Teatro delle Ariette

una metropoli nei bordi.

Tattiche progettuali per pensare l’accoglienza come occasione per fare la città diffusa.

alessandro pirani
comunitalia
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7 min readNov 15, 2019

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Che a Bologna le case per gli studenti vengano date col contagocce, non è una novità. Che a Bologna le case agli studenti siano sempre state affittate con tipo moltissime condizioni capestro, non è affatto una novità. Che a Bologna e nelle altre città universitarie sia sempre esistita una bolla speculativa vagamente tribale in base alla quale ‘non si affitta ai meridionali’ o ‘no DAMS’ o altre amenità, che insomma esista il problema dell’affitto a categorie di cittadini speciali, tu chiamali se vuoi city users, che questo problema sia grande come un condominio, ecco non è assolutamente una novità.

Se ne accorsero, all’epoca dell’indimenticato Sindaco Guazzaloca — unico episodio di Giunta-non-di-sinistra, in una lunga era geologica monocolore. Se ne accorsero (vado a memoria, poteva essere il 2000), i costruttori, la cui associazione promosse un progetto per costruire nuovi alloggi per attrarre quella che all’epoca si chiamava la ‘classe creativa’, sulla base del — questo sì, dimenticato — framework delle 3T di Richard Florida, nel suo ‘rise of the creative class’, correva l’anno 2003. Che poi era un titolo curioso e un po’ pruriginoso, se visto da Bologna, ma insomma in questo caso le 3 T stavano per 1) talento, 2) tolleranza, 3) tecnologia.

Tre paroline magiche, da non confondere con le più nostrane 3 I, che avrebbero dovuto descrivere i connotati ideali di una città che avesse voglia di pensarsi come luogo “attrattivo”. Attrattivo e voglioso di pensarsi come città smart — sì, allora si diceva ancora, oggi pure ma non qui — nel disperato tentativo un po’ bislacco di imitare, seppur in sedicesimo, le Grandi Capitali del mondo, che appunto in quanto tali avevano in realtà ben altre logiche di funzionamento — la prima delle quali, come ci ha insegnato il criticatissimo intervento del Ministro Provenzano a Milano alcuni giorni fa, è ed è sempre stata e probabilmente sempre sarà quella della concentrazione accumulativa del capitale a tutto discapito dei territori, tanto quelli periferici quanto quelli ultra-periferici, montani, quelle plaghe neglette dalle classi urbanizzate e buoni solo per le s-campagnate nei fine-settimana.

Sono trascorsi vent’anni, e forse una ville moyenne per certi versi paradigmatica come Bologna ha capito in cosa può consistere la sua specificità, che consiste prima di tutto nello smarcarsi dal rischio di diventare una periferia di Milano per colpa della metropolitana padana, e poi nel valorizzare le proprie specificità produttive e culturali di ex capitale dello Stato Pontificio del nord, e infine di evitare di diventare una periferia di Milano. Tutto chiaro, ma a mettersi di traverso c’è stata, nel frattempo, la terza T di Florida che da delizia si è trasformata in croce, in un amen. Complice l’esistenza ed efficacia del network effect, nonché della implacabilità tutta pull — e quindi, esiziale per un sistema essenzialmente basato sul push — dei sistemi platform-based. Complice l’azione sublimemente estrattiva delle logiche low-cost, che hanno trasformato la città da “importantissimo nodo ferroviario” (cit.) a “abbastanza importante nodo aeroportuale”. Complice, infine, la difficilissima risposta delle politiche e della politica a fenomeni la cui rapidità mal si concilia coi tempi della democrazia e men che meno con quelli delle burocrazia, pachidermica nei suoi tempi di reazione e bradipesca nell’implementazione delle sue misure di contenimento, nell’invenzione di incentivi-selettivi in grado di piegare l’interesse privato a quello, vivaddio, collettivo.

Ebbene, la Tecnologia ha improvvisamente messo in tensione la tenuta del delicato equilibrio su cui regge(va) la città, questa come tutte le città — in questo senso, Bologna è una città-ideale — e, dopo aver fatto annusare l’odore dei soldi a pochi ma fortunatissimi conduttori di proprietà immobiliari (listing, come si dice) ha improvvisamente eruttato sui tanti i miasmi nauseabondi dell’estrazione del valore dal sottosuolo della storia millenaria della città.

Dice: non ci sono più case per gli studenti, e a questo punto non è più l’unico problema ma uno dei, dato che la gentrificazione del centro storico avanza e qui come allora è una marea subdola, che mica la vedi, mica ti inzuppa le scarpe ma si percepisce nell’aumento impercettibile di un carico urbanistico che nessun strumento pianificatorio aveva previsto: quello della desertificazione delle funzioni umane e della popolazione di zombie da una notte e via, eserciti di operatori di agenzie che cambiano tonnellate di federe sporche e asciugamani, trolley che corrono zoppi sui cubetti di porfido aggiungendo una nuova e inedita fonte di inquinamento acustico all’hum urbano. Ebbene, in tutto questo arrivano anche nella città ideale tentativi di ban verso — genericamente intesi, tanto ormai sono diventati ampiamente category killer — gli Airbnb, come quelli, non sempre efficacissimi, tentati altrove. Tentativi i cui effetti si potranno misurare nel tempo, ma che mi pare non colgano un nodo, il nodo forse, a partire dal quale una politica pianificatoria della città che punti a una qualche efficacia dovrebbe provare a sciogliere, e cioè: il rapporto con le campagne. Gli outskirts, le zone esterne all’urbanizzato principale dei capoluoghi, le colline o le montagne abbastanza vicine da essere raggiunte in un mezzorata di macchina, le prosecuzioni dei cunei agricoli che si infilano nei solchi vallivi, insomma tutti quei posti lì, soprattutto nei casi di città cui viene riconosciuto una specificità metropolitana, ecco in quei posti andrebbe cercata se non tutta almeno buona parte della soluzione al problema dell’abitare e dell’accoglienza.

Quei posti lì, che alcuni definirebbero aree interne (meglio se in una versione, non troppo diffusa invero, di quelle che io chiamo ‘aree interne metropolitane’), che altri ancora chiamerebbero margini e che io, forse, modestamente, definirei edge settlements, hanno alcune caratteristiche che le rendono elemento indispensabile per pensare a politiche che siano sia di contrasto ai fenomeni predatori indotti dai fenomeni di cui sopra ma soprattutto di spinta a territori complessivamente e più equilibratamente accoglienti. Prima di tutto i bordi sono luoghi di rigenerazione, sociale ambientale spirituale, luoghi dove l’ecosistema che altrove viene consumato in un sempre più prossimo overshoot viene invece rigenerato, che si tratti di agricoltura e allevamento, raramente intensivi, o di stili di vita, intrinsecamente più lenti e quindi meno impattanti in chiave sistemica. Poi, sono luoghi che proprio per questa caratteristica di rigenerazione ecosistemica hanno — o meglio: avrebbero — spesso molto da dare al pubblico, ma non dispongono dei mezzi — servizi, infrastrutture, competenze, imprese, persone, forza lavoro, strutture ricettive, insomma asset immateriali e materiali utili a sostenerne la commercializzazione e, quindi, la produzione di reddito conseguente e, quindi, la possibilità di insediarsi in quei luoghi, e infine, quindi, di riequilibrare il gap sperequativo tra città e campagna.

Una politica della casa, che oggi non può essere pensata al di fuori di un ragionamento più complessivo sull’asset immobiliare e sugli usi diversi che se ne può fare, primo tra tutti quello appunto extra-alberghiero, non può esistere se non in prospettiva metropolitana, ché è a quella scala in cui si tiene insieme la complessità, nella ricomposizione dello iato tra centro e periferia, inclusi ed esclusi, chi accede e chi no ai servizi — all’offerta culturale — all’offerta educativa di alto profilo — e chi invece no.

In quest’ottica stiamo montando tatticamente un primo pilota progettuale in un territorio che ha appunto le caratteristiche dette sopra: vicino alla città, ma abbastanza lontano da esserne staccato, servito ma non troppo, bello ma di quella bellezza non stucchevole e stereotipata che non lo ha quindi già reso vittima del turismo mordi e fuggi, quello stesso turismo che ha da decenni deciso che il grand tour di massa d’Italia deve per forza portare a obliterare la visita alla moribonda Venezia e poi, chissà perché, alle Cinque Terre. La Valsamoggia, terra di mezzo tra Bologna e Modena, teatro di tenzoni romanzesche tra popolazioni emiliane, campo di innovazione e attrazione di capitali, in breve terra di elezione per ogni possibile sperimentazione su base territoriale, diventa così il playground in cui prototipare un primo esempio di politica pubblico-privata basata, lato offerta, sulla valorizzazione del patrimonio non o sotto-utilizzato e, lato domanda, sulla distrazione in chiave di vasi comunicanti di parte dei flussi turistici oggi orientati verso la città densa. Da anni stiamo cucendo, insieme, un territorio con il filo di un racconto comune fatto di innovazione, coraggio, bellezza, un racconto che abbiamo fatto diventare internazionale con uscite abbastanza clamorose come questa sul New Yorker. Un modello, quindi, basato su cinque ingredienti essenziali:

  1. un algoritmo operativo per intercettare la disponibilità inespressa di immobili privati da destinare a un uso ricettivo extra-alberghiero
  2. una piattaforma etica e cooperativa fortemente radicata sui territori come marketplace in cui vendere in modo organico l’offerta dell’intero territorio
  3. un apparato imprenditoriale cooperativo in grado di farsi carico dell’intera catena del valore generata dal nuovo sistema di offerta diffuso
  4. una governance locale che fa perno su una struttura di governo votata all’innovazione e che da tempo ha sposato l’idea della transizione verso forme sostenibili di co-abitazione

“Voll Verdienst, doch dichterisch, wohnet
Der Mensch auf dieser Erde”.
(Pieno di merito, ma poeticamente, abita
L’uomo su questa terra)
(Holderlin citato in Martin Heidegger, 1951, in Saggi e discorsi, Marsilio, Milano 1976)

Ne abbiamo parlato qualche giorno fa, e l’incontro è stato un momento fondativo di una sperimentazione pensata per essere replicata ogniqualvolta le condizioni siano simili a quelle di questo primo campo di sperimentazione, e sono tante. Con noi c’erano Panem et Circenses, Foiatonda, il Consorzio SIC, Fairbnb, Destinazione Umana. Un all star team.

Le sfide, su cui lavoreremo di qui in avanti, consistono essenzialmente nella messa in tensione di questi elementi verso l’obiettivo assai ambizioso di farli collaborare in un impasto efficace capace di produrre un impatto reale misurabile secondo le metriche tradizionali (notti) e non (progettualità sostenute sul territorio). Andrà in primo luogo definito la logica di funzionamento di un nuovo sistema di governance dell’accoglienza del territorio, oggi fin troppo ricca. Una logica basata su un modello partecipativo e coevolutivo di decisione, che guidi l’azione collettiva verso la produzione di effetti emergenti e ‘a somma positiva’. Andrà poi messa in moto l’interazione lo strumento di short time rentals, l’emersione del capitale immobiliare dormiente, e l’interazione tra cause locali da sostenere mediante la logica del crowdfunding evoluto abilitato dalla piattaforma by design. Il tutto all’interno di una narrazione che deve restituire la dimensione poetica all’abitare nel mondo, enfatizzando le storie di chi sceglie la vita nei bordi per la ricerca del senso e del significato, inter-agendo con e tras-formando lo spazio in luogo, dandogli un nome, ispirando tutti coloro (e siamo tanti, sempre di più) che oggi vivono una condizione di s-paesamento e cercano un paese cui tornare ad appartenere.

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alessandro pirani
comunitalia

Planner. Into commons, public policy and organization theory.