Identità di città, identità di paese

Cristiano Buffa
CONTAMINAZIONI
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5 min readJun 12, 2020

Il mare non bagna Napoli è un libro abbastanza strano. Strano per la descrizione che viene fatta del desolato ambiente che è Napoli con le persone che lo vivono, nell’immediato secondo dopoguerra, e strano per le aspettative tradite che l’autrice sente il bisogno di descrivere, aspettative di una vitalità scomparsa o di un qualcosa che Anna Maria Ortese cerca e non si capisce bene che cosa in realtà sia.

Fatto sta che questo libro, in cui Napoli risulta essere il protagonista, non è piaciuto molto ai napoletani e Anna Maria Ortese, dopo averlo scritto, a Napoli non c’è più tornata: chi ci viveva non ha presa bene l’immagine della città e delle persone che la scrittrice aveva costruito.

Devo doverosamente aggiungere che Anna Maria Ortese nasce a Roma nel 1914 e la sua famiglia si trasferisce a Napoli nel 1928 e ci rimane fino al 1938, poi Anna Maria sale al nord, tra Firenze, Trieste e Venezia e solamente nel 1945 torna a Napoli dove vive un periodo di intensa attività intellettuale fino al 1953, quando, dopo la scrittura di “Il mare non bagna Napoli”, l’abbandona per trasferirsi definitivamente tra Milano e Rapallo con frequenti viaggi all’estero.

Ma perché Anna Maria Ortese appare così sconvolta per il senso di estraneità che prova nel suo ultimo incontro, descritto nel libro, con il gruppo di intellettuali napoletani con cui aveva condiviso gli entusiasmi traditi di un rilancio della città e del sud?

Mi sembra questo un tema molto interessante, quello cioè del senso di appartenenza a un luogo, a un ambiente, a una forza vitale che viene dal profondo di un contesto sociale radicato in un territorio. Il senso di appartenenza che fa sì che qualcuno ritenga che quel luogo appartenga a lui più che a qualunque altra persona.

La ricerca e l’incontro fanno riferimento a un gruppo di giovani intellettuali che sono arrivati e si sono incrociati a Napoli in quegli anni: La Capria, Rea, Pratolini, Compagnone ma soprattutto Pasquale Prunas, che dopo il forte investimento emotivo sentono la città come propria e guardano gli altri come stranieri e contano i gradi che questi hanno di identità con la città e con gli abitanti, con il luogo simbolo. Come se ci potesse essere un solo modo di vivere una città e un territorio.

Ci vuole poco a far nascere un distacco: “Non sei napoletano, non sei di qui, non capisci i nostri sentimenti e i bisogni di questa terra” e magari lo guardano pure male questo strano interlocutore che vuole appropriarsi di qualcosa che è loro, e lo trattano con sospetto.

È vero che un posto si forma e acquista identità a partire dalle persone che lo abitano, dalla loro cultura, dalle loro aspirazioni o dalla loro indolenza, dalla loro inventiva o dalla loro ripetitività, ma le persone muoiono e ad alcuni ne subentrano altri. In ogni contesto ci sono elementi di continuità e discontinuità e, inoltre, l’uomo è nomade, trasmigra, la società umana evolve attraverso l’integrazione e i cambiamenti di contesto. L’uomo viaggia e nel suo rapporto con ambienti nuovi l’uomo inventa e scopre ciò che prima era nascosto e, se è capace di introdurre qualcosa di nuovo, innovazione, perché no?

Capisco anche il punto di vista di chi non si è mai mosso da un luogo e si identifica con quei pochi chilometri quadrati che circondano la sua casa. C’è indubbiamente a sostenere questo punto di vista una necessità che è quella di tenere viva una storia e una cultura, di tramandarla, di affermare una identità.

Ma questo ha un senso se una cultura c’è, se la cultura che caratterizza quel luogo è qualcosa di vivo, di dinamico, qualcosa capace di attrarre e di creare sintonia tra le persone, altrimenti che cosa si tiene in vita? La paura, la neghittosità, la ripetitività senza anima?

Chi difende il suo territorio dalle invadenze potrebbe chiedere: “Ma chi ci assicura che quello che si propone di nuovo ha un valore che può correttamente integrarsi con quanto già c’è, senza generare situazioni conflittuali e senza cancellare quanto è riuscito ad arrivare fino ad oggi?”

È una giusta e doverosa domanda, ma è necessario anche tenere in debito conto la dialettica delle società e delle culture umane, che evolvono per incroci e contaminazioni.

Un tema che è diventato di moda qualche anno fa era “sei di Napoli se …”, “sei monferrino se…”, ”sei di San Sebastiano da Po se…” e segue l’elenco delle cose e delle abitudini in cui ti devi riconoscere, il modo di affrontare la natura e di confrontarti con il cibo, la musica, il tempo, le parole, i suoni che caratterizzano quel posto. E se non lo sei? O se non condividi cibo, musica, parole e suoni ma sei rimasto attratto da quel posto?

Entriamo qui nella complessa dinamica delle culture e delle subculture e su come queste differenzino i diversi gruppi sociali di appartenenza e come si evolvano o come altrimenti rimangano chiuse in sé stesse e immutabili come oggetti da museo, un discorso di antropologia sociale appassionatamente approfondito da Lombardi Sartriani nelle sue ricerche.

Nel libro dell’Ortese c’è però anche qualcosa di più profondo che vorrei almeno accennare. Una città è incrocio. In città si ci si arriva dalla campagna, dalle campagne anzi, e poi persone di diverse provenienze si incontrano e scoprono di condividere ideali e sogni, di avere a cuore le medesime cose. È questa comunanza di spirito che prende forma nelle città e che ne costituisce l’essenza.

E poi si scopre a un certo punto che questo ideale si è indebolito, si è smarrito, è morto e allora le persone non si riconoscono più, e anche il posto non dice loro più nulla come non generano più sentimenti anche quelli che prima si consideravano amici.

Quelli che sentono dentro di sé ancora qualcosa che urge e spinge se ne vanno e cercano nuovi posti dove i fermenti sono più vivi, dove ci sono altre persone da cui sprigiona una forza vitale e dove si può ricominciare.

E gli altri, quelli che non hanno né la forza né la volontà di andare via? Rimangono attaccati al luogo cui pensano di appartenere e restano lì, in attesa, nemmeno alla ricerca di qualcosa o con la disperata volontà di farlo rinascere, ma in uno stato di sonnolenza che ha ogni tanto qualche sprazzo di vita, ma incattivito e rancoroso nei confronti di chi se ne n’è andato e nei confronti di chi non è disposto a dare fiducia. Ma a chi dare fiducia? Alle persone? alle idee? al luogo?

Ecco c’è da chiedersi quanto un posto sia davvero capace di dare forza, vigore o sia invece solo un casuale punto di raccolta, dove talvolta confluiscono natura, forze produttive e paesaggi, risorse, persone e idee: un incrocio di strade dove magari a un certo punto della storia non passa più nessuno e dove una volta invece ci si spingeva e, per la quantità di persone e di idee che c’erano, si doveva faticare per essere presenti e mettersi in mostra.

Quanti posti sono ormai mucchi di detriti e di rottami di una vita scomparsa.

Mi viene difficile capire come una persona possa sentirsi “di” un posto e possa con sicurezza stabilire che esistano strette correlazioni tra “quel” posto e determinate persone. E che queste strette correlazioni possano diventare una specie di obbligatorio passaporto.

Forse a un certo punto della propria vita, a meno che non si sia nati, vissuti e profondamente rimasti ancorati a un campanile, si dovrà fare come ha fatto Anna Maria Ortese, andare a Milano a lavorare e a Rapallo a riposare.

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