Le donne dai passi grandi quanto colline.

Ovvero l’arte grafica e i racconti che non ti aspetti da una bottiglia di grappa.

Fabio Servolo
Controforma
3 min readDec 17, 2019

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In visita alle Langhe, sulla bicicletta in pieno inverno, quando tutta l’uva è già dentro le bottiglie e non più sopra i vigneti, mi sono fermato a Neive. La via perimetrale del borgo antico si percorre in pochi minuti. Crea un anello così stretto che ci si ritrova facilmente al punto di partenza, lasciando un po’ di disorientamento. Solo al terzo giro noto l’insegna della Casa della Donna Selvatica. Si tratta di un luogo dedicato alla preziosa grappa prodotta dai fratelli Lidia e Romano, storica famiglia Levi. Un’acquavite unica, collezionata e degustata anche molto lontano da queste colline.

Pochi passi oltre, la camera dove avrei passato la notte. Ad accogliermi una locandiera che sembrava esser lì a custodia di imprecisi ma appassionati racconti storici. È bastato accennare una domanda per avere in cambio alcuni aneddoti. La parte migliore del viaggio, meglio anche dei piatti di ravioli caserecci, inquadrati dall’alto, per accontentare Instagram.

I racconti proseguono e si arriva finalmente a Romano Levi. «Andava in giro per il paese a dire che la sua grappa era meglio non berla, ma non poteva stare lontano dalle sue creazioni». Una persona più appagata dal fare l’artista che il produttore di grappa. E in quella ingenuità per un attimo mi ci sono ritrovato.

La Grappa della Donna Selvatica è pura poesia visiva. Ogni singola etichetta è stata disegnata a mano, creando un ventaglio di visioni diverse ma coerenti fra loro. Una grande opera di label design multisoggetto, prima che il concetto di progettazione visiva arrivasse fin qui.

Sembra che la Donna Selvatica fosse una figura già presente nella cultura contadina delle Langhe. Una presenza iconica molto forte, un po’ strega, un po’ fata. Un’eroina che con un passo “scavalica le colline”. Un’anima che testardamente resiste, qui dove “le colline rappresentano le difficoltà che tuttora il mondo femminile deve affrontare per realizzarsi nella nostra società”, citando Levi stesso. Una donna difficilmente inquadrabile, per nulla attenta alle apparenze, indipendente e fiera.

Romano le raccontava così, ripensando alla sua infanzia: “andavo a scuola attraversando le vigne. Tra i filari c’erano spesso i ciabòt, minuscoli ripari dove i vignaioli e i contadini si rifugiavano. Io passavo di lì al mattino e a volte vedevo sbucare da questi ripari donne belle e scarmigliate, un po’ pazze, solitarie, che vivevano spesso ai margini della società paesana. Erano misteriose, senza vincoli. Erano libere, come dovrebbero essere tutte le donne per vivere la parte migliore della vita”.

La grappa di Levi è un distillato di emancipazione femminile e arte della confezione. Temi fra loro distanti, che a volte coesistono nella giornata lavorativa di chi fa comunicazione.

C’è bisogno di essere un po’ selvatici per riuscire a saltare queste colline con un solo passo. A me invece erano sembrate creature docili, finché non ho deciso di affrontarle con qualche borsa e una bicicletta. Pesante, anche se carica solo del necessario. Non è la singola collina che ti spacca le gambe, ma il loro ripetersi. Nessuna spicca particolarmente, eppure sommate ti scavano il polpaccio in cerca di acido lattico.

E tu ti lasci divorare, distratto dalla bellezza.

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