Nicola Maria Fioni
Con la mente si può viaggiare
4 min readMay 2, 2020

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KOUMBARA, IOS, GRECIA

La spiaggia di Koumbara, Ios, Grecia

“Nick, buongiorno.” Dice una voce soave.
È pomeriggio. All’udito, ma anche alla vista, è il risveglio più bello della mia vita.
Davanti a me, Greta sorride innocente, forse non sa nemmeno quanto è bella.
Oltre che dal suo sorriso sono abbagliato dalle sue curve divine quanto dolci, nascoste da un purpureo costume a due pezzi e un pareo trasparente.
Mi sono addormentato, da solo, sopra il suo letto, durante la siesta.
Il gruppo si prepara a partire: “Andiamo a Koumbara, è abbastanza vicina.”
Siamo tutti in coppia sul motorino, tranne Tommi che si diverte a tirare le staccate col piedino di fuori manco fosse Valentino Rossi.
L’isola è tutta curve e saliscendi, il vento non si placa mai, in quel posto puoi solo avere vent’anni.
Il trenino di centauri procede, sempre nelle stesse posizioni: Greta ed io siamo il fanalino di coda, sempre all’ultimo posto.
“Bravo Nick, tu che vai pianino. Mica come quei matti.”
Me lo grida nel casco, per farsi sentire, con timbro acuto ma non troppo irrequieto, mentre in salita facciamo i quaranta orari e il motore del cinquantino Peugeot cigola.
Per inciso non è che vado pianino troppo apposta, in realtà sono proprio una sega alla guida.
È l’estate dei selfie stick: Ele e Bibi, che ci ha raggiunto un giorno in ritardo causa passaporto scaduto, documentano ore di scorribande in sella ai bolidi comandati da Marco e Johnny.
Adriano e Rachele corrono abbracciati, sono l’unica vera coppia della compagnia.
Quel giorno è il solo in cui non incontriamo pecore, capre, o qualche ovino autoctono lungo la via.
Più ci avviciniamo alla meta, più la strada scoscesa è sterrata, piena di buche e di sassi di tutte le dimensioni, tutti color vaniglia.
Parcheggiamo. Saranno le tre e mezza, il sole a Koumbara è allucinante, non c’è uno spiazzo d’ombra. Nessun bar, nessun ristorante.
Chiedo chi mi metta la crema solare: nessuno vuole toccare il mio corpo informe, consumato da una massacrante relazione a distanza durata dieci mesi, ormai al capolinea.
Li imploro. Alle carte qualcuno la spunta. Alla fine tocca a Johnny.
Passa schifato le sue mani forti e maschie sulla mia schiena flaccida. Si ride.
Mentre gli altri distesi sonnecchiano e prendono il sole sul bagnasciuga, i minuti sembrano non passare, la mia carne inizia a cuocersi a fuoco lento.
Il mio sfigatissimo cappellino della Ferrari non mi protegge abbastanza, e il paio di Rayban che avrei perso qualche anno più tardi in mezzo al Mar Ligure, non alleviano la mia condizione critica.
Devo trovare un rifugio.
È proprio nel momento di minima lucidità, prossimo allo svenimento che noto una conca in prossimità dell’acqua.
È buia, cava e ombreggiante: sembra che in quella tana possa starci almeno una persona.
Mi inginocchio e mentre fletto il mio corpo, sentendo già un piacevole refrigerio, noto che all’interno della caverna ci sono due sagome.
Sto forse allucinando? Che siano le idee di cui Platone parlava nel suo mito della caverna?
Strabuzzo gli occhi e sono sicuro: sono un uomo e una donna.
Avranno intorno ai cinquantacinque anni, oppure ne portano male una quarantina.
Mi tocca confessare al lettore di non fidarsi troppo riguardo alle descrizioni dei minuti che seguono, perché questa conversazione potrebbe essere frutto di un colpo di calore.
Esordisco come se stessi entrando in casa di qualcuno.
Blatero suoni simili a parole, probabilmente in inglese.
Penso di aver ripetuto: “It’s hot, outside” sette volte.
“Sono Kostas.” Sogghigna l’uomo in italiano. Ha un accento dell’Est.
Dal nome deduco sia greco. Tutti i greci si chiamano Kostas, o Dimitrios, al massimo.
“Ho sentito parlare italiano con tuoi amici, di dove sei?”
Ancora stordito cerco di spiegare.
Dico che siamo di varie città d’Italia, ma studiamo tutti a Milano.
La donna tace, è impassibile. Non ricordo abbia mai mosso un muscolo facciale durante la mia permanenza nel loro antro già colonizzato.
Per gentilezza chiedo: “Voi di dove siete invece?”
“Noi siamo croati. Molto bella Italia.”
Kostas. Kostas è croato. Il mondo mi crolla addosso e in quel momento penso anche la grotta mi stia per cadere sul capo e seppellirci per sempre.
C’è silenzio e penso sia colpa mia perché attonito non ho risposto.
“Ah… e quindi vi piace la Grecia? E l’italiano, come mai lo parla così bene?”
Kostas si gratta su tutto il corpo, e a quel punto fa quello che solo un vecchio saggio slavo potrebbe fare: mi racconta tutta la sua vita.

Non so per quanti minuti Kostas mi abbia tenuto in ostaggio in quella grotta, so solo che di lui ricordo solo la nazionalità e il nome, di cui fra l’altro, a questo punto, non sono manco troppo sicuro.
Quando metto la testa fuori, noto che i miei amici non sono più sdraiati sulla spiaggia.
Sono saltati in acqua e d’impeto mi affanno a raggiungerli.
Corro fortissimo finché inciampo nel mare dove lo strato di sabbia ha lasciato spazio alle rocce e mi schianto contro la superficie piatta dell’orizzonte.
Tutti si girano pensando mi sia fatto malissimo. Mi immagino che per alcuni secondi hanno sperato la mia testa uscisse dall’acqua per dire: “Tutto bene, non mi sono fatto niente.”
Ma la Grecia si sa è terra di miti ed eroi, di oracoli e mostri misteriosi.
Così i miei amici non videro sbucare dal ventre marino una chioma bionda e una faccia arrossata, bensì una creatura acquatica a cui gli aedi avrebbe per sempre dato il nome di medusa rosa.

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