La tipografia ha fatto un salto avanti e non ce ne siamo accorti
I nuovi caratteri si chiamano variable e promettono magia.
Ora che l’alta specializzazione è finalmente stata messa in discussione, a favore di un approccio da expert-generalist, possiamo dirlo senza più timore: osservare altri ambienti e rubarne le dinamiche ci fa crescere.
Ecco perché si è reso necessario innestare un approccio informatico direttamente alla base della progettazione visiva, tenendo da subito insieme numeri e creatività. Un’idea di digitale che non è semplice destinazione di una precedente intuizione, ma è esso stesso strumento creativo. Non è esclusa da questo processo nemmeno la creazione di caratteri tipografici.
Il 2020 sarà definitivamente l’anno dei variable font: si tratta di caratteri digitali, strutturati tramite un codice che interpreta le indicazioni del designer, completando e implementando il disegno. Caratteri che si sanno evolvere e adattare a qualsiasi ambiente. La tecnologia per crearli non è una novità, ma rimangono per molti creature sconosciute.
Ok, perché?
Da qualche parte in noi, probabilmente, è radicato il concetto di incisione, un residuo ereditario che parte da lontano, con i caratteri Romani o anche prima. Lettere scolpite, fisiche, non mutevoli. Il fascino del capolavoro. Siamo tranquillizzati dalle cose che non cambiano. Invece ora sta succedendo il contrario, l’arte della tipografia ha imparato a includere variabili matematiche e potenzialità digitali. Ai professionisti viene richiesto più in generale di superare il concetto di definitivo, qualsiasi cosa esso riguardi. Evitare di cesellare la propria scultura per renderla senza tempo, risolutiva. Fuori dalla finestra tutto è in movimento.
Un variable font può agilmente cambiare forma e consistenza. Come un liquido che si adatta al contenitore. Partendo da un singolo disegno si può ottenere un range infinito di stili, dal chiarissimo al black, senza dover più accettare il compromesso di un limitato numero di breakpoint intermedi.
Per produrre la tecnologia necessaria a gestire il tutto, nel 2016 hanno dovuto sedersi allo stesso tavolo Adobe, Apple, Google e Microsoft. Era un tavolo molto grande. Lì è nata la magia: un singolo font-file che contiene tutte le possibili versioni di se stesso. Qualcosa capace di bucare lo spazio-tempo, o quantomeno di portarci nuovi punti di vista. Efficiente e leggero, di conseguenza più sostenibile (anche i file inquinano).
L’intuizione alla base: prendi una lettera nel suo peso-forma ideale, definisci come appare nella sua versione più chiara e in quella più bold. Tramite i processi di interpolazione ed estrapolazione (in breve, delle previsioni numeriche) si possono generare infinite versioni del carattere, comprese fra i due estremi. Questi stili intermedi è il software a disegnarli.
Variable significa libertà. La libertà di immaginare un’entità testuale come se fosse un colore, potendo scegliere una precisa tonalità tipografica su una scala infinita. Non dovete immaginare che sia una cosa per pochi: anche Adidas ha adottato i variable per la propria comunicazione.
Questo approccio non fa che seguire un cambiamento già in atto nel più ampio campo della comunicazione: l’indeterminazione visiva dei brand, a favore di un nuovo concetto di identità. Una comunicazione non più legata ad antiche norme. Fluida, adattiva, context specific, esplosiva. Come l’identità della New School (Pentagram), la nuova segnaletica outdoor per le ferrovie dei Paesi Bassi (Studio Dumbar), l’intero sistema visivo di Dropbox (Sharptype), che trae energia in primis dall’impianto tipografico.
Niente più sacralità del logotipo. Niente più caratteri di stampa limitati e statici. Niente più tinte dichiarate. Rendiamo omaggio a Paul Rand e andiamo avanti. La comunicazione visiva si è fatta elastica per raggiungere la pluralità. Tutto è in divenire, il nostro è un costante esercizio di ricalibrazione.
I brand già lo sanno.