Il nome di Salvatore “Totò” Riina fa paura. Fa paura per ciò che rappresenta, per ciò che sappiamo ha fatto e che gli è costato sedici ergastoli, e per la rete di contatti che ad oggi lo attenderebbe all'esterno del carcere. Il suo nome provoca disgusto, rabbia, e a molti un giustificatissimo desiderio di giustizia sommaria. Quella che soddisfa le folle e che nell'immaginario collettivo dovrebbe rendere vendetta a bambini sciolti nell'acido, madri uccise, bombe, famiglie di magistrati e poliziotti e mille nefandezze che quest’uomo ha ordinato.
Salvatore “Totò” Riina ha oggi 87 anni, due neoplasie e vari malanni giudicati debilitanti. A partire dal 1995 è stato sottoposto a regimi sempre più duri di carcerazione, compresi il cosiddetto 41 bis, con ulteriori restrizioni vista la pericolosità che rappresenta ancora oggi nei confronti di collaboratori e legali, più volte minacciati durante i vari processi.
In questi giorni se ne sta parlando molto, a causa di un facile fraintendimento che suggerirebbe una volontà di scarcerazione ed un regime di libertà vigilata a causa dell’aggravarsi della salute di Riina da parte della Corte di Cassazione.
Non è proprio così.
In primo luogo i giudici della corte di Cassazione non hanno mai chiesto la scarcerazione del boss, e in secondo luogo non potrebbero materialmente farlo, perché non è a loro che spetta questo tipo di decisione.
Ma allora perché si è alzato questo polverone mediatico?
Per capirlo dobbiamo tornare a maggio 2016, quando il tribunale di Bologna — che ha l’autorità per decidere in materia — ha respinto la richiesta dei legali di Riina di detenzione domiciliare o sospensione della pena per ragioni mediche.
Senza scendere in tecnicismi legali, tutto ciò che la Corte di Cassazione ha fatto è stata rimandare la valutazione al tribunale di Bologna chiedendo motivazioni più specifiche per i rifiuto.
Quindi no, Riina non sta per essere scarcerato. Semplicemente la Corte di Cassazione ha fatto il proprio lavoro: si è assicurata che ogni persona che passi per un tribunale italiano, anche la peggiore, possa avere sentenze eque ed effettuate a norma di legge, perché è così che andrebbe fatto in uno stato di diritto.
Tanto però è bastato.
L’indignazione generale si è scatenata, perché per il visitatore medio di Facebook la giustizia è una rupe da cui lanciare gli ingiusti mentre ci si compiace a suon di like e citazioni di Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa o Piersanti Mattarella. Tutte persone che nell’arco della propria esistenza hanno rischiato la vita proprio per garantire che non ci si affidasse alla rabbia o all’egoismo dei singoli uomini, ma alla garanzia di uno stato sufficientemente retto per proteggere i diritti di chiunque.
Perché i singoli si muovono per rabbia, noi per primi, e desiderano vendetta nei confronti di un criminale del genere, lo stato deve mediare tra i diritti di un carcerato e la sua pena.
“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”
A scriverlo non è un qualche autore, ma i padri costituenti nell’articolo 27 della nostra costituzione.
Costituzione parzialmente tradita anche da parte del regime 41bis (comunemente definito carcere duro), a cui è sottoposto Riina, che nel 1995 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti ha individuato come restrittivo per i diritti fondamentali dei carcerati.
Con ogni probabilità Riina non uscirà dal carcere. Perché le sue condizioni possono essere trattate anche dietro le sbarre, perché è ancora considerato un individuo pericoloso e perché non ci sono gli estremi legali perché questo avvenga.
Con ogni probabilità morirà sottoposto al regime 41 bis, regime contro cui ogni giorno si scagliano associazioni contro la tortura, ma che finché colpisce un boss mafioso ci trova tutti zitti.
Noi compresi, perché in fondo anche a chi scrive piacerebbe vedere Riina morire così come ha ucciso tutte le proprie vittime: senza dignità.
Ma noi non siamo garanti dei diritti di ogni persona che viene inserita nel sistema giudiziario italiano. Noi siamo solo persone che si sfogano su Facebook e fanno della propria rabbia il primo motore delle proprie azioni.
Noi non abbiamo in mano il destino di nessuno, fosse anche quello di Totò Riina.
E meno male.