Che ne sarà del locale?

Fare una Costituente post-COVID-19? Un longread a botta e risposta.

alessandro pirani
comunitalia
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13 min readApr 9, 2020

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[l’articolo è una tenzone aperta — o forse un plot per una piéce teatrale — a distanza. Inaugura una serie di riflessioni su come ripensare il Comune come laboratorio permanente sui beni comuni. Con Andrea Giua, cogruppo]

La domanda di cosa sia oggi ‘locale’, e di cosa sia rimasto di ciò che fino a ieri abbiamo considerato ‘locale’, mi gira in testa dall’inizio dell’emergenza. Apparentemente, infatti, il livello di vita delle persone è stato annientato dalla logica trans-locale propria del contagio (il contagio non si contiene), che ha reso improvvisamente privi di senso i confini amministrativi e geografici.

Il confinamento domiciliare non fa che acuire questo venire meno del locale — di ogni ‘locale’ — come luogo in cui si danno azioni di vita, lavoro, ma soprattutto di governo. È alla scala del ‘locale’ infatti che viene agita direttamente la produzione (e applicazione) delle politiche; all’interno della cornice del contagio, invece, il locale — spazio circoscritto, chiuso — viene completamente bypassato in un quadro in cui l’individuo (bios) si perde in un ‘globale’ che è invece spazio indistinto, mare aperto e sconosciuto. Il globale, privo dell’intermediazione dei corpi istituzionali ‘locali’, diventa uno spazio liscio (Deleuze) in cui la governance arranca, senza strumenti efficaci.

In uno scenario di questo tipo mi pare utile, nel suo intento provocatorio, l’idea di una nuova Costituente per ripensare alla forma Stato, all’ordinamento complessivo in cui si dà la produzione di politiche e di politica in Italia. Lanciata dal Sindaco di Milano Beppe Sala, è per il momento caduta sostanzialmente nel vuoto, accolta con grande freddezza:

“la nostra Costituzione è stata scritta alcuni anni dopo la fine della guerra, non durante. In più, della Costituente del ’47–48 ne facevano parte personalità di grande valore di cui oggi non c’è nemmeno l’ombra” (dichiarazioni PD)

Penso sia utile l’intuizione, perché mette in tensione, appunto, il senso di ‘quale locale’ serve per la (ri)produzione della democrazia, non solo in una fase di crisi acuta ma, a tendere, per evitare di ricaderci. Penso serva chiarirci un attimo le idee su come siamo arrivati ad essere fatti così, no? Passo.

Prima di rispondere a questa domanda, cui forse dare una risposta definitiva sarebbe difficile, va rilanciata un’altra domanda, di segno radicalmente opposto: non c’è stato forse troppo ‘locale’ nella gestione e nel sentore di questa crisi? Da un lato il profluvio di ordinanze, interpretazioni e direttive a ogni livello di governo del territorio, farcito di conferenze stampa pirotecniche, di scontri telefonici a margine e di minacce vicendevoli di commissariamento e/o ricorsi. Dall’altro l’incapacità di leggere i movimenti delle persone sotto lenti differenti da quelle del vecchio ‘locale’.

A questo vecchio paradigma risponde, infatti, l’isolamento su base di vicinanza territoriale, incapace di cogliere in alcun modo le reali direttrici di movimento di migliaia di persone (si muovono più persone sull’asse Milano-hinterland o sull’asse Milano-Roma?). E questo ha portato stampa e amministratori a raccontare un percorso regolare del contagio di Comune in Comune limitrofo, di Provincia in Provincia, che nessun riscontro ha nella realtà dei flussi giornalieri delle persone.

E se anziché della costruzione di un vero ‘locale’ si trattasse solamente del goffo tentativo di innalzare da zero mura, ponti levatoi e fossati difensivi? Passo.

Ma vedi, il ‘locale’ circoscrive sempre lo spazio entro cui si dà l’azione di governo, qualunque essa sia. sul fatto poi che non coincidano i perimetri amministrativi e gli stili di vita delle persone, non c’è dubbio, “di qui la rincorsa continua per rendere i due spazi co-estensivi attraverso strategie di adeguamento scalare, che si propongono l’obiettivo di portare a coincidere l’area d’azione con l’area di giurisdizione, aggregando tante aree di giurisdizione “quanto basta” (è la logica della istituzione delle aree intercomunali — che andrebbe scritto: interComunali — metropolitane, e delle città metropolitane)” (Crosta, 2003). Continuamente andiamo ridefinendo la scala entro la quale facciamo/produciamo politica e politiche, ma ci sfugge sempre l’inafferrabilità delle pratiche (di vita, di lavoro, di circolazione).

Ed è proprio nella tensione che rilevi (troppo locale, dici) che avverto la necessità di un ridisegno complessivo della governance che da un lato, sperabilmente, ridia alle comunità (locali, diciamo così) un ruolo sovrano — nel senso buono del termine — ma dall’altro definisca una scala di governo adeguata alla gestione delle sfide del contemporaneo: d’altronde, una di queste possibili ‘scale’ — l’Europa — è o no a un bivio tra rilancio e affossamento? Questa tensione è stata chiarissima in questo mese di gestione della crisi sanitaria.

La figura che mi pare spieghi bene questa crisi di rappresentanza è quella del Sindaco (e del Comune): storicamente figura topica in ogni momento emergenziale, perché si suppone sia il terminale più prossimo alla cittadinanza, e quindi allo spazio di vita delle persone, e quindi al ‘locale’, inizialmente, nel caso dell’emergenza COVID-19, non ha avuto ruolo. Anzi, è stato ridotto alla stregua di ‘primus inter pares’, esponendosi (in senso quasi religioso) come volto spesso dolente, empatico, nella comunicazione ai cittadini dell’andamento dei contagi, dei decessi, e così via. Un ruolo passivo, di presa d’atto di decisioni prese altrove. Da figura topica, quindi, il Sindaco incarna oggi la componente più drammaticamente dis/topica del contemporaneo. Con una catena di comando sempre più lineare (governo>prefetti>sindaci) che tende appunto ad aggirare, e rendere sostanzialmente vuoti, tutti gli altri livelli di rappresentanza.

Progressivamente, entrati per così dire ‘a regime’ nella gestione dell’emergenza, sono subentrate le ordinanze, interpretate sempre in chiave ‘additiva’, rafforzativa, (salvo alcuni casi) rispetto a quanto già stabilito appunto alla scala preposta.

Ora arriva il momento del ruolo attivo, ancorché ancora ‘derivato’, applicativo, nella delicata fase di gestione degli aiuti alimentari. Che margine di interpretazione, declinazione, attuazione ha il locale in questa fase? Passo.

Sui margini di azione (ricomprendendo in questo termine tutto quanto ha a che fare con la gestione della crisi, ma anche della quotidianità) dei Comuni, e per traslato dei Sindaci, penso si giochi a oggi la vera ridefinizione del ‘locale’ politico. In una progressiva fase di declino della credibilità della politica nazionale — e di conseguenza del ‘legislativo’ — si è rafforzata la centralità della figura del Sindaco e degli amministratori locali — di per sé, però, figure che la Costituzione definisce, e credo debba continuare a fare, parte dell’‘esecutivo’, ossia di coloro che per l’appunto “interpretano, declinano e attuano” decisioni che comunque dovrebbero rimanere prese altrove, riprendendo le tue parole precedenti.

Quello che, però, penso sia andato oltre la corretta definizione del potere ‘locale’ (e corretta non in termini giuridico-formali, ma logico-politici) è stato il loro diventare figure para-legislative, attraverso lo strumento delle ordinanze, nel giro di poche settimane, passando dalla totale sequela del Governo nazionale a un ruolo simil-sostitutivo in cui ciascuno si è innalzato al ‘dominus’ del proprio territorio. E in questo solco penso si pongano anche le Regioni, nel loro ruolo di ‘mediatori’ che ha in realtà aggiunto ulteriore complicazione al quadro decisionale.

Da ciò è emersa una iper-legittimazione dei Sindaci sul piano della percezione popolare che non ha e non può avere un riscontro negli strumenti a loro disposizione e nella coerenza della gestione ordinata di una crisi globale come quella cui stiamo assistendo. A non funzionare è stato, sul piano decisionale, lo strumento dei tavoli inter-istituzionali, troppo spesso orpello a margine di decisioni già prese, affidati da sempre alla bontà dei rapporti politici interpersonali e alla volontà di cooperare degli attori politici.

Perché cito questo elemento aggiuntivo come chiave della Governance di una crisi così già partecipata da attori differenti (Comitati scientifici, Istituti Superiori, Tavoli interministeriali)? Perché ritengo siano gli unici contenitori nei quali si possa passare dalla logica frazionata del ‘una voce — una decisione’ su ciascuna dimensione del ‘locale’ alla logica del ‘tante voci — una decisione’ sulla dimensione del ‘globale’ (problema analogo, su scala più ampia, dell’assetto europeo).

Come conciliare, in altri modi, l’ambizione dei Sindaci di farsi portatori legittimati di istanze diversificate e la necessità di garantire parità di trattamento dei cittadini e coerenza del sistema? Passo.

La questione della ‘smania ordinatoria’ dei Sindaci non è nuova, qualche anno fa tenne banco nel dibattito politologico, nel tentativo di spiegare una non sempre giustificata emergenza sicurezza urbana. La figura del ‘sindaco dominus’ è questione annosa, la si è voluta come segno concreto di maggiore efficacia ed efficienza del processo decisionale, la si è fatta esistere con l’elezione diretta (quasi trent’anni fa), il che ha come sappiamo assai depotenziato il ruolo decisionale degli eletti.

Cogli quindi un punto centrale della questione: ma mentre su altri fronti i Sindaci hanno la possibilità di agire su leve a loro proprie, sul fronte sanitario — benché riconosciuti come prime autorità sanitarie sui territori, prerogativa che però, correggimi se sbaglio, dovrebbe declinarsi essenzialmente nello strumento dei Trattamenti Sanitari Obbligatori — la cosa si fa più complicata. E’ interessante notare come la Legge 833/1978 istitutiva del Sistema Sanitario Nazionale all’art. 32. (Funzioni di igiene e sanità’ pubblica e di polizia veterinaria) preveda che (comma 1) “Il Ministro della sanità può’ emettere ordinanze di carattere contingibile e urgente, in materia di igiene e sanità’ pubblica e di polizia veterinaria, con efficacia estesa all’intero territorio nazionale o a parte di esso comprendente più’ regioni” ma anche (comma 2) che (comma 3) “Nelle medesime materie sono emesse dal presidente della giunta regionale o dal sindaco ordinanze di carattere contingibile ed urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più’ comuni e al territorio comunale”.

Questa sovrapposizione di competenze e di possibilità normative, tesa a soddisfare un po’ tutti, come nostra abitudine, si presta a ingenerare il caos. Quindi, i margini d’interpretazione sono enormi, al limite dell’entropia. Il che dovrebbe suggerire due possibili strade: da una parte, una revisione radicale di queste prerogative, il che porrebbe, mi pare ovvio, questioni di praticabilità costituzionali per come andrebbero ad intaccare il principio di autonomia locale. Dall’altra, invece, il rafforzamento dei livelli di governo intermedio, tendenzialmente quelli regionali (in un quadro, forse, di revisione dei perimetri delle stesse, ma questa è un’altra storia). Perché dice: l’emergenza ci ha insegnato che sul fronte sanitario occorre riaccentrare tutto, e che la riforma del Titolo V è stato un errore. Ma ne siamo sicuri?

Un caso di riforma federalista compiuta, quella tedesca, pare raccontare un’altra storia: come riporta il Guardian, “una settimana e mezzo nel blocco di fatto, tuttavia, la Germania sta iniziando a scoprire i lati positivi di un sistema che distribuisce, piuttosto che centralizzare, il potere”. Un sistema, quello tedesco, in cui i “servizi sanitari pubblici sono forniti non da un’autorità centrale ma da circa 400 uffici di sanità pubblica, gestiti dalle amministrazioni comunali e dei distretti rurali”, e che “consente una varietà di laboratori — alcuni collegati ad università o ospedali, altri gestiti privatamente, medie imprese — che agiscono in gran parte autonomamente sotto il controllo centrale”.

Cosa dovrebbe cambiare in Italia per generare un effetto simile? Passo.

Penso che in Italia dovrebbe cambiare l’interpretazione di alcuni termini troppo spesso sbandierati dalle istituzioni e dalla classe politica come grimaldello e giustificazione delle loro azioni, tra cui in primis quello di ‘autonomia’. Faccio un inciso fuori dalla materia comunale per dare idea di quanto dico: è ‘autonomia universitaria’ lasciare ai Rettori la facoltà di chiudere o meno le biblioteche e disciplinare le condizioni di pubblica sicurezza e igiene interna ai locali universitari durante un’emergenza sanitaria? Penso che la risposta sia, con gran convinzione, inattaccabile: ovviamente no. Se ‘autonomia’ e ‘anarchia’ si fondono nello stesso concetto non esce fuori nulla di buono.

Il medesimo ragionamento vale, in parallelo, per i Comuni e per le Regioni: l’‘autonomia’ non è “decidere ciò che ci pare su qualsiasi cosa”, ma ritengo dovrebbe essere tradotta come “adattare le decisioni di carattere ‘globale’ alle necessità specifiche del ‘locale’”.

E dovrebbe cambiare, in secondo luogo, anche il concetto di “decisore”: penso che i modelli statici, come quello italiano, abbiano dimostrato ampiamente la loro inadeguatezza di fronte alla gestione di fenomeni complessi, mentre su questo il modello tedesco ha dimostrato, lui sì, ampia lungimiranza di vedute. Si muoveva su questa linea già la proposta Renzi-Boschi del 2016, con l’istituzione di una Camera di rappresentanza delle Autonomie individuata dall’articolo 2 del progetto bocciato dal referendum del 4 dicembre 2016 nell’attuale Senato. Proposta che, in modo discutibile, andava a guardare evidentemente al modello del Bundesrat, dove i Governi dei Länder sono rappresentati direttamente al centro e, su determinate materie, incidono direttamente nella decisione universale e non con interpretazioni o contro-decisioni successive.

A questo fine l’esempio che tu porti relativo alla Germania porta in sé un aspetto fondamentale: i Länder e le altre strutture locali, anche nella sperimentazione di nuove cure e strategie per il contrasto alla diffusione di COVID-19, non si pongono come ‘ras’ del proprio microcosmo, ma come attori propositivi e sperimentatori di soluzioni a vantaggio del macro-cosmo di cui fanno parte.

Perché sostengo questo? Perché ritengo che la Governance di un sistema sia completa ed efficace nel momento in cui si aumenta la platea degli attori che concorrono a formare ‘il decisore’ e che partecipano alle occasioni di decisione, ma non quando si aumentano le decisioni stesse. Da questa mia convinzione, però, discendono alcune domande di fondo che riguardano la prontezza del nostro Paese a riconoscere un nuovo assetto delle strategie e dei processi democratici:

  • siamo pronti a ritenere accettabile che la direzione della sovranità popolare si possa articolare su sentieri tra loro differenziati?
  • siamo pronti a rinunciare alla figura del “sindaco-dominus”, consapevoli che nel meccanismo democratico esso si possa talvolta trovare dalla parte degli ‘sconfitti’?

Penso che sciogliere questi nodi, e soprattutto il secondo, sia inevitabilmente una doverosa premessa per arrivare a una terza domanda più pressante: siamo consapevoli che ‘locale’ non significa, seppur nei confini del proprio Comune, ‘totale’? Passo.

Ma io penso che i tempi siano abbastanza maturi per un’evoluzione del modello di rappresentanza. Mi pare anche suggestiva l’idea di un comune come ‘istituzione totale’, à la Goffman, luogo che si prende cura di te dalla cura alla bara, e di cui quindi il Sindaco è paterno/materno gestore per il bene supremo del cittadino. Mi vengono in mente due immagini: la prima, il Sindaco di Bari (peraltro anche presidente ANCI, quindi in qualche modo punto di riferimento per i colleghi) che redarguisce prendendoli a male parole i cittadini ‘indisciplinati’ che escono di casa; la seconda, la Sindaco di San Lazzaro di Savena che telefona personalmente agli anziani a casa per salutarli e “verificare che stiano bene”. In effetti, si tratta di due esempi paradigmatici di questa idea di comune ‘totale’ che tu evochi, che infatti nulla ha a che fare con una qualsiasi idea di ‘locale’.

Il rapporto individualizzato, personale, agisce infatti in chiave biologica come relazione ‘extra-territoriale’, meta-locale, e che trascende quindi dal rapporto di governo che si stabilisce nell’azione di produzione delle politiche. La politica — tutta — si sposta in massa sulla ‘nuda vita’ (Agamben), con politiche transnazionali che scompaiono di fronte all’emergenza, politiche nazionali che affrontano il problema in ordine sparso, e politiche regionali e locali freestyle. E tutto questo non per indebite invasioni di campo: è proprio previsto che sia così. Un modello pieno di ridondanze, il nostro, ma per starci dentro serve disciplina, cosa che come noto ci difetta.

Il nostro ordinamento è ispirato a un più o meno esplicito principio di isomorfismo multilivello: tutti hanno voce in capitolo su tutto. La gestione dell’emergenza sanitaria ci sta informando che anche laddove è relativamente chiara l’attribuzione di competenze, l’assenza di un luogo di produzione congiunta delle decisioni rende quella attribuzione debole, con una legittimazione continuamente messa in discussione. Laddove non c’è accordo a monte sulle regole, che oggi sono definite da un ‘legislatore’ molto astratto, il ritmo della loro implementazione diventa lento e pieno di inciampi. Forse allora un passaggio chiave perché un modello ordinamentale possa effettivamente darsi passa dalla rappresentanza della periferia al centro, a tutti i livelli in cui concepiamo questi due termini.

Una camera del locale (delle regioni, delle regioni a statuto speciale insieme alle città metropolitane, direi io, finalmente sostanzialmente equiparate) nella Capitale, ma anche una camera dei Comuni nei capoluoghi regionali. Mi chiedo se, forse ancor più che al livello legislativo, questi livelli di rappresentanza non dovrebbero poter incidere nell’azione esecutiva. Passo.

Bene, da presupposti diversi mi pare giungiamo a una intuizione simile. Sulla funzione cui dovrebbero partecipare i Comuni (e in generale, i rappresentanti del ‘locale’) rimango, però, dell’idea che sia solamente il legislativo a dover essere luogo della decisione condivisa, lasciando l’esecutivo suddiviso in livelli concentrici, proprio in virtù di quella definizione di autonomia che proponevo prima: “adattare le decisioni di carattere ‘globale’ alle necessità specifiche del ‘locale’”.

Questo darebbe modo alla sovranità popolare espressa attraverso le differenti consultazioni elettorali di rispecchiarsi in una volontà politica specifica ed esplicita. Questo per evitare di riproporre il meccanismo che ha reso la ‘politica nazionale’ cattiva e infida, di fronte a un’‘amministrazione locale’ immagine delle virtù del piccolo cittadino, pura e cristallino. Seppure ampiamente partecipato, il luogo e il meccanismo delle decisioni deve essere intelligibile all’esterno anche da occhi non politici, quelli del famoso ‘elettore medio’ (anche se sulla sua esistenza dovremmo aprire altri e infiniti discorsi): penso che questo verrebbe garantito da esecutivi riconoscibili su tutti i piani dell’ordinamento, a fronte di un legislativo centrale partecipato e iper-rappresentativo.

Qualcuno, forse anche tu, obietterà che esistono già simili canali (le Conferenze e i Consigli delle Autonomie Locali), ma credo che questi abbiano spesso assolto alla necessità politica contraria a quella per cui sono stati creati: luoghi opachi, lontani da qualsiasi idea di rappresentanza popolare e mediaticamente inaccessibili, spesso vissuti come appesantimento delle decisioni (basti ricordare la sentenza sulla riforma Madia per cui la distinzione tra “parere” e “intesa” fece crollare un intero castello normativo).

Su questo piano emerge, credo, tutta la differenza tra diritto e politica: è sufficiente creare i contenitori formali senza una rivoluzione della cultura politica del Paese?

La sostanza delle cose, certo: creando strumenti per governare dove il più possibile possa coincidere con la forma. Alla fine, lo sai, anche qui la forma è sostanza. Ma anche: le parole sono importanti. Hai ragione ovviamente sulla posizione sovra-ordinata della politica sulla tecnica (anche quella giuridica) e dei luoghi preposti ad ospitarla. Mi chiedo però (in/conclusivamente) se non andrebbe rivisitata l’architettura complessiva dello Stato, tornando back to basics, tornando a dare alle parole il loro significato originario e, quindi, ridando ai Comuni il loro ruolo di garanti — custodi — rigeneratori di beni comuni. Questo dovrebbero fare, questo saprebbero fare.

In una interpretazione del concetto di ‘commons’ che deve incorporare l’idea del locale come bene godibile e non escludibile, come luogo dove è possibile la rigenerazione delle comunità di persone e relazioni, consumate e messe continuamente in tensione nel modello di sviluppo globalizzato. In questo senso, la cultura politica italiana ha un vantaggio rispetto agli altri: le comunanze, i comuni, le comunioni dovrebbero rendere chiaro qual è il DNA del Paese da cui ripartire. Una Costituente per rimettere i beni comuni al centro del nostro patto sociale allora potrebbe dare una speranza al dopo COVID-19, se mai ce ne sarà uno.

Una Costituente che preveda, è il momento di chiamarla così, una Camera dei Comuni in cui il locale abbia un suo spazio dis-intermediato nella produzione delle politiche, di tutte le politiche. Un’assemblea che, certo, continui a mettere al centro il lavoro e la persona, dicendo però che solo una riformulazione di qual è il perimetro di intervento dello Stato e delle Comunità locali ci potrà salvare.

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alessandro pirani
comunitalia

Planner. Into commons, public policy and organization theory.