mi apro e mi espongo con le cose che mi stanno veramente a cuore, fanno solo pochi like, e magari attirano stalker e altra gentaglia.

Algorimo: ma nun ce l’hai un cuore?

No.

Oriana, a questo punto, tira fuori delle figure che non vi rivelo qui: andate a leggere se già non lo avete fatto.

Tra l’altro, mettendo in mezzo cose del nostro passato e delle nostre strane famiglie, mezze biologiche, mezze no, e l’altra metà ancora tecnologiche, chiudendo con una vera e propria ricetta. A cui mancano degli elementi, come abbiamo scoperto ieri sera a cena. Ma almeno la ricetta c’è e si può continuare, migliorare e affinare con le spezie.

E mo’?

«La risata, come il pianto e lo sbadiglio, è contagiosa. Provoca il riso negli altri e, così facendo, li salda in un sentimento condiviso, attraverso una sorta di iconismo (Deacon). Per dirla con le parole di Pierce, li unisce in una “continuità di reazione”. Mentre ridevano insieme, Lucio e suo nonno formarnono per un momentoun singolo sé in comunione comunicativa.» Sempre “Come pensano le foreste per un’antropologia oltre l’umano”, di Eduardo Kohn, 2021, con me sul comodino da qualche giorno.

E quindi, facciamo un possibile riassunto di dove siamo arrivati.

  • Le isole e gli arcipelaghi. Abbiamo finalmente delle isole e degli arcipelaghi. Come tutte le isole, portano diversità. Disconnettere è altrettanto importante che connettere. Nell’isola le cose possono crescere e svilupparsi. Ma poi qualcuno arriva con la barca e, se porta con se dei batteri giusti, anche con la sua sola presenza, distrugge tutto l’ecosistema. Ciò vale anche al contrario, anche se più difficile. Lo stare mischiati, in più persone, a contatto con più agenti, rende più forti i sistemi immunitari. In questo caso del workshop senza fine della comunicazione ecosistemica, sviluppare delle isole era di particolare importanza, per non accentrare tutto su di me, ed evitare la figura dell’eroe: e quindi grazie Oriana e Eleonora. Quindi è importante avere delle isole, ma prepararsi al contatto. Le isole possono formare arcipelaghi. Su questo, tanto si è detto in passato (per esempio nelle controculture): è importante lavorare ecologicamente in termini di equilibri tra connessione e disconnessione, per costruire liguaggi comuni seppur capaci di autonomia, che siano percepiti come beni comuni da comunità che se ne prendano cura e che sviluppino anche la capacità di prendersene cura, un sistema immunitario capace. Come per tutti i sistemi immunitari, il segreto è mangiare bene, fare movimento, evitare lo stress, intrattenere relazioni sociali ricche e soddisfacenti, non circondarsi di relazioni tossiche, evitare loop e circoli viziosi. In cosa si traduce questo per la comunicazione?
  • I Ponti. E le barche, i motoscafi, i traghetti, gli aeroplani, inclusi quelli militari, con le bombe. “Building a bridge is a war against the forces of nature” ha detto Joseph Strauss, progettista del Golden Gate Bridge di San Francisco. Dai ponti del neolitico, sospesi, fatti di materiali organici come corde, rampicanti, fino alle più moderne tecnologie dei materiali e della computazione utilizzati per quelli della contemporaneità, la storia dei ponti è la storia dell’essere umano. Che da sempre ha ambito a costruirne. I ponti sono meravigliosi, che permettono di andare da una parte all’altra, ma vanno manutenuti. Certo alcuni tipi di ponte o passaggio richiedono meno manutenzione di altri. Alcuni ponti vanno addirittura protetti. Tra le prime cose che si fanno in guerra è far saltare in aria i ponti. E tra le attività tipiche del genio militare è proprio la costruzione dei ponti. Tanto che i ponti possono essere considerati delle vere e proprie armi (e, come sempre in Medicina, il pharmakon vuol dire sia veleno che medicina, con una ambiguità che ci deve fare pensare). Nella comunicazione, che cosa vuol dire? E, specialmente, cosa può voler dire nella comunicazione del Militare, non militarizzata, che vogliamo ottenere? Le considerazioni sul Pharmakon di Platone (ad esempio nel Fedro), di Derrida, e di Stiegler sono completamente differenti, tanto da costringerci a fare anche delle considerazioni mediologiche: forse il McLuhan del “media è il messaggio” era veramente troppo tecno-deterministico. Il ponte rimane una lotta con “le forze della natura” (ivi inclusa la tecnologia, proprio come accade nella medicina) che mantiene una sua ambiguità. La stessa ambiguità che è alla base della nostra possibilità di comunicare.
  • Ascoltare e irradiare. Ormai ne siamo praticamente certi. La comunicazione che vogliamo si fa ascoltando empaticamente e irradiando. Occorre trovarne le pratiche. Il suono e la musica. La moda. Meno il video. Tantissimo il chiacchiericcio informale, il gossip, la convivialità, che si insinuano come “erbacce nel condizionatore e nelle crepe tra i muri”, le microstorie che danno vita al Terzo Infoscape.
  • Presenza, relazione e sensibilità: il riconoscersi. Il riconoscersi è il primo stadio della relazione. E per riconoscersi occorre essere presenti, in qualsiasi modo, e sensibili. Ciò include anche un ripensamento rispetto al nostro rapporto con i dati e la computazione. Siamo costantemente esposti, nelle nostre vite, alla mediazioni di quelle che stanno diventando due vere forze ambientali, chimiche, fisiche: dati e computazione. Le Intelligenze Artificiali, per come le consideriamo oggi, fanno una sola cosa: classificano. Letteralmente: rendono classe. E, quindi, dividono. Ma non abbiamo nessuna sensibilità per queste classificazioni. Non siamo sensibili. E, quindi, non possiamo riconoscerci. È una relazione interrotta, gestita, un matrimonio combinato, combinatorio, computazionale. Occorre cambiare l’informatica teorica, oltre il realismo, riconoscere che è la forza relazionale più potente della nostra contemporaneità, e cambiarne radicalmente la cosmologia di riferimento.
  • In questo, non possiamo ridurci ad un approccio paternalistico (e colonialista). I comunicanti sono dei sé: non sono solo rappresentati, ma rappresentano anche. I dati non sono mai dati. Sono datur, da dare. Questa diversa coniugazione stravolge il senso, introducendo una possibilità espressiva, culturale. I ricercatori escano dai laboratori e si uniscano al mondo invece di guardarlo solo attraverso il vetrino.

Ne consegue che, unendo tutto questo la prima ipotesi di lavoro che, forse, emerge da tutto questo riguardo le due modalità della Comunicazione Ecosistemica sono:

per l’ascolto:

  • restituire lo sguardo;
  • lasciarsi rappresentare dall’altro;
  • perdere il controllo;
  • uscire da sé e indossare il punto di vista dell’Altro.

per l’irradiare:

  • il suono/musica;
  • il gossip, la convivialità, ciò che accade intorno al cibo;
  • il Terzo Infoscape, che avviene depositando progressivamente informazioni in strutture poliedriche che fanno anche uno strano cortocircuito, perché si piegano su sé stesse, e contengono anche la storia dello sviluppo delle interazioni/relazioni;
  • in un certo senso, e la rovina della Comunicazione; la Comunicazione rovinata.

L’autobiografia

Vorrei partire proprio da quest’ultima considerazione sulla Comunicazione rovinata, sulla rovina della comunicazione.

Vi ricorda qualcosa. A me sì. Mi ricorda i giubbotti di pelle. Che sono belli solo quando sono rovinati: con la pelle morbida e con le grinze. Con una storia.

Le rovine sono una mappa sincretica della città. Attraverso ciò che non è utilizzato, posso conoscere come si vive adesso. Per differenza e, quindi, stando a Bateson, per l’unica opportunità che abbiamo di ottenere informazione, comunicazione: l’informazione è la differenza che fa la differenza. Se non sono Altro da qualcuno, non posso neanche conoscere me stesso, non posso nemmeno essere sicuro di esistere. Figuriamoci se posso stare qui a fare il figo a parlare di relazioni.

Le relazioni si costruiscono con le autobiografie, che si incrociano, si stratificano le une sulle altre. Mai vere, mai false. Sono forse l’unico appiglio che abbiamo in questo mondo che non controlliamo.

L’autobiografia è un genere letterario importante. Origina dalle donne. L’autobiografia è molto diversa dal diario, o dal memoir/biografia. Il diario è segreto, intimo, non è destinato alla lettura pubblica. Il memoir si detta “alla segretaria”, che lo trascrive e poi si fanno le correzioni, ed è tipicamente maschile.

L’autobiografia, invece, è tipicamente femminile come genere letterario. E in quanto tale, è rivoluzionario: perché un gesto di autorappresentazione. L’autobiografia, come genere letterario, si afferma a partire da donne che, autorappresentandosi, stabiliscono un nuovo contratto e una nuova possibilità sociale, per sé, diventando persone. L’autobiografia è una enorme lotta contro il realismo.

Personalmente, questo l’ho imparato da Oriana. Negli Stati Uniti, durante una fellowship, l’autobiografia è entrata con irruenza nelle nostre vite come concetto, perché Oriana stava seguendo un corso sull’autobiografia a Yale. Io imparo sempre molto da Oriana. È il mio sensore circa cosa valga la pena di sapere e conoscere. Se non piace a Oriana, o se so che Oriana non è a suo agio, so automaticamente che c’è qualcosa che non va.

Perché Oriana sente. Soffre. Molto. È attraversata dalle cose. È in balìa del fiume.

Tutte quelle cose che così tante volte le critico, sono alla base della nostra arte e della nostra espressione: l’essere fragili, esposti e sensibili.

Questo, per noi, è un momento difficile. Io non so quanto vivrò. Spero tanto, che con i miei dottori stiamo andando bene. Nonostante questo, siamo completamente esposti all’indeterminazione, all’impossibilità evidente di controllare qualsiasi cosa nella nostra vita. Mille cambiamenti climatici. Mille Ucraine. Mille guerre nucleari. Questa crisi ci rende costantemente presenti e sensibili. E, speriamo, anche contagiosi, nel contrastare questo realismo che ci opprime e nel rendere più raggiungibile qualche speranza e qualche percezione di possibilità.

E forse è questa l’unica cosa veramente importante della comunicazione ecosistemica: diventare abili a sentire, sense-able.

«La risata, come il pianto e lo sbadiglio, è contagiosa. Provoca il riso negli altri e, così facendo, li salda in un sentimento condiviso, attraverso una sorta di […] “continuità di reazione”.»
Sempre “Come pensano le foreste per un’antropologia oltre l’umano”, di Eduardo Kohn, 2021, con me sul comodino da qualche giorno.

Speriamo sinceramente di contagiarvi.

--

--