Dalle Smart City alle Smart Land

Cristiano Buffa
CONTAMINAZIONI
Published in
6 min readJan 31, 2021

La parola smart vuol dire un sacco di cose, tutte che dovrebbero dare un tono di gradevolezza al sostantivo cui si accompagna: intelligente, veloce, bello, di moda, sveglio e anche aspro come il sapore di un cibo o di una bevanda che si desidera e stimola forte il palato.

A un certo punto smart diventa anche paradigma sociale. Nel 2010 a Rio De Janeiro nasce infatti il progetto mondiale smart city che si propone un miglioramento della vita dei cittadini attraverso una implementazione intelligente delle tecnologie. Non ci vuole molto a che il modello trovi spazio in Europa dove l’EU vara un progetto Smart City mettendo a disposizione fondi per stimolare una qualificazione in senso tecnologico dei molteplici centri urbani.

Non si tratta però di una “vecchia” visione della tecnologia, ma di una concezione intelligente e matura che la pone al servizio di uno sviluppo economico sostenibile, attraverso una gestione sapiente delle risorse naturali per mirare a un’alta qualità di vita di tutti gli abitanti.

Mi sembra doveroso sottolineare come destinatari e collaboratori attivi di questo progetto siano “tutti” i cittadini in quanto uno dei punti chiave del modello è il coinvolgimento reale ed attivo degli abitanti dei centri urbani alla vita pubblica.

Un centro studi viennese, coordinato da Rudolf Giffinger già nel 2007 aveva chiarito quali debbano essere gli ambiti che caratterizzano una smart city: smart economy, smart people, smart governance, smart mobility, smart environment e smart living, ossia una città può definirsi intelligente quando l’economia, i cittadini, il modo di amministrare, la mobilità e i trasporti, l’ambiente e la qualità della vita lo sono. Ma che cosa vuol dire intelligente?

Nicos Komninos, dell’Università di Tessalonica autore della trilogia che ha lanciato il paradigma della smart (intelligent) city precisa che “L’intelligenza sta nella capacità di risolvere i problemi di queste comunità ed è legata all’uso di tecnologie per risolverli. In questo senso, l’intelligenza è una qualità interiore di ogni territorio, in ogni luogo, città o regione in cui i processi di innovazione sono facilitati dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Ciò che varia è il grado di intelligenza, a seconda della persona, del sistema di cooperazione, delle infrastrutture digitali e degli strumenti che una comunità è in grado di offrire ai suoi abitanti.”

Bene, questi sono concetti che hanno girato parecchio in Italia negli anni tra il 2010 e il 2015 e sono molte le città italiane in cui sono stati avviati progetti in linea con questo nuovo modello di sviluppo, anche parallelamente al crescere della spinta ecologista rivolta all’ambiente, ai prodotti enogastronomici e alla produzione di energia. Esperienze significative sono state fatte in Piemonte, in Friuli, in Veneto, in Toscana, in Emilia o a Matera dove è stato lanciato il Rural Hub che unisce molte delle linee di azione adottate nei diversi territori: imprenditorialità giovanile, sviluppo agricolo ecosostenibile, tecnologie digitali, sistemi di networking, coinvolgimento degli abitanti locali. Così infatti si presentava il progetto nella fase di lancio:

“Il Rural Hub è una modalità smart di favorire lo sviluppo del territorio agricolo o a urbanizzazione diffusa di cui si sta cominciando a ragionare in Italia, cercando di combinare i fattori virtuosi dei FabLab con le opportunità offerte dagli incubatori d’impresa. Dal FabLab il Rural Hub vorrebbe mutuare l’idea del network che offre localmente infrastrutture di produzione di manufatti artigianali e open source, mettendo a disposizione pratiche e conoscenze e favorendo la collaborazione tra i nodi della rete. Dal mondo degli incubatori di startup invece il Rural Hub vorrebbe derivare l’attenzione alla scena imprenditoriale, alla facilitazione e all’incubazione d’impresa e di imprenditorialità, l’accesso al capitale e i servizi di accompagnamento (coaching)”

Per complicare maggiormente la lettura vorrei a questo punto introdurre anche la riflessione condotta dai sociologi Beck, Giddens e Lash a fine secolo scorso per porre l’attenzione sul fatto che con il nuovo millennio non è più pensabile l’identificazione tra società industriale e società moderna e che è opportuno ragionare nei termini di una “modernizzazione riflessiva”.

Che cosa vorrebbe dire? Che saltano le tradizionali divisioni di classe e i consolidati schemi di organizzazione sociale per entrare in una realtà che rompe con la tradizione e sperimenta nuove pratiche in gran parte extra-istituzionali, assume maggiore rilevanza l’individuo e vengono riviste le logiche della globalizzazione e dei rapporti centro — periferia. E’ un sistema più fluido e permeabile, dove cresce il bisogno di sapere e di conoscenza in un contesto che risulta più emotivo, più orientato al “fai da te” alla decentralizzazione burocratica e all’interazione tra locale e globale.

Una società dove il rischio assume un ruolo chiave. Che è quello che in questi mesi di crisi dovuta all’emergenza virale sta diventando molto più visibile: “La flessibilizzazione di tempo e luogo di lavoro rende incerto il confine tra lavoro e non lavoro. La microelettronica consente nuove forme di collegamento tra uffici, aziende e consumatori al di là dei settori di produzione … la disoccupazione di massa viene integrata nel sistema occupazionale attraverso nuove forme di sottoccupazione pluralizzata, con tutti i rischi e le opportunità del caso” scriveva Beck nel 2000 (Beck, La società del rischio, 2000).

Ho pensato bene di accennare a questi aspetti per introdurre una significativa evoluzione del paradigma della smart city in ragione del fatto che le logiche territoriali devono oggi essere riviste: i centri urbani hanno pregi e ricchezza ma quelli che sono considerati territori periferici possono comportare vantaggi che possono e devono essere scoperti e pianificati.

Nel 2014 Aldo Bonomi e Roberto Masiero lanciano una nuova sfida con il libro “Dalla smart city alla smart land” che intende affrontare la sfida all’innovazione con uno sguardo attento alle specificità dell’Italia e al crescente aumento delle disuguaglianze nei territori periferici che rappresentano il 60% del territorio nazionale.

I piccoli borghi in Italia presidiano ambienti di grande fascino e di notevoli risorse naturali, senza dimenticare il recente e crescente impegno di piccole attività imprenditoriali nei settori dell’artigianato e dell’agroalimentare di qualità.

Quando si parlava di smart city il discorso poteva risultare chiaro e facilmente comprensibile: nei centri urbani si è verificata una reale concentrazione e integrazione tra risorse economiche, sviluppo di conoscenza, sistemi relazionali tutti fenomeni che facilitano lo scambio, l’interazione e la crescita dei processi innovativi. Ma come possono i paesi periferici inserirsi in un sistema di rete, attrarre e veicolare risorse, generare nuovi modelli di sviluppo? Che cosa comporta di nuovo una smart land?

I principi su cui si muove sono gli stessi della smart city, complicati però dal fatto che i territori periferici non sono attrattivi e la gente se può se ne fugge in città, anche se non pochi dalla città cominciano a prendere in considerazione l’idea di trasferirsi in campagna.

Si possono ipotizzare due linee di sviluppo. La prima è quella indicata da Aldo Bonomi quando parla di “megalopoli”, ossia di “aree vaste” o territori integrati dove una florida campagna completa e arricchisce una produttiva città, nell’ottica quindi di un allargamento su nuove basi dei centri urbani. Un secondo modello, che può risultare da una parte più complesso ma dall’altra più affascinante, potrebbe essere rappresentato da una evoluzione autonoma dei territori marginali che aderendo a trasformazione digitale della realtà e in sintonia con la dimensione dinamica e glocale della modernizzazione fluida, innesca nelle aree marginali nuovi modelli di imprenditorialità che unisce tecnologia digitale e natura così che diventano protagoniste di nuovi sistemi di vita sociale.

Come potrebbero essere questi nuovi poli di vita sociale?

Agli assembramenti e alle congestioni della città si offre come alternativa un riposizionamento territoriale più sparso all’insegna dell’ecologia e della biodiversità, con piani di sviluppo orientati alla valorizzazione di una storia dei territori che ha caratterizzato momenti particolari della storia d’Italia sfruttando le modalità di smart working che consentono nuovi equilibri spazio — temporali.

Un esempio di ciò è dato dal progetto Rural Hub di Matera, di cui ho accennato sopra, ma si possono anche ricordare gli esperimenti che possiamo considerare storici della Fornace dell’Innovazione di Asolo (TV) o quello di H Farm a Roncade (TV) o quelli di cui si è parlato in un importante convegno a Cremona nell’aprile 2018 dove sono state presentate significative esperienze nell’agricoltura di precisione, per la gestione intelligente di tutta la filiera del mais, nella mobilità sostenibile extraurbana, per lo sviluppo di apparati in grado di prevedere le perdite e i guasti nelle reti di servizi e la smart healthcare per le persone che vivono isolate.

In quell’occasione tra i temi trasversali emersi mi sembra doveroso ricordare quello della formazione “il valore aggiunto delle nuove tecnologie è legato alla capacità di saper formare le competenze necessarie” e la facilità d’accesso e di utilizzo delle tecnologie “quello che l’agricoltore vuole è la semplicità nella tecnologia, ciò significa avere a disposizione gli strumenti tecnologici, ma senza dover fare tutta la fatica di capire la ricerca e la complessità che sta dietro a un prodotto hi-tech”.

Non per nulla smart significa intelligente, alla moda, ma anche facile e condivisibile. Perché non darsi da fare per cercare di rendere smart i nostri territori un “po’ periferici”?

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