Com’è nata l’immagine che arriva da lontanissimo

Frammenti di segnali luminosi, poi messi insieme e colorati per renderli visibili. Un lavorone.

Fabio Servolo
Controforma
4 min readJul 15, 2022

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L’11 luglio, con la sua prima visione deep field dell’Universo, il James Webb Space Telescope ci ha portati lontanissimo. Ha battuto dopo dieci anni il record di profondità e nitidezza rispetto al precedente telescopio Hubble. L’immagine che ha già scritto la storia nasce da una serie di processi che vanno molto oltre l’idea di fotografia che abbiamo più o meno tutti in mente.

L’abbiamo vista tuttə, ma non l’abbiamo vista davvero, perché non esiste così com’è apparsa sui nostri schermi. Non è esattamente una fotografia, è un’immagine, o meglio una ricostruzione accuratissima di come quel simpatico insieme di galassie dovrebbe essere. Anzi, come doveva molto probabilmente apparire poco dopo il Big Bang, questo il tempo che la sua luce ci ha impiegato per arrivare fin qui, oggi. Un salto nel tempo di oltre tredici miliardi di anni.

È quello che vediamo ora, ma è come guardare indietro nel tempo, e pensarci fa paura. Nulla di quanto compare in questa immagine esiste più. È esistita. Per sapere come stanno le cose ora dovremo aspettare altri tredici miliardi di anni, c’è da pazientare un attimo. E se questa immagine ci sembra così reale, nonostante tutto, come se fosse una porzione di verità immacolata, va detto che siamo davanti a un esempio di accuratissima e molto attendibile ipotesi.

La luce che ha composto l’immagine finale è stata catturata tramite sintesi additiva, sommando sia quello che il nostro occhio riesce a vedere che quanto ci è invisibile perché trasmesso a lunghezze d’onda che il nostro occhio non cattura. La ricostruzione è stata fatta a partire da 3 canali registrati mediante filtri ottici (red, green, blue), e 4 canali infrarossi a lunghezze d’onda diverse. È stato usato l’infrarosso perché capace di “bucare” i densi conglomerati di polveri e gas, riuscendo ad andare oltre. I 4 canali infrarossi sono poi stati uniti (merged) e il loro contenuto nell’immagine finale è stato assegnato al colore rosso.

Un’altra ricostruzione, meccanica questa volta, è stata quella dello specchio dedicato a raccogliere la luce. Webb utilizza non uno specchio unico, ma segmentato, composto a sua volta da 18 specchi, leggermente curvi. Ogni elemento possiede 7 motori in grado di intervenire sulla tensione e sulla posizione degli specchi, che devono essere perfettamente allineati. Possono essere fatti spostamenti con una precisione di 1/10.000 del diametro di un capello umano. Questi allineamenti sono indispensabili per la nitidezza finale dell’immagine.

A marzo di quest’anno il Webb aveva terminato le sue operazioni di settaggio e “messa a fuoco”: ognuno dei 18 specchi aveva catturato l’immagine della medesima stella, vista da 18 punti leggermente diversi (il “leggermente” cambia di significato quando il soggetto osservato è a distanze così assurde dal punto di osservazione). Le 18 immagini erano poi state sovrapposte e colorate, sempre tramite l’assegnazione di un certo colore a una certa lunghezza d’onda.

Guardando le stelle ritratte dai nostri telescopi abbiamo nel tempo preso per buone alcune caratteristiche presenti nelle immagini. Le stelle più grandi hanno sempre uno scintillio, un effetto di bagliore attorno. Quelle ritratte dal telescopio Webb hanno 8 picchi di diffrazione (i “raggi luminosi” che vediamo a partire dalla stella stessa), probabilmente nessuno di noi le ha notate perché ci sembrano normali, è così che sono. Si tratta invece di un artefatto, generato dai nostri strumenti, non un dettaglio realmente esistente.

Il telescopio visto lateralmente
L’ombra proiettata sullo specchio primario dai supporti dello specchio secondario
Osservazione del fenomeno fisico finale, ottenuto dalla sovrapposizione delle diffrazioni

Il JWST ha uno specchio secondario tenuto davanti allo specchio segmentato principale. Ci sono tre supporti, uno verticale e due disposti ad angoli di 150º rispetto a quello verticale. Entrambi i bordi di ciascun supporto producono un picco di diffrazione, che finisce inevitabilmente nell’immagine. Ma i picchi principali sono generati dai bordi delle sezioni esagonali dei 18 specchi che compongono lo specchio primario. Da qui la forma dei bagliori che vediamo. Alzi la mano l’appassionato di fotografia che questa cosa la sapeva già da molti anni.

Le fasi della ricostruzione dell’immagine

Un’altra delle immagini più iconiche di questo luglio è quella del Quintetto di Stephan, il primo gruppo di galassie ad essere scoperto, nel 1877 da un astronomo francese. L’immagine è ottenuta da un collage di oltre 1000 immagini singole, poi montate insieme attraverso un complesso calcolo della distorsione prospettica.

Quintetto di Stephan catturato dal telescopio James Webb

Insomma per ottenere una visualizzazione finale si passa attraverso una grande complessità di acquisizione, ipotesi, calcolo, traduzione, ricostruzione. È la bellezza della complessità, come ci hanno insegnato a dire, spiegata in questo caso con moltissime approssimazioni, non si poteva fare altrimenti.

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