La lunga tortura italiana

Valerio Mocata
Controverso Magazine
7 min readJul 10, 2015

Una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura[…] Quest’abuso non dovrebbe esser tollerato nel decimottavo secolo.

È il 1764 e Cesare Beccaria pubblica Dei delitti e delle pene, un testo chiave per l’Illuminismo Italiano, che già nel diciottesimo secolo taccia come infame la pratica della tortura nei confronti di rei e innocenti. Il suo testo — d’ispirazione per i padri costituenti americani e i regnanti di mezza europa — pur comprendendo delle falle in linea con l’epoca, segna una data storica nel processo di rivoluzione del concetto giuridico di pena. È proprio sull’onda del successo del libro che nel 1786 il Granducato di Toscana — primo al mondo nel farlo — abolisce tortura e pena capitale dal proprio ordinamento.

Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti.

È il 1948, le folli ferite dell’Olocausto sono ancora troppo fresche per essere ignorate, e l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva e proclama la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. In essa sono riassunti tutti quei diritti naturali di cui ogni essere umano dovrebbe poter godere senza distinzioni di sesso, razza, età, religione, credo politico o altro genere. Tra essi figurano quisquilie come il diritto alla libertà, alla vita, alla sicurezza. Certo, si deve attendere il 1984 per avere una presa di posizione chiara e univoca contro il reato di tortura e la si ottiene con la Convenzione di New York, durante la quale viene approvata la risoluzione che, oltre a definire il reato di tortura, prevede che gli stati membri si conformino e rendano perseguibile tale reato nei propri ordinamenti giuridici interni.

È il 1998, e l’Italia ancora non si è conformata. Sono passati quattordici anni dalla convenzione di New York e — ironicamente — proprio a Roma viene approvato lo statuto della Corte Penale Internazionale. Una corte che è chiamata a pronunciarsi contro i più gravi crimini internazionali, tra cui la violazione dei diritti umani comprendente proprio il reato di tortura.

È la notte tra il 21 e il 22 luglio 2001, e a Genova si è appena concluso il G8. Circa 300 poliziotti circondano la scuola Armando Diaz — utilizzata come l’ufficio del Genoa Social Forum per le attività degli avvocati, degli operatori sanitari e dei mezzi d’informazione indipendenti — e poco dopo la mezzanotte forzano il portone d’ingresso iniziando a scagliarsi contro chiunque riescano a trovare: gente già inginocchiata e con le mani alzate, persone ancora nei propri sacchi a pelo, donne, persone mature che implorano pietà. Ma la pietà non c’è stata per nessuno. L’elenco di abusi non si conclude con l’irruzione, ma prosegue per tutta la notte e per i giorni e mesi a seguire. È un elenco che comprende percosse, minacce di stupro, teste rasate e cori fascisti e — non in ultimo — menzogne per coprire tutte le angherie precedenti.

La Corte conclude per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione — a causa dei maltrattamenti subiti dal ricorrente che devono essere qualificati «tortura» ai sensi di questa disposizione — sia sotto il profilo sostanziale che procedurale.

È il 7 aprile 2015, e la Corte Europea dei Diritto dell’Uomo si pronuncia contro l’Italia. Non contro i poliziotti che sono entrati alla Diaz nè contro i loro mandanti. Ma contro tutto lo stato italiano. Aggiunge poi che è necessario che l’ordinamento giuridico italiano si doti degli strumenti giuridici atti a sanzionare in maniera adeguata i responsabili degli atti di tortura o di altri maltrattamenti.

È il 9 aprile 2015 e Fabio Tortosa — poliziotto del reparto mobile di Roma e dirigente sindacale Consap — esplode su Facebook con la seguente dichiarazione, poi cancellata dalla propria bacheca:

Secondo Tortosa non ci sono mezze misure. Secondo lui o stai con quella merda di Giuliani o stai con quelli che a Giuliani fanno saltare la testa. Secondo lui tutta la gente che quella notte è stata — e ora possiamo dirlo — torturata, lo meritava. Certo, non è l’unico a pensarla in questo modo.

La sentenza della Corte è stata accolta nel Belpaese con indignazione da parte di molti. Per i fatti avvenuti? Perché l’Italia ancora non ha un reato di tortura? Per le dichiarazioni di Matteo Salvini che ha accolto la sospensione di Tortosa in seguito alla sua dichiarazione come un fatto ignobile? No: i benpensanti italioti si sono scandalizzati per il fatto che la Corte si sia impicciata degli affari nostri condannando le azioni di quei santi dei nostri poliziotti, che ovviamente altro non hanno fatto che il proprio dovere massacrando circa 220 pesone. Hanno commentato, scritto, condiviso e apprezzato parole ignobili, parole che ancora una volta hanno dimostrato come a livello internazionale possiamo fare gran figure barbine e comunque tenerci le fette di salame sugli occhi.

È il 7 luglio 2015 — ormai sono più di dieci anni che in un modo o nell’altro nelle aule italiane si discute del reato di tortura, rimpallando disegni di legge, emendamenti, proteste e controproposte tra gli organi di governo — e il senato ha approvato non tanto una legge, quanto una barzelletta. Il disegno originariamente presentato nel 2013 da tre senatori del PD è stato talmente stravolto che rischia di rappresentare un insulto non solo a tutte le 222 persone che sono state torturate durante la loro detenzione nella caserma di polizia di Genova Bolzaneto, ma a tutte quelle persone che negli anni sono state private della libertà, maltrattate, uccise, seviziate e derise senza poter ottenere altra giustizia che non le briciole concesse loro da uno stato che non merita nemmeno la lettera maiuscola.

Secondo il Senato della Repubblica Italiana e la Commissione di Giustizia presieduta dall’Onorevole Nitto Palma si macchia del reato di tortura solo chi commetta violenze o minacce gravi nei confronti di qualcuno affidato alla sua custodia o privato della libertà personale. Il senato ci teneva così tanto a precisare la necessità che le violenze siano multiple e reiterate che ha modificato il ddl originale, piazzando al plurale queste belle parole. Il che significa che se un poliziotto o chiunque sia in grado di privare un individuo della libertà personale si limitasse solo una volta ad imporre cori fascisti, picchiare, rasare e minacciare di stupro qualcuno, potrebbe essere assolto dal reato di tortura perché un giudice molto solerte potrebbe stabilire che in fondo il fatto è successo solo una volta, prima che la vittima fosse lasciata andare.

Le sofferenze psichiche causate devono poi essere verificabili. Quindi chiunque — ovviamente più volte — abbia dovuto intonare cori fascisti dietro minaccia di pestaggi, sia stato picchiato, rasato e minacciato di stupro dovrà farsi visitare da qualcuno che possa stabilire se tutte queste cose l’hanno effettivamente segnato. Giusta innocenza fino a prova contraria, direbbero i sostenitori del garantismo, ma fino a che punto ci si può aspettare che un trauma simile possa essere verificato? Specie con i tempi che vanta la giustizia italiana? Interrogare la vittima di una tortura dopo dieci anni per scoprire se effettivamente tale tortura l’ha psicologicamente devastata, non è di per sé una presa per il culo? Chi può stabilire per quanto tempo possa resistere traccia di tale abuso?

ovvio che nessuno è a favore del reato di tortura, come è giusto che chi ha sbagliato alla Diaz paghi, ma la legge sul reato di tortura è sbagliata e pericolosa.
– Matteo Salvini –

Ovviamente questa parodia di disegno di legge non è un fulmine a ciel sereno.

Arriva a poche settimane dall’ultima protesta del Sindacato Autonomo di Polizia, alla quale ha partecipato anche Matteo Salvini, che ha dichiarato: “La Corte europea dei diritti umani potrebbe occuparsi di altro. Per qualcuno che ha sbagliato non devono pagare tutti. Carabinieri e polizia devono poter agire liberamente. Se un delinquente cade mentre è fermato e si sbuccia un ginocchio, cazzi suoi. Poi se qualcuno sbaglia paga, anche doppio, ma parliamo di poche unità”.

Arriva a poche settimane dalla decisione della Commissione di Giustizia di ascoltare solo i capi di tutte le forze di Polizia, senza degnare di un incontro anche i rappresentanti delle organizzazioni per i diritti umani e gli accademici, come invece aveva fatto la Camera dei deputati.

Arriva perché al centro della discussione degli ultimi dieci anni non c’è la volontà di impedire che altra gente possa essere maltrattata, minacciata e uccisa, ma la premura non configurare un reato a discapito degli organi di polizia di polizia.

Arriva pesando sul ricordo delle 222 persone torturate a Genova, di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Stefano Gugliotta, Riccardo Rasman, Franco Mastrogiovanni e molti altri i cui nomi si perdono nelle storie di impunità della nostra giurisprudenza.

Arriva con la speranza che la Camera ne faccia carta straccia e che — a costo di dover aspettare altri dieci anni come nella miglior tradizione italica — un giorno potremo avere una legge che non ci faccia passare per un popolo incapace di indignarsi se non a tragedie avvenute.

Originally published at www.controversomagazine.com on July 10, 2015 by Linda

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