Make typography great again

Fabio Servolo
Controforma
Published in
3 min readOct 9, 2018

Fra le capacità (o presunte tali) di Donald Trump, una va sicuramente presa in considerazione: l’autopromozione.

Trump ha raggiunto grandi risultati in termini di personal branding nonostante la distanza dai canoni classici che il branding ci impone, e questo non me lo rende simpatico. Ha partecipato alla stesura di Trump University Branding 101, in cui offre la più breve discussione sulla progettazione, semplicemente “non ti serve un’agenzia per creare il tuo marchio”. Non riconoscere ad altri una competenza è sempre di gran moda.

Anche prima della sua candidatura la linea d’azione già era chiara. La gigante insegna della Trump Tower è assemblata con una tipografia pesantemente bold e slab, precisamente composta in Stymie, carattere ispirato dalle Campagne d’Egitto di Napoleone, riferimento probabilmente involontario.

Ma un secondo riferimento ai grandi imperi lo si trova nell’altro grande carattere al quale le attività di Trump sono abituate a far riferimento, il Trajan. Carattere che porta in sè gli attributi stilistici delle lettere romane e prende il suo nome dalla colonna di Traiano. L’idea di grande impero inizia lentamente ad emergere. Ci si chiede quanto sia casuale questo innesto di dozzinale autorevolezza e sincera bruttura che accompagna ogni sua attività di comunicazione.

Ripartiamo dalla campagna elettorale, visivamente scoordinata, che l’ha reso presidente. Una scelta tipografica silente (anzi assente) quasi a bilanciare il chiasso perpetrato lungo tutta la candidatura. La concezione del design come processo meditato e intenzionale sembra venire a meno, in favore di una nuova estetica basata sulla de-progettazione, ma estremamente mirata e funzionale.

Un articolo di Wired recitava:

“la scelta tipografica di Trump segue alla perfezione molti cliché a cui siamo abituati, esattamente il tipo di lettering che un commerciante di Cadillac dovrebbe avere sul suo biglietto di visita”.

Una composizione creata su un file di testo, scritta e non riletta, mandata in stampa. Approccio diametralmente opposto a quello di Hillary, che andò a scomodare addirittura Michael Bierut, Pentagram, che a proposito di Trump commentò qualcosa del genere: “Trump ha trionfato non malgrado il suo terribile design, ma piuttosto grazie a quest’ultimo”.

Uno degli elementi identificativi delle elezioni 2016 è stato l’onnipresente cappello rosso da baseball (ne parlò anche il Washington), con sù cucite poche semplici parole in Times New Roman: “Make America Great Again”.

Trump è riuscito, con questo tiro di sponda, a mettere in risalto il linguaggio morbido e coordinato di Hillary, a tratti elitario e pretenzioso. La sua campagna è stata come un “pain in the ass”. Ecco perchè ha funzionato. Ha probabilmente colto tramite l’analfabetismo comunicativo i disagi di un diffuso analfabetismo culturale.

Una cosa ci portiamo a casa: i processi di comunicazione funzionano solo se il linguaggio è appropriato al contesto. Il tono di voce della precedente campagna Obama era stato molto apprezzato (anche) per una corretta scelta tipografica associata ad un messaggio di speranza che era nell’aria da tempo, e aveva raggiunto quella maggioranza di elettori che guardava al futuro.

Gli elementi visivi di Trump sono stati esercizi di estetica populista, intangibili, indefiniti, disconnessi, replicabili dalla mano di chiunque. Risultato di una diffusa sfiducia nei confronti di quell’estetica aziendale pulita e ben confezionata, tipica di una sinistra moderata che si crede migliore di un Times New Roman su un berretto da baseball. Questa banale (non)scelta tipografica è probabilmente in sè una dichiarazione politica.

Esiste un dibattito visivo, oltre che politico, sotto i nostri occhi. Coglierlo o ignorarlo, dipende tutto dalla nostra attenzione.

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