Questa volta non posso non parlare di scrittura

Cristiano Buffa
CONTAMINAZIONI
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4 min readApr 8, 2023

Ho scritto, ho scritto cose sparse. Che si sono perse. Ho scritto quei testi perché me li hanno chiesti o perché facevano parte di progetti che in quel momento mi interessavano e sono stati inseriti in libri e riviste che sono stati pubblicati ma di cui spesso sono svanite anche le tracce. Ho scritto di esperienze vissute nell’adolescenza quando i grandi che si hanno intorno possono rappresentare per te una miniera di segreti e di tesori da scoprire. Ho scritto di come si fanno i libri, si catalogano e come poi sarebbe opportuno leggere quelli ed altri. Ho scritto di teatro, di danza, delle nuove esperienze del digitale e di come si possa creare una sintonia tra attori e spettatori. Ho scritto di fotografia e di come l’occhio venga catturato dalle immagini e come riesca poi a produrre nuove visioni. Ho scritto di come anche l’impresa cerchi di comunicare, non solo per vendere prodotti ma anche perché chi lavora nelle imprese si costruisce un immaginario che non si fonda solo sullo sfruttamento dei lavoratori ma rappresenta anche un tentativo di realizzare qualche utopia, di raggiungere territori sconosciuti. Ma non ho dimenticato, e ne ho scritto, di come i lavoratori si riuniscano in assemblee per difendere il loro lavoro e di come riescano a renderlo migliore o come possano trasformare le schermaglie con i padroni in stanchi rituali.

Mi sono anche dato da fare che altri scrivessero: riviste, enciclopedie, raccolte di storie, fumetti. Ogni tanto scrivevo poesie e aggiungevo un capitolo a un lungo romanzo che avevo iniziato da adolescente. Poi, preso da nuove occupazioni, ho scritto su come il digitale possa rendere più funzionale la pubblica amministrazione o possa diventare uno strumento dialogico per favorire la crescita delle comunità. Poi mi ha attratto il discorso sul cibo, su come il cibo non serva solo a nutrire le persone ma possa anche stimolare la crescita di un fare artigiano, di una attenzione premurosa nei confronti della natura, stimolando creatività nascoste e costruendo nuove mitologie.

E nel far questo non mi sono mai preoccupato di come gli altri mi leggessero e che cosa ne pensassero. Mi divertivo a scrivere e a inseguire le parole per accostarle una all’altra seguendo il filo del mio pensiero che voleva indagare territori sconosciuti.

Nel frattempo, gli anni passavano e mi sono lasciato prendere dal fascino delle colline. Prati in declivio, vigneti, campi coltivati, attraversati da torrenti e fiumi che serpeggiano tra i boschi e i luoghi abitati: cascine e ville, cappelle e chiese, torri, castelli. In questo contesto, dove anche gli animali hanno una loro anima e dove le case abbandonate sono capaci di far emergere cose nascoste e segreti, mi sono guardato in giro, ho camminato, ho parlato con persone e ho scritto delle storie e mi sono detto che queste storie sarebbe bene che anche altri le condividessero con me.

In questi ambienti mi sono anche però reso conto di che cosa significhi sentirsi solo, specialmente di notte, quando il cielo pieno di stelle ti prende e ti metti a contarle e ti senti un moscerino nell’universo, qualcosa che quando scompare nessuno se ne accorge.

Allora mi sono detto che questi ultimi libri che scrivo è bene che si sappia che li ho scritti. Anche se non sono chissà che cosa, anche se non pretendono di cambiare il mondo ma cercano solo di cogliere qualche piccolo e insignificante aspetto nascosto tra le pieghe della realtà, o dimenticato nelle tasche di qualcuno che anche lui cerca un posto dove andare e dove riconoscersi.

Per questo ho intitolato questo libro di racconti “Interstizi”, che è una parola di uno di città, ma mi sono poi sentito in dovere di aggiungere il fatto che sono storie, narrazioni e fantasie come quelle che una volta si raccontavano le famiglie alla sera davanti al fuoco.

Ma poi mi è saltato fuori quell’interrogativo che non è niente male per chi scrive: “Ma chi leggerà mai questo libro?” E il problema dei lettori è un problema che diventa sempre più complicato. Crescono quelli che scrivono e diminuiscono quelli che leggono e poi quelli che leggono vanno subito dritti a leggere i libri che i social e i media gli dicono che non possono non leggere. Ci sono libri scritti da quelli fighi che non si possono non leggere: metti il vincitore del premio Strega o quello scritto dal figlio del re d’Inghilterra Carlo III che vuole sputtanare suo padre, come si fa a non leggerlo, oppure Renzi che parla male di tutta la politica italiana o io sono Giorgia che spiega come si fa a cambiare volto all’Italia.

Amélie Nothomb, che di libri ne ha scritti tanti, dice che il lettore a cui pensa è se stessa. Scrive per sé romanzi e racconti, poi agli altri magari questi piacciono e si dichiarano suoi appassionati, anche perché è importante che ci siano i lettori.

Scrivi ma che ci sia un lettore è necessario, scrivere vuol dire entrare in una logica di scambio, occorre che qualcuno ricostruisca il percorso dei pensieri, dei sentimenti e delle parole che ha messo insieme chi ha scritto. Io ti racconto una storia che invento, una parte della mia vita, impressioni e fantasie che ho raccolto girando e guardando il mondo che mi sta intorno e tu mi dici la tua: che cosa ne pensi di quello che ho scritto, quali pensieri ti ha suscitato. E questo capita anche per gli scrittori che non ci sono più e che ti affascinano e che quando leggi i loro libri ti verrebbe voglia di incontrarli al bar e scambiare qualche parola con loro, farti dire perché hanno scritto quelle cose e raccontargli quello che hanno stimolato dentro di te i loro scritti.

Oppure? In realtà chiedersi che cosa ci si scambia tra scrittore e lettore è una domanda che difficilmente potrà avere una risposta soddisfacente, almeno tanto quanto quell’altra domanda: perché mi sono messo a scrivere?

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