Muoversi in bicicletta: non serve un casco ma un progetto

C’è della confusione, quindi proviamo a chiarire.

Fabio Servolo
Controforma
6 min readJun 9, 2023

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Ciclicamente qualcuno torna a parlarne: il casco come soluzione unica e finale al più ampio tema della sicurezza stradale dei ciclisti. Quest’anno lo sprint estivo arriva dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini, che avrebbe intenzione di modificare il codice della strada «prevedendo casco, assicurazione, targa e freccia obbligatoria» per le biciclette. Ma l’uso del casco e il miglioramento della sicurezza non sono così linearmente connessi fra di loro. Sembra controintuitivo ma il casco sarebbe un deterrente e non risolverebbe affatto il tema della sicurezza.

Illustrazione originale di Valentina Bongiovanni

Anche il 2019 aveva visto nascere nuove proposte. Nel testo si citava uno studio — non condotto tra l’altro a livello nazionale — che risaliva addirittura agli anni ’70. Prima ancora, nel 2015, un disegno di legge simile era arrivato dal governo Renzi, al quale curiosamente Salvini si era opposto, scomodando anche l’hashtag #labicinonsitocca. La cronologia degli eventi ci insegna quindi che questa necessità di normare, limitare e costringere il ciclista esiste a prescindere dallo schieramento politico ed è ciclica come le maree.

Il linguaggio dei quotidiani tende a porre l’accento sulle presunte categorie, ciclisti, pedoni, automobilisti, come fossero entità distinte, invitandoci indirettamente a schierarci. Si tratta invece di una partita per la quale non c’è davvero bisogno di tifoserie. Questo tipo di linguaggio dà ulteriore respiro alle dinamiche della autoassoluzione collettiva: quando un ciclista muore non è mai colpa di nessuno se non del ciclista stesso. Se stava in strada un po’ se l’è cercata, un po’ di colpa sicuramente l’aveva, per il semplice fatto di trovarsi lì, quando invece poteva stare da tutt’altra parte, e non aveva neanche il casco quindi perché lamentarsi: questo il presupposto di partenza. Ci sono ogni anno molti più morti fra i pedoni e fra gli automobilisti, eppure ormai se ne parla meno, o distrattamente, perché viene percepito come un accettabile costo da pagare in cambio della mobilità veloce.

La logica dell’obbligo

Qualche osservazione non per tutti spontanea: perché la più grande associazione per la difesa dei ciclisti, FIAB, è contraria all’imposizione del casco? Il legislatore ha guardato cosa emerge dai grandi numeri di chi, fuori dall’Italia, ha già reso valido l’obbligo? I legislatori hanno notato che nelle sempre citate case study di Paesi Bassi, Germania e Danimarca il casco non è obbligatorio eppure la mobilità non ha un problema di sicurezza?

C’è da far caso anche alla scelta delle parole. Generalmente nei comunicati e nei disegni di legge si parla di obblighi e non di sicurezza, di sanzioni e non di protezione, suggerendo indirettamente che il ciclista sia l’unico responsabile della propria incolumità, infondo. Non voglio parlare di “bias” perché è un termine che non amo, ma leggo una chiara incapacità collettiva di affrontare il tema con una linea mentale basata sull’osservazione e sull’oggettività. I preconcetti sul tema sono così radicati da rendere impossibile l’inizio di un qualsiasi dialogo pubblico.

Non stiamo parlando di agonismo né degli amatori che in bicicletta ci vanno cercando di migliorare il tempo nella loro salita di riferimento. Parliamo di tutti gli altri, delle tante piccole bolle di persone che unite formano il grande insieme di chi usa le due ruote per ogni scopo che non sia la performance. Parlando di mobilità dolce, paradossalmente, imporre l’uso del casco potrebbe scoraggiare quei pochi che con timidezza e fatica hanno in questi anni iniziato a usare la bicicletta per gli spostamenti urbani. È stato osservato che chi indossa il casco tende a sentirsi più protetto e di conseguenza è disposto ad assumersi maggiori rischi durante la guida, aumentando il divario fra sicurezza reale e percepita.

Il passo medio di una bicicletta in città è di appena 15 km/h e il casco è progettato per sopportare un urto equivalente a 25 km/h. È quindi un dispositivo tarato sul sistema chiuso del ciclista, coprendo tutte le casistiche che vanno dall’urto fra due ciclisti all’impatto con un oggetto fermo. Ma se introduciamo nel discorso i mezzi a motore, la velocità si alza, e tutto cambia. A livello statistico un impatto frontale a 50 km/h porta il ciclista al 50% delle probabilità di morte. Già da questi semplici dati si intuisce che per salvare vite l’intervento fondamentale non è obbligare l’uso del casco, ma limitare le probabilità che automobili e biciclette entrino in collisione.

Chi indossa il casco tende a sentirsi più protetto e di conseguenza è disposto ad assumersi maggiori rischi durante la guida, aumentando il divario fra sicurezza reale e percepita.

La potenziale mortalità in un incidente è infatti più che proporzionale alla velocità d’impatto. I due aspetti ai quali dedicare la nostra attenzione dovrebbero essere le infrastrutture e la percezione, individuale e collettiva. Attraverso migliori spazi dedicati e una corretta percezione della nostra presenza in strada, in relazione a quella degli altri, i ciclisti sarebbero in sicurezza, al di là del casco. Il che non significa opporsi all’uso di questo dispositivo di sicurezza, o negarne l’utilità, ma riconoscere che le due questioni — la sicurezza, e uso del casco, appunto — si toccano in alcuni punti ma non coincidono affatto tra di loro.

Sul tema si era espresso con grande efficacia anche il Guardian.

Percezione e comunicazione

Lì dove i grandi numeri impattano sulla percezione del singolo utente della strada, nasce il concetto di safety in numbers: maggiore è il numero di ciclisti nelle strade, maggiore sarà la loro sicurezza. Chi guida un’automobile diventa più consapevole della presenza delle due ruote e migliora la capacità di anticiparne i movimenti nel flusso del traffico. Più ciclisti incontriamo e meno ci sembrerà che occupino abusivamente uno spazio. Cambia l’esperienza del singolo e cambia di conseguenza la percezione collettiva, decentrando l’automobile dal sistema dei trasporti. Dobbiamo smettere di usare la bicicletta perché è un mezzo pericoloso? Esattamente il contrario. Dobbiamo usarla sempre di più, in modo che risulti meno pericoloso sceglierla, per tuttə.

Safety in numbers è il concetto per il quale maggiore è il numero di ciclisti nelle strade, maggiore sarà la loro sicurezza.

E nel parlarne scegliamo meglio le nostre parole: non più obblighi e sanzioni, ma diritti e sicurezza, i termini che usiamo sono il riflesso diretto delle nostre costruzioni mentali. È necessario invitare alla serena convivenza ogni abitante della strada nel momento in cui lo stiamo educando, ovvero nelle scuole. L’assenza di una cultura del rispetto e di un approccio progettuale ci fa concentrare sull’elemento a valle, molte volte più appariscente delle dinamiche a monte.

Nessun mezzo è definibile pericoloso di per sé, in quanto oggetto. L’intero discorso si poggia su aspetti più ampi che riguardano cultura, sensibilità, esigenze collettive e individuali, infrastrutture, sostenibilità. Ma andando oltre gli aspetti più tecnici, pedalare è un esercizio di libertà, qualcosa che dovrebbe essere possibile fare con il semplice debito di qualche goccia di sudore, un modo delicato di attraversare il proprio paesaggio, accorciare tempi e distanze, dilatare le esperienze, e respirare.

Insieme alle ciclabili, disegniamo nuove campagne di sensibilizzazione, più vere e più belle, che parlino di storie positive e di futuro, non di avvertimenti e sensi di colpa, ribaltiamone i toni e i paradigmi. E lasciamole disegnare ai creativi, non ai tecnici. Ridefiniamo gli elementi base per un nuovo linguaggio che sappia proporre, svincolato dai binari della retorica, nuovi atteggiamenti inclusivi, per ricordarci che tutti siamo ugualmente legittimati a usare lo spazio pubblico.

Mettiamocelo in testa.

Nota a margine per chi condivide con me le strade di Torino: chi lo desidera può unirsi alle tante manifestazioni, eventi, comitati che già operano, e portare il proprio contributo. Segnalo l’iniziativa Bike to School, il Cargo Bike Day e la parata del Bike Pride creata dall’omonima associazione che ogni anno consegna una proposta politica o tecnica all’amministrazione comunale di Torino.

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