Viaggi alla ricerca di …

Cristiano Buffa
CONTAMINAZIONI
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5 min readMay 3, 2020

In questi giorni siamo chiusi e viaggiare è qualcosa che sembra appartenere a un altro mondo. Viaggiare, conoscere gente, parlare magari, scambiarsi storie e assaggiare del cibo che ti offrono. Una delle cose più belle della vita è entrare in una dimensione vitale e creativa con un’altra persona, prima sconosciuta ma poi a poco a poco che ci si addentra nelle storie reciproche ti svela mondi che non conoscevi e che ti arricchiscono, ti fanno capire qualcosa di te che prima ti era nascosto.

Scrittori che raccontano di questi mondi ce ne sono e non pochi, si può dire che molte delle storie scritte da buoni narratori contribuiscono all’allargamento della nostra conoscenza.

Tra i narratori di viaggio ci sono anche persone che vogliono affermare la loro narcisistica visione della vita ma ci sono anche per fortuna molte donne, donne avventuriere, donne capaci di mettersi in gioco fino in fondo. A me piacciono molto ed è per questo che mi sembra doveroso suggerire qualche lettura.

Uno spunto per partire me l’ha dato Melania Mazzucco che in un articolo sul Sole 24 del novembre 2005 racconta di una sua strana avventura che le è capitata quando è andata in Argentina a presentare il suo libro “Lei così amata” scritto su Annemarie Schwazenbergh, allorché, dopo aver avventurosamente raggiunto l’università di Cordoba, scopre che i ragazzi che l’avevano silenziosamente ascoltata per tutto il tempo non conoscevano l’italiano, la lingua da lei usata per la conferenza.

Ecco, quando si viaggia il problema della lingua è cruciale, la lingua è decisiva se si vuole viaggiare e scoprire posti sconosciuti ed entrare in rapporto con le persone. Giusto Annamarie nelle prime pagine del libro “La gabbia dei falconi” lo mette in evidenza quando racconta di un ebreo rumeno che incontra su un vagone alla frontiera turco-siriana e dopo vari tentativi “con l’aiuto di qualche brandello di francese e di spagnolo, in qualche modo riuscimmo a capirci”.

Annemarie Schwarzenbach abbandona la sua tranquilla Svizzera e viaggia in giro per il mondo negli anni tra il 1933 e il 1942, prima dello sconvolgimento del conflitto mondiale. I paesi visitati e descritti sono la Russia, la Persia, gli Stati Uniti, il Marocco, il Congo belga, l’Europa del Nord e l’Afghanistan. Non vale la pena raccontare molto perché è più giusto leggerli i suoi libri, ma vale la pena sottolineare il suo sguardo disincantato, critico e ferocemente teso a difendere una dimensione egualitaria per le donne e le persone più deboli. Tra tutte le pagine mi sembra interessante a questo proposito nel libro “Dalla parte dell’ombra” quella di cui parla delle belle ragazze di Kaisar “Fino a quel momento, Ella ed Io avevamo potuto far solo discorsi teorici sulle donne afghane. Nel corso di molte settimane trascorse in questo paese, rigidamente maomettano, avevamo fatto amicizia con contadini e funzionari, cittadini, soldati, commercianti dei bazar e governatori di provincia. Ovunque eravamo state accolte con ospitalità e avevamo cominciato ad affezionarci a questo popolo coraggioso, allegro e integro… Ma sembrava di vivere in un paese senza donne… avevamo visto alcune di queste figure imbacuccate, informi, passare veloci per i vicoli del bazar e sapevamo che erano le donne degli afghani che camminavano fieri e liberi … ma queste apparizioni spettrali avevano poco di umano.”

Un’altra donna, anche lei svizzera e anche lei morta giovane come Annemarie e anche lei indipendente e fiera è Isabelle Eberhard vissuta alla fine dell’800, una donna, figlia di una nobildonna russa, che impara l’arabo, si parte dalla Svizzera, soggiorna per qualche tempo in Algeria, ritorna e poi si muove tra Tunisia, Marocco e Algeria spesso vestita da uomo per superare le limitazioni della società musulmana, frequenta i caffè vietati alle donne, beve e fuma il kif miscela di tabacco e canapa indiana, e scrive.

Le sue pagine sono diverse da quelle che scriverà Annemarie 30 anni dopo. I luoghi dove si muove sono descritti nei minimi particolari, come quelli che sembrano appunti buttati giù di getto durante le serate in cui si riposa durante il suo viaggio sahariano riportati nel volume “Scritti sulla sabbia”: “un fumo acre sale in grigie volute da un piccolo braciere di sterco di cammello che la pazza ha acceso davanti agli alberi. La terra tuttavia, emana un odore dolciastro di carnaio; ossa sparse, una gran pozza di sangue iridato, putrefatto … serve quel luogo da mattatoio”.

Nota tutto le cose e le persone, in un tono che sembra freddo e disincantato anche se poi dentro di sé tutto si trasforma in tormento teso a un continuo superamento dell’io, come esprimono queste parole nel volume “Sette anni nella vita di una donna”: “Mi sentirò sempre attratta dalle anime che soffrono di quella nobile e feconda sofferenza che è l’insoddisfazione di se stessi, la sete di Ideali, questa cosa mistica e desiderabile che deve accendere gli animi, elevarli verso le sfere sublimi dell’aldilà … Non sarà mai, ad attrarmi, la serenità dello scopo raggiunto: considero esseri veramente superiori, nel mondo di oggi, coloro che soffrono del male sublime di dare perpetuamente alla luce un io migliore. Odio chi è soddisfatto di sé stesso e del suo destino, della sua mente e del suo cuore. Odio l’imbecille protervia dei borghesi, sordi muti e ciechi, decisi a non tornare mai sui propri passi. Bisogna imparare a pensare…”

Mi piace mettere in evidenza queste due scrittrici, anche se scritti di donne e di viaggiatori nei paesi dell’Islam se ne possono ricordare molti altri, in gran parte inglesi in ragione della loro spinta colonialista, tra cui Lady Hester Stanhope, Isabella Bird, Mary Kingsley, Freya Stark che visse molto in Italia, Gertrude Bell, Vita Sackville-West, o anche Wilfred Thesiger autore di un bellissimo libro “Quando gli arabi vivevano sull’acqua” sugli abitanti delle paludi dell’Iraq meridionale.

Ecco, il motivo per cui ho per loro una certa preferenza è che sono meno contaminate dallo sguardo occidentale, quello sguardo di cui parla Edward Said nel suo libro “L’Orientalismo”, uno sguardo che è profondamente condizionato da un determinato punto di vista, quello dell’occhio che sa leggere solo attraverso segni e significati prodotti dalla propria cultura. Beh, indubbiamente non se ne può fare a meno, ma si può almeno fare un tentativo per liberarsene.

Per chiudere mi sembra giusto far riferimento al libro “Il silenzio” di Erling Kagge, un viaggiatore estremo, che ha visitato il polo nord, il polo sud e una vetta dell’Everest. Lui ha scritto un libro sul silenzio, e l’ha scritto in silenzio. Ma qual è il silenzio di cui parla Kagge? “cercare il silenzio. Non per voltare le spalle al mondo, ma per osservarlo e capirlo. Perché il silenzio non è un vuoto inquietante ma l’ascolto dei suoni interiori che abbiamo sopito”.

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