Il fascino del tempo

Cristiano Buffa
CONTAMINAZIONI
Published in
7 min readMay 15, 2020

Le storie. Che cos’è una storia? Di che cosa deve parlare? Perché qualcuno si sente spinto a raccontare una storia? Ci sono poi le storie dei ricchi a cui molti sono interessati e le storie della povera gente di cui pochi se ne occupano.

Quando ti trovi a vivere nei paesi di campagna ti può capitare di guardare vecchie foto dove venivano ritratte le persone ai matrimoni, ai battesimi oppure anche al lavoro nei campi, oppure ti capita di sentire raccontare storie che vengono tramandate e fanno parte di una specie di repertorio di famiglia oppure ti capita di partecipare a feste dove magari si balla e dove ci si lascia trasportare da una strana vitalità collettiva e dove ti capita di sentire raccontare fatti curiosi, avvenimenti e pettegolezzi.

È il fascino di un tempo che scorre lentamente, dove il presente si mescola con il passato e sembrano un tutt’uno, si fa fatica a distinguere e talvolta ci si chiede che cosa cambia, anche se lo vedi dai vestiti, dal modo di mangiare, dagli attrezzi che utilizzi e dal modo di comportarsi.

Però il fascino del passato resta sempre. L’atteggiamento, l’abito, le persone, le storie che raccontano quello che hanno fatto e come si sono impegnati per il territorio. Tutto ciò ha lasciato un segno, qualcosa che ancora vive, anzi vive perché qualcuno l’ha fatto nascere.

In mezzo a tutti questi segni, questi racconti, queste storie, ci si interroga a chi appartengano, che carattere abbia il territorio, l’insieme di persone che oggi sono gli eredi di quanto è accaduto, che ritengono loro dovere custodire quei ricordi, quelle immagini e quelle storie.

Negli anni ’60 in Italia c’è stato un forte stimolo a dare un nome a tutto ciò, ci sono stati alcuni studiosi di antropologia che hanno messo in piedi ricerche e discussioni sul folklore, ossia su questa memoria del popolo. Studiosi come Ernesto De Martino, Luigi M. Lombardi Sartriani, Piero Camporesi hanno cercato di dare una impostazione scientifica a queste ricerche, sforzandosi di depurarle da tutte le incrostazioni che si erano succedute nel tempo a partire dalla strumentalizzazione fascista, utilizzata per fornire una specie di retroterra culturale a molte scelte politiche, per arrivare alla strumentalizzazione della cultura di massa che ha colto l’importanza del folklore per creare una facile attrattività ad alcuni prodotti di grande consumo.

Questi storici e antropologi, richiamandosi a Gramsci, si ponevano il problema di ricostruire una identità per queste popolazioni che non avevano una storia, in quanto la storia era stata fatta dagli intellettuali per le categorie superiori. I re e i nobili avevano gli storici, la grande borghesia urbana aveva gli intellettuali che ne raccontavano le aspirazioni, le capacità, le battaglie eroiche e anche le sconfitte. Ma i poveri, gli abitanti delle campagne, i contadini e gli artigiani, coloro che vivevano alle dipendenze dei signori, chi aveva che ne raccontava le storie?

Si trattava in altre parole di dare una identità a tutti questi soggetti e a questi luoghi, luoghi dove non ci sono intellettuali, storici o artisti che ne hanno parlato come può essere accaduto a città d’arte e di cultura come Venezia, Milano, Firenze, Roma, Napoli, Parma e cento altre città. Questi luoghi sono popolati da paesi immersi in un paesaggio affascinante dove magari sono state costruite cappelle, chiese, ville e castelli ma il cui ricordo si è perso nel tempo. Ed ecco che allora era scattata in queste persone la consapevolezza che una nazione non avrebbe dovuto abbandonare questi luoghi. Lombardi Sartriani ha dato un titolo suggestivo e chiarificatore a uno dei suoi libri che si occupava di questi problemi: “Il silenzio, la memoria, lo sguardo”.

Il racconto, la memoria, la storia oggi sono importanti. La comunicazione ha bisogno di storie, ha bisogno che qualcuno ne trovi sempre una nuova, che sappia raccontarla e sappia presentarla nel modo giusto. Succede per la pubblicità, per le grandi città e anche per i piccoli paesi.

Ma a che cosa serve una storia? Una storia mette in evidenza luoghi personaggi e sentimenti, aspirazioni. I personaggi di una storia possono poi risultare gradevoli o sgradevoli, i luoghi servono per ambientare e per dare consistenza ai sentimenti e l’intreccio serve a sprigionare reazioni ed emozioni nel lettore. Se una storia è scritta bene il lettore prende parte, si schiera.

In ogni caso una storia costruisce una identità. Qualcuno che prima non esisteva, o che esisteva e nessuno lo conosceva, poi diventa reale e noto, se ne parla. Pensate a Tom Sawyer o Huckleberry Finn chi oggi non li conosce? Ma chi li avrebbe mai conosciuti se Mark Twain non li avesse tirati fuori dalle rive del Mississippi e non gli avesse dato un volto e un’anima?

Gli scrittori scrivono storie perché sperano che per il pubblico che legge anche il narratore a poco a poco acquisti una identità e abbia un riconoscimento ma fondamentalmente scrivono perché a poco a poco si innamorano dei loro personaggi.

Ho iniziato a parlare delle storie dei piccoli paesi italiani e sono andato a parlare della grande America. Bisogna dire che per quanto riguarda gli ambienti dove vive la povera gente sconosciuta ce ne sono stati tanti di scrittori nella grande America che se ne sono occupati, l’America delle grandi pianure e dei piccoli paesi o degli abbandonati luoghi montani, basti pensare a Steinbeck, a Faulkner ad Alice Munro per arrivare a Nickolas Buter a Toni Morrison, a Cormac McCarthy, a Kent Haruf che con le sue storie di abitanti delle pianure del Colorado è considerato il cantore dell’America rurale o a Annie Proulx di cui vale la pena ricordare, oltre al noto “I segreti di Brokeback Mountain” il libro “Cartoline” dove i Blood, una famiglia di miseri agricoltori del Vermont riesce a distruggersi nonostante cerchi sempre disperatamente di rilanciare la posta in gioco, di ricominciare.

Ho parlato dell’America e si può parlare della Cina, dell’Africa dell’India, dell’Algeria e della Palestina ma dobbiamo poi doverosamente tornare alla nostra Italia dove gli scrittori che hanno cercato di dare un volto agli uomini dei piccoli paesi costituiscono una parte consistente del nostro patrimonio letterario: Pirandello, Pasolini, Ignazio Silone, Grazia Deledda, Carlo Levi, Corrado Alvaro, Dino Buzzati, Luigi Meneghello, Sandro Veronesi, Andrea Vitali. Come dimenticare poi Lucio Mastronardi con tutti i suoi personaggi di Vigevano, il maestro, il calzolaio, il meridionale o recentemente Franco Arminio che si è posto come obbligo morale il viaggiare per piccoli borghi e far emergere le piccole storie degli abitanti.

Per entrare nello specifico delle storie, si può dire che lo scrittore non vuole lanciare nuovi modelli e fare diventare i personaggi di cui scrive qualcuno con cui identificarsi, ma è più motivato a suscitare emozioni. Lo scrittore entra in sintonia con alcune figure per cui prova curiosità, nostalgia e ammirazione, ma anche rabbia nei confronti dei loro modi di agire, di come si confrontano con le difficoltà, di come affrontano la fatica e la banalità del vivere.

I narratori con le loro storie cercano di conferire individualità ai fatti, ai modi di vivere e di pensare degli abitanti di questi luoghi abbandonati anche se a volte questo patrimonio di sapere sconosciuto sembra seguire o ricalcare ritmi consolidati, tradizioni tramandate, sembra potersi intrecciare con una specie di patrimonio delle culture popolari, con il folklore, insomma.

Negli anni ’70, quando sembrava che l’industrializzazione avrebbe cancellato i precedenti modelli di vita e condannato alla dimenticanza tutta la cultura contadina, Roberto Leydi, rappresentante di un filone di intellettuali impegnati nel sociale e interessati a mettere in evidenza fonti e filoni di storia alternativa, andava a raccogliere le canzoni del popolo, il loro modo di raccontarsi e di emozionarsi. Erano anni in cui anche la Regione Lombardia aveva istituito un laboratorio, un centro di ricerca che mandava in giro fotografi e cineoperatori a filmare feste tradizionali, carnevali, danze e processioni per raccogliere storie e saperi.

Quando all’inizio accennavo all’impegno degli studiosi di depurare la cultura popolare dalle incrostazioni intendevo introdurre un nodo problematico che è sempre risultato critico nel rapporto tra le diverse forme culturali, quelle delle classi dominanti e quelle del popolo.

Stefano Cavazza nel suo libro “Piccole patrie” dove parla delle feste popolari confrontando i caratteri regionali e territoriali e la dimensione nazionale, precisa che la ricostruzione e la ripresa delle feste popolari può svolgere la funzione di attrattività per il territorio per far arrivare turismo, serve come svago per gli abitanti in quanto si colloca come pausa tra le loro fatiche e serve per ricostruire l’identità locale.

Il problema dell’identità locale è l’aspetto che più mi interessa e mi preoccupa, ossia le storie del popolo, le immagini e le musiche del popolo assunte come elemento caratterizzante, di distinzione e di differenza, di rivendicazione e consolidamento acritico del passato.

E’ un tema che non voglio chiudere, ma anzi intendo rilanciare, ricordando come già Roberto Leydi ebbe chiaro che la documentazione della tradizione popolare non poteva essere limitata al suo carattere di emarginazione, o protesta, o a quello di un diretto impegno sociale. Né condivise l’opinione, molto frequente negli anni ’60 e ’70, che la cultura popolare e contadina fosse in sé stessa alternativa.

L’identità non può solo recuperare nostalgicamente il passato, deve dare consistenza a un soggetto che si proietta nel futuro. Un soggetto capace di fare nuovi progetti, di inventare cose nuove, di creare nuovi significati a partire dalla sua storia e dalle risorse del territorio.

Non dobbiamo dimenticare che quello che è stato fatto ha richiesto allora energie ma ne chiede anche oggi di nuove per mantenere la sua vitalità e il suo diritto di vivere. Non basta la nostalgia del ricordo, dello sguardo che indugia sui volti e sulle figure, che si lascia affascinare da un passato che tende a diventare mitico.

Ecco che cosa manca? Dove prendere nuova energia?

In una situazione che progressivamente vede nuovamente crescere il divario tra centri urbani sempre più immersi nella globalizzazione e luoghi periferici che vengono sempre privati di risorse è necessario trovare la chiave di volta, quella che consente di rendere questi posti attrattivi, non solo per i turisti ma per le persone che ci abitano.

Ci sono alcune cose che dobbiamo tenere stretti forte, come la soddisfazione di poter godere di paesaggi che incantano e che mutano al variare del vento, di poter gustare il silenzio o di poter camminare in mezzo a i boschi, ma ci sono anche aspetti positivi di una realtà globale in continua trasformazione di cui invece dobbiamo rubare i segreti per riprodurle e per farle rinascere con nomi nuovi.

Quando diciamo che è opportuno raccontare storie per costruire l’identità di questi luoghi marginali, dobbiamo anche noi compiere uno sforzo di forte innovazione e cercare tra le gente che li abita i segni di queste nuove realtà.

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